La dimostrazione più efficace e convincente di quanto sia sbagliata la cosiddetta “legge Fini” sulla droga è venuta da Gianfranco Fini in persona: il quale in tv ha dichiarato agli italiani di essersi anche lui, in gioventù, fumato una canna (in Giamaica, per la precisione: che sarebbe come dire aver fatto la prima comunione in San Pietro). L’episodio – oltre a renderci ancor più simpatico il leader di Alleanza nazionale – dimostra in modo inoppugnabile che le canne non fanno male: tant’è che un ex consumatore, seppur occasionalissimo, è diventato un brillante vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Se qualcuno ancora pensava allo spinello come ad un’arma di distruzione di massa della gioventù, guardando e ascoltando Fini in televisione si sarà definitivamente ricreduto: si può fumare un po’ d’erba e poi meritarsi un ufficio a palazzo Chigi. Niente male come carriera, per un tossico.
Il fatto è che l’onorevole Fini non è affatto un tossico: non lo è per i suoi elettori e non lo è per il senso comune. Però ha fumato uno spinello. E dunque è un tossico per la legge che porta il suo nome. E’ una legge approvata in fretta e furia allo scadere della legislatura, sotto forma di subemendamento al decreto di copertura delle Olimpiadi invernali di Torino, e per di più con un voto di fiducia, cioè senza la possibilità per il Parlamento di presentare e discutere altri emendamenti. Lasciamo da parte il metodo a dir poco truffaldino scelto dalla maggioranza per trasformare in legge un progetto che da tre anni suscita polemiche e contrarietà (tant’è che in tre anni la maggioranza non è riuscito ad approvarlo). Lasciamo pure da parte la delega in bianco al governo per definire la nuova ‘modica quantità’. E lasciamo da parte anche i generosi finanziamenti a pioggia elargiti alle comunità private a totale discrezione della presidenza del Consiglio. E’ la filosofia della legge – cioè l’equiparazione fra derivati della cannabis e droghe pesanti – che è profondamente sbagliata. Come dimostra appunto il “caso Fini”.
La grossolanità dell’errore commesso dalla nuova legge è evidente a tutti. Perché sono diversi milioni gli italiani che più o meno occasionalmente fumano (il 26% della popolazione compresa fra i 15 e i 44 anni, secondo i dati del governo), e dunque appare ridicolo a chiunque considerare “criminale” un comportamento così diffuso e, soprattutto, così innocuo. Il che significa che il buonsenso, per una volta, sta dalla parte degli antiproibizionisti. Ed è proprio sul buonsenso che bisognerà far leva, nei prossimi mesi, per capovolgere una legge così evidentemente sbagliata in una normativa ragionevolmente antiproibizionista. Perché ciò avvenga, bisogna essere ragionevoli.
Sono almeno tre i fronti su cui si combatte la battaglia antiproibizionista: quello tossicologico, quello criminale e quello dell’opinione pubblica. Ma è soltanto sull’ultimo che si vince (o si perde). In altre parole, la comunità scientifica è sostanzialmente d’accordo sulla scarsa o nulla pericolosità tossicologica del THC, così come le polizie di mezzo mondo sono perfettamente a conoscenza della pericolosa contiguità del mercato nero delle droghe pesanti e di quelle “leggere”. Una parte della grande opinione pubblica, tuttavia, continua a percepire la parola “droga” come un pericolo oscuro e indistinto, socialmente pericoloso e potenzialmente contagioso, che colloca in un unico indefinito inferno tanto lo spinello quanto la siringa o la pasticca. D’altro canto – come proprio Fini ha dimostrato – è altrettanto diffusa, nell’opinione pubblica, una percezione opposta: e cioè che le canne siano tutt’al più un fenomeno folcloristico, ma certo non criminale o ‘deviante’. Del resto chi oggi ha cinquant’anni – e cioè, in una parola, la classe dirigente a tutti i livelli – è divenuto adulto con la liberazione sessuale, la musica rock, i viaggi in capo al mondo e, appunto, la marijuana. E così come si compra con entusiasmo il dvd rimasterizzato con tutto Woodstock da gustarsi sullo schermo al plasma, il cinquantenne arrivato e soddisfatto di sé con altrettanta tranquillità può fumarsi un po’ d’erba. E’ questa la normalità su cui fare leva, e su cui chiamare il centrosinistra a prendere finalmente una posizione chiara.
Ad aprile si vota per un nuovo Parlamento e un nuovo governo. Non mancano, nel centrosinistra, i candidati e le forze (come il Partito radicale) apertamente antiproibizionisti. Perché non farne un tema della campagna elettorale? L’opinione pubblica è divisa, e ha percezioni opposte e contraddittorie del problema: ma non è pregiudizialmente contraria: anzi. Del resto, le campagne elettorali servono proprio a questo: discutere con la gente le cose da fare. E depenalizzare il consumo e la coltivazione personale della canapa è proprio una cosa ragionevole da fare.
Fabrizio Rondolino
Pubblicato su Dolce Vita n°3 – Febbraio 2006