Il Brasile del presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha fatto grandi progressi nell’area sociale, è riuscito a rendere solido il proprio sistema economico e finanziario, e soprattutto sta acquisendo un peso sempre crescente nello scenario geopolitico mondiale, e l’assegnazione dell’organizzazione di manifestazioni globali, quali i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi carioca del 2016, è una ulteriore dimostrazione che per l’eterno «Paese del futuro», il futuro è arrivato. Nonostante tutto questo, non riesce a sconfiggere la violenza di gruppi organizzati dediti al traffico di droga – che terrorizzano varie metropoli, ma sopra tutto Rio de Janeiro – né a contenere la piaga della microcriminalità.
Le immagini dell’elicottero della Polizia militare abbattuto dai narcotrafficanti hanno sbalordito il mondo intero, e macchiato l’immagine di una città che proprio in quei giorni si trovava al centro dell’attenzione dei media per l’assegnazione dei Giochi olimpici. Inevitabilmente, gli scontri di quelle giornate – costati trentatré morti, tra agenti, passanti colpiti per errore da pallottole vaganti, le bala perdida, e banditi giustiziati sommariamente sul posto dalla polizia – hanno rimesso in discussione la legittimità di Rio olimpica.
«Siamo fiduciosi che i brasiliani troveranno la giusta soluzione e le contromisure per risolvere tutto questo», ha dichiarato il presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio), Jacques Rogge, quasi a voler spegnere sul nascere la polemica innescata da certa stampa internazionale. («Rio riuscirà a risolvere il problema prima delle Olimpiadi?», titolava maliziosamente il “New York times”).
In ogni caso, la comunità internazionale e l’intera società civile brasiliana chiedono una soluzione immediata per contenere quel crimine organizzato che ha provocato gli scontri dello scorso 17 ottobre, e i tragici eventi che il segretario alla Sicurezza dello Stato di Rio de Janeiro, José Mariano Beltrame, ha definito il «nostro 11 settembre». Ma si chiede altresì di sradicare la violenza banale e gratuita, ben rappresentata dall’agonia e dalla morte di Evandro João da Silva, il coordinatore dei progetti sociali di Afroreggae, (la nota associazione culturale carioca è nata nel 1993 nella favela Vigário Geral, ndr). Il grave episodio, impietosamente documentato dalle telecamere di sorveglianza, dà un’ulteriore conferma delle storica connivenza tra la Polizia militare e il banditismo: non soltanto una pattuglia di passaggio non soccorre la vittima agonizzante, ma dopo aver fermato i rapinatori omicidi, gli agenti si appropriano della scarsa refurtiva – una paio di scarpe e una giacca – e lasciano andare i colpevoli.
Per affrontare questo problema dalle dimensioni abissali, e che minaccia concretamente la stessa sicurezza nazionale, sarà necessaria la mobilitazione dell’intero Paese. Delle 1020 favela che popolano Rio, ben 470 sono controllate da una malavita sempre più violenta, che si finanzia soprattutto attraverso lo spaccio di stupefacenti, la cocaina in particolare: si stima che siano trafficate circa venti tonnellate all’anno di polvere bianca, per un ricavo di trecento milioni di real, in buona parte reinvestiti in una folle corsa agli armamenti.
Il dibattito scaturito da questo stato di cose – che ha coinvolto non solo le autorità e le associazioni impegnate sul territorio, ma la stessa opinione pubblica – ha fatto emergere alcune questioni controverse, che andranno affrontate in modo deciso, se si vuole che la cidade maravilhosa – immagine di un Paese che sta consacrandosi come nuova potenza mondiale – cessi finalmente di essere anche un pessimo esempio di guerriglia metropolitana. Poiché se è vero che le cause primarie della violenza coincidono con la miseria in cui vivono ancora vasti strati della popolazione, e con l’ingiusta distribuzione delle risorse economiche, va anche detto che alcune agevoli inversioni di rotta potrebbero ridurre le dimensioni del problema. Ma andiamo con ordine.
In primo luogo si dovrà decidere se continuare con le politiche proibizioniste, all’insegna dello slogan «quem cheira mata» («chi sniffa uccide» in portoghese, ndr) – sul presupposto che è il consumatore a finanziare direttamente le bande criminali – oppure se è giunto il momento di dar seguito ai richiami del governatore di Rio, Sérgio Cabral. Questi si è infatti dichiarato a favore della legalizzazione delle droghe giacché, a suo parere, gran parte della criminalità carioca è conseguenza della proibizione, in termini di vendita e uso, delle sostanze stupefacenti. «Molti dei crimini che avvengono nel mio Stato e nella città sono causa della proibizione», ha dichiarato alcuni mesi fa, «molti giovani muoiono nella guerra per i punti di vendita della droga». Del resto non è un mistero per nessuno che le bande criminali lucrino soprattutto sull’illiceità di questo mercato.
Altri mettono all’indice la contiguità di svariate personalità pubbliche, in primis attori e calciatori, con i capibanda del narcotraffico: tutto ciò ha l’effetto di conferire legittimità sociale alla malavita, e finisce per alimentare un culto del crimine dalle conseguenze funeste.
I nodi da scogliere più delicati riguardano tuttavia il rapporto tra le gang e le aree da esse controllate. Secondo una teoria solo in apparenza azzardata, non poche personalità pubbliche locali, cioè consiglieri comunali e deputati statali, beneficerebbero dell’esistenza e quindi dell’ampliamento delle favela ove, per evidenti ragioni, la malavita è destinata a radicarsi. Lo schema è semplice: il politico crea un centro sociale che fornisce servizi di cui dovrebbe occuparsi il potere pubblico, e in cambio si assicura il voto di quella comunità. Così non solo le iniziative destinate a rimuovere le baraccopoli, e ad allocare altrove i loro abitanti, vengono immancabilmente bloccate dalle stesse autorità locali, ma il processo di favelizzazione di Rio prosegue senza sosta: negli ultimi 5 anni, il numero di insediamenti non autorizzati è aumentato da 750 a 1020.
E se tutti sono concordi sulla necessità di combattere l’idea falsa del criminale buono che aiuta la comunità (soprattutto per il fascino perverso che esercita sui più giovani) – quando invece è evidente che il narcotraffico non solo pratica torture e brutalità di ogni genere, ma decide della vita e della morte di migliaia d’innocenti – le opinioni si fanno più variegate di fronte alla delicata questione delle milizie. In passato il Governo statale, per contrastare i trafficanti, ha incoraggiato la creazione di gruppi armati, composti di poliziotti fuori servizio, ex poliziotti, pompieri e semplici cittadini.
Queste ronde in salsa verdeoro – che in molti continuano a difendere, e che ad oggi controllano 170 favela carioca – spesso sono riuscite a sopraffare le locali gang, ma quasi sempre hanno finito per installare nell’area il proprio regime del terrore. Lucrano illegalmente su svariati servizi (dai trasporti alla vendita del gas, sino alla televisione via cavo), e non risparmiano torture e omicidi nei confronti di chi cerchi di ostacolarle.
Le milizie, che a volte riescono a legalizzarsi come associação de moradores (associazione degli abitanti, ndr), mantengono spesso stretti legami con qualche politico locale, cui assicurano un ingente pacchetto di voti.
Se è vero che combattere il crimine con altro crimine, al di là della questione etica, non ha dato i risultati sperati, è innegabile che la corruzione della polizia – e la conseguente inettitudine – rappresenti una assoluta emergenza.
A Rio la crisi dell’ordine pubblico ha connotati diversi, rispetto alle deficienze, comunque gravi, che si riscontrano anche nel resto del Paese. (Il tasso di soluzione degli omicidi sfiora appena il 4 per cento, contro il sessanta di San Paolo, ndr). Qui le bande criminali usano la popolazione come uno strumento per rendere difficoltoso l’intervento delle istituzioni e l’azione della polizia: le comunità divengono di volta in volta scudi umani, ad esempio nel corso degli scontri a fuoco, oppure preziosi alleati, quando c’è da scatenare rivolte o incendiare autobus, o infine degli amici commossi, come succede durante i frequentatissimi funerali di delinquenti uccisi.
Un altro tema delicato riguarda il ruolo e la responsabilità del Governo federale. Gli avversari politici di Lula sostengono causticamente che poiché la guerriglia in atto non danneggia la popolarità del presidente, né incide sui fatidici sondaggi, questi cercherebbe di liberarsi pilatescamente della patata bollente, e di lasciarla nella mani di Stato e Municipio. Come noto, a Brasilia non compete la salvaguardia della pubblica sicurezza ed il controllo del territorio, se non limitatamente ai crimini federali, come ad esempio il narcotraffico internazionale; tuttavia è innegabile che l’Esecutivo in carica abbia sinora interpretato sin troppo alla lettera questa ripartizione delle competenze, tra l’altro evitando di svenarsi economicamente per correre ai ripari. Di recente il citato Beltrame ha polemicamente dichiarato che «in un nessun paese del mondo la polizia statale ha l’incarico di combattere i narcotrafficanti; men che meno quelli dotati di armi importate, che entrano attraverso le nostre frontiere e i nostri porti». All’appello dell’Amministrazione carioca ha risposto tempestivamente il ministro della Giustizia, Tarso Genro, facendo intendere che tra le preoccupazioni del Governo vi è anche quella di evitare che si formino tanti eserciti regionali: ha difeso dunque l’importanza di tutta una serie di passaggi burocratici, ad esempio i pareri richiesti alle Forze armate, che nei fatti impediscono agli stati federati di dotarsi di potenti armi da guerra, e di equipaggiare più pesantemente la Polizia militare.
Altri nodi da sciogliere riguardano il controllo del territorio da parte delle autorità, e il regime carcerario cui sottoporre i capi del narcotraffico. Alcuni osservano che nelle favela non si coltiva coca né si fabbricano armi, e quindi buoni risultati potrebbero ottenersi con un più stringente controllo delle vie d’accesso alle bidonville ed una più severa vigilanza nel porto di Rio. La struttura è definita comunemente un colabrodo: viene sottoposto a controllo solo un container su cento, quando è noto che in Brasile il traffico di stupefacenti via mare rappresenta addirittura il sessanta per cento del totale.
La pacificazione di Rio non potrà inoltre prescindere da una riforma del sistema carcerario. I penitenziari statali – fanno eccezione quelli federali di massima sicurezza – sono spesso nelle mani delle organizzazioni criminali, che non solo si finanziano liberamente con le contribuzioni versate dai familiari dei detenuti affiliati, ma continuano a pianificare nuove azioni di sangue, anche grazie alla complicità dei legali.
Se i più pessimisti ritengono impossibile affrontare il problema senza una radicale ristrutturazione della Polizia militare – che dovrà essere dotata di un efficiente servizio d’intelligence, coordinata efficacemente con la Polizia civile e quella federale, equipaggiata in modo adeguato, e sopra tutto depurata dalla connivenza col crimine – gli eterni ottimisti confidano nella crisi che sta aggredendo gli affari della mafia brasiliana. Danneggiate dal calo della domanda della cocaina (sostituta dalle droghe sintetiche), e dalla concorrenza degli spacciatori insospettabili di buona famiglia, le varie Comando vermelho (Cv) o Amigos dos amigos (Ada) starebbero vivendo una fase di forte declino economico. L’esordio nel mercato del crack, la droga dei miserabili, e la stessa recente guerra per un’aerea insignificante come il Morro dos macacos – sono convinti – non sarebbero altro che l’inizio della fine. Speriamo che abbiano ragione.
di Scritto da Francesco Giappichini (fonte: musibrasil.net)