Desidero tornare su di un argomento che forma oggetto di accorate dispute e cioè la scelta di definire i giudizi, concernenti accuse di coltivazione e detenzione, adottando la procedura del patteggiamento della pena, ex art. 444 c.p.p. .
E' necessaria una doverosa duplice premessa.
Ritengo, infatti, che ciascun avvocato possieda un distinto e personale bagaglio culturale, sia di carattere generale, che di carattere professionale.
Che egli manifesti un proprio ed individuale approccio alla specifica tematica degli stupefacenti ed intenda addivenire alla definizione del giudizio penale (nel quale assume la difesa del cittadino), secondo la propria esperienza e nel modo più favorevole (o meno indolore) per il proprio assistito.
In pratica penso che ciascun difensore si regoli di volta in volta secondo scienza e coscienza; credo non vi siano, quindi, buoni o cattivi, catalogabili a priori.
Anche se credo che la categoria dovrebbe fare un esame di coscienza, perchè molti di noi si avvicinano a specifiche tematiche (la materia degli stupefacenti costituisce una tangibile testimonianza), senza un'adeguata preparazione e con superficialità.
Ritengo, altresì, che sovente gli stessi indagati/imputati vengano a soffrire una sindrome di angoscia, panico ed ansia che preclude loro la capacità di affrontare razionalmente il problema e favorisce scelte affrettate ed lungo andare negative.
Essa è determinata nella maggioranza dei casi:
1. dalla paura delle conseguenze del processo (spesso la persona si vede addirittura privata della libertà personale e non comprende o sa quanto tempo tale condizione potrà durare, teme che il processo abbia tempi spropositati, teme anche ricadute economiche eccessive);
2. dalla insufficiente capacità di comunicazione e di esposizione del problema, in sè, e delle modalità con cui la vicenda processuale può essere affrontata da parte del difensore (che sovente, a propria volta, si lascia contagiare dall'ansia dell'indagato di raggiungere un risultato che risolva in fretta la vicissitudine, anche a scapito della qualità della difesa), con assenza di quella condizione di tranquillità necessaria in un contesto così delicato;
3. dall'atteggiamento delle stesse forze dell'ordine (che talora cercano - anche deliberatamente - di intimidire l'indagato/imputato ipotizzando conseguenze in punto di pena e di libertà del tutto sproporzionate all'entità del fatto);
4. dall'approccio spiccatamente repressivo e punitivo, che, nella maggioranza dei casi, la stessa magistratura manifesta in relazione ai due temi in questione e, in special modo riguardo all'argomento coltivazione (tale condotta viene spesso criminalizzata, con un approccio teoretico, che non tiene conto nè di peculiarità del fatto specifico, nè del dibattito giurisprudenziale in atto), che, a mio avviso non è ben conosciuto sul piano anche tecnico. Si preferisce, sovente trincerarsi dietro locuzioni giurisprudenziali pregresse (citare le SSUU del 2008 ormai è una costante), senza penetrante il significato più profondo.

Ciò posto penso, però, troppo spesso nelle aule giudiziarie vada in scena una commedia del terrore, che ha come protagonisti più figure.
A) Imputati (di detenzione e/o coltivazione ad uso dichiaratamente personale di sostanze derivate dalla cannabis) che abbandonano a casa il proprio coraggio di affrontare il processo a loro carico, inteso come momento di decisiva verifica della sussistenza di un'accusa di reato alla quale si deve opporre, a contrasto, una loro protesta di esercizio di una facoltà e di una condotta non punibile.
B) Avvocati che devono educare ed informare i propri assistiti, aiutandoli a superare paure ed atteggiamenti pavidi, consigliandoli di assumere opzioni difensive, le quali - senza esporli a rischi inutili - permettano loro, comunque, di difendersi, senza arrendersi senza combattere, ma che sovente cercano, invece, soluzioni rapide ed indolori.
C) Magistrati che intendano la giurisdizione come esercizio di tutele contrapposte (quella dello Stato che pretende il rispetto delle proprie leggi come risposta ad un postulato di llegalità formulato contro l'imputato e quella del cittadino che, a propria volta, richiede la verifica della legittimità delle leggi - che si assumono violate - ed il controllo della conformità al principio di legalità dei propri comportamenti) e non come rapida ed asettica definizione di quello che si viene a ridurre ad un mero incidente di rilevanza penale, che permetta di aggiungere una sentenza di più alle statistiche di efficienza, senza tenere conto del fatto che si giudica una persona.

In questo contesto, quindi, il commodus discessus del patteggiamento, spesso diviene un'impropria foglia di fico che soddisfa solo apparentemente gli interessi contrapposti e distinti dei protagonisti del processo penale, perchè in realtà non appare corretto epilogo dello stesso.
Non ho mai amato - nell'esercizio della giurisdizione penale - i Don Chisciotte, sia perchè sottoporre a rischi inutili i nostri assistiti è atto irresponsabile, sia perchè io sono assai pragmatico nel mio operare professionale.
Devo, però, ammettere che ogni qualvolta constato che un processo a carico di un coltivatore od un consumatore (nei confronti dei quali non vi sia alcun elemento di prova di cessioni a terzi) è stato definito con il patteggiamento, nutro un grande rabbia, perchè capisco che ci si è arresi senza combattere, in assenza - quindi - di rischi processuali non eccessivi (sarei portato a dire minimi) per l'imputato.
Una ulteriore occasione perduta per potere favorire l'evoluzione culturale e giuridica del nostro paese.
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