Sostanze a confronto: la MDMA
Incominciamo allora con la MDMA, meglio nota con il nome gergale di Ecstasy. Nonostante quello che spesso si è creduto, l’Ecstasy non è uno psichedelico minore: non produce di per sé allucinazioni o visioni, né modificazioni nella percezione della realtà, né del mondo interno od esterno. Per le sue caratteristiche di accrescere le percezioni sensoriali e la capacità comunicativa; la sostanza è più correttamente classificabile come empatogeno, “produttore di empatia”.
“Empatia” è un meccanismo di proiezione, con il quale un individuo vive i sentimenti e le emozioni di un altro individuo come fossero suoi. Accrescimento della capacità comunicativa e delle relazioni interpersonali sono le caratteristiche essenziali della MDMA, quelle riferite da tutti i consumatori, occasionali e non. Queste sono di fatto le qualità della sostanza, che la distinguono da tutte le altre droghe conosciute; è vero, anche le amfetamine e la cocaina hanno come effetto quello di aumentare la verbalizzazione, ma spesso è una verbalizzazione fine a sé stessa, e di cui si perde anche il significato. Spesso, inoltre, il parlare sotto effetto di amfetamina o di cocaina, è solo un mezzo di autogratificazione e di onnipotenza, quasi mai è sinonimo di effettiva comunicazione.
La MDMA si differenzia dagli allucinogeni maggiori (LSD, mescalina, psilocibina, DMT) per una sua azione estremamente più specifica. Possiamo definire sommariamente una sostanza allucinogena come un “aspecifico amplificatore delle funzioni cerebrali”, utilizzando la definizione di Stanislav Grof, uno dei maggiori Ricercatori nel campo della terapia psichedelica. Questo sta ad indicare che un allucinogeno, ad esempio l’LSD, tende a dilatare tutti gli aspetti dell’esperienza mentale e psichica, amplificando e modificando tutte le modalità sensoriali e portando alla coscienza il materiale inconscio. Gli allucinogeni sono delle vere e proprie “bombe atomiche” che smuovono tutto quello che c’è in noi, sia di positivo che di negativo. La MDMA no. Oltre a non produrre allucinazioni, se non in casi eccezionali e a dosaggi estremamente elevati, non provoca neppure la cosiddetta “destrutturazione dell’Io”, tipica degli allucinogeni. Sembra invece possedere una specifica capacità di produrre empatia, serenità, autoconsapevolezza e sensazioni noetiche. Con questo neologismo si intendono una serie di emozioni particolari, come quella di vedere il mondo per la prima volta, in una maniera genuina e spontanea, come lo si guardasse con gli occhi di un bambino.
In un certo qual modo l’esperienza con MDMA è quasi sempre positiva. Nel senso che il set and setting (aspettative del consumatore e ambiente in cui l’esperienza avviene) non è determinante come lo è invece con gli allucinogeni. L’esperienza visionaria e destrutturante di questi ultimi necessitano, perché l’esperienza abbia un risultato positivo, di una preparazione ben maggiore di quanta ne occorra per la MDMA. A volte anche le migliori condizioni di set and setting non sono sufficienti ad evitare ad impedire un “brutto viaggio”. L’effetto sul tono dell’umore, la capacità di aumentare le facoltà sensoriali e comunicative, rendono, almeno potenzialmente, la MDMA utile ad abbattere le barriere fra terapeuta e paziente, per abbattere le difese di quest’ultimo e favorirne la confidenza e la fiducia.
Negli ultimi anni si sono intraprese, a livello internazionale, molti studi estremamente seri circa il potenziale positivo e negativo della sostanza: in Svizzera, in Germania, persino in Russia. Ovunque, tranne che in Italia… Chi fosse interessato a documentarsi sullo stato attuale della ricerca con MDMA può trovare nell’Organizzazione americana MAPS un insostituibile punto di riferimento. MAPS sta per Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies ed è oggi forse la più seria organizzazione scientifico- educativa del panorama internazionale. Da molti anni si è impegnata a finanziare ricerche per evidenziare il potenziale clinico dell’Ecstasy e di molte altre sostanze psichedeliche.
Recentemente Stampa Alternativa ha ristampato nella collana Margini un resoconto di Ralph Metzner e Sophie Adamson sull’esperienza psicoterapeutica di alcuni psicologi statunitensi relativa alla somministrazione controllata di MDMA in contesto terapeutico. Il libricino è forse il documento più importante disponibile in lingua italiana, e raccoglie una serie di interessanti testimonianze affiancate da dati e risultati, anche se è piuttosto discutibile l’entusiasmo tipicamente americano con cui vengono presentati i dati clinici. Al di là comunque di questa riflessione personale, è interessante il caso riportato di una giovane donna che, in seguito ad un episodio di violenza sessuale, aveva subito la perdita totale della memoria e andava incontro a frequenti attacchi di panico a carattere dissociativo e incubi ricorrenti per oltre un anno. In seguito a quattro sedute con MDMA, la donna riuscì a recuperare il ricordo dell’episodio e a superare il trauma. Il positivo risultato riferito in questo e in altri casi analoghi di violenza sessuale come di traumi bellici, sembrerebbe indicare la MDMA come un potenziale farmaco in una terapia delle nevrosi traumatiche.
D’altra parte queste particolari forme di nevrosi che colpiscono le vittime di aggressioni fisiche e sessuali, le persone affette da forte stress psichico in seguito a gravi eventi traumatici (ad esempio incidenti stradali o ferroviari, incendi, terremoti, etc.) o in seguito ad eventi bellici (ad esempio i soldati nella Guerra del Vietnam), le vittime di torture e via dicendo, non hanno ancora trovato un trattamento terapeutico efficace, come possono testimoniare tutti gli psicoterapeuti.
Seguendo lo schema di Pahnke, raramente la MDMA determina un’esperienza psicotico-simile, per lo meno in un contesto terapeutico. Un ottimo studio di Greer e Tolbert condotto a San Francisco fra il 1980 e il 1983, su 29 pazienti soltanto uno lamentò sensazioni di essere sommerso da emozioni negative. Questo fatto sembra contraddire le statistiche di molti SER.T., ma non dimentichiamo che noi parliamo di uso terapeutico della MDMA e non del suo uso ricreativo o addirittura del suo abuso. La possibilità che l’Ecstasy possa provocare fenomeni psicotici è al momento oggetto di verifiche accurate. A volte la sostanza può produrre uno stato d’intossicazione psicotico simile, ma questo di regola non si protrae per più di alcuni giorni, e in ogni caso sembra essere piuttosto raro.
Da più parti si è evidenziato che l’uso di Ecstasy possa determinare una serie di deficit cognitivi, da disturbi della memoria a quelli dell’attenzione e della concentrazione. E’ possibile, soprattutto a dosaggi alti e frequenti. Per onestà dobbiamo però ammettere che la valutazione di deficit cognitivi prodotti da droghe non è per nulla un compito facile. Il numero delle variabili che possono influenzare i risultati è molto alto. Ancora una volta: i consumatori di Ecstasy sono, nella stragrande maggioranza dei casi, poliassuntori e soltanto analisi estremamente approfondite potrebbero evidenziare se il deficit in questione è provocato da questa sostanza, da altre, o dall’interazione di più droghe.
L’esperienza cognitiva con la MDMA risulta nettamente influenzata. Oltre il 75% dei pazienti di Greer e Tolbert riscontrò benefici effetti nell’ambito conoscitivo, definiti come “ampliamento della prospettiva mentale”. Franco Landriscina in uno studio psicologico sulla sostanza, pubblicato sul numero 2 della vecchia serie di ELEUSIS, e che personalmente considero uno dei migliori lavori in lingua italiana, parla di uno stato tipico dell’esperienza con MDMA, che chiama apertura del centro del cuore, tipico di un uso individuale o in un piccolo gruppo, comunque in una situazione di quiete e raccoglimento; noi potremmo aggiungere in una situazione terapeutica. E’ uno stato caratterizzato da una aumentata lucidità e capacità di concentrazione, da una notevole sensibilità verso l’ambiente e verso le proprie ed altrui emozioni, da una maggior capacità di comunicazione. La calma e la serenità di questo stato lo avvicinano ad alcune pratiche meditative, mentre la gioia e l’amore incondizionato che lo contraddistinguono presentano somiglianze con alcuni stati mistici descritti dalle tradizioni cristiana e mussulmana.
L’esperienza psicodinamica prodotta dalla MDMA, pur non essendo intensa come quella prodotta dagli psichedelici, è comunque frequente nel setting psicoterapeutico, e questa caratteristica rende la sostanza potenzialmente terapeutica. Tutti i pazienti di Greer e Tolbert descrissero l’esperienza terapeutica con MDMA come positiva nei confronti del proprio vissuto emozionale. Landriscina parla giustamente di regressione psicologica, caratterizzata da idee e comportamenti di tipo infantile, quali l’assunzione di una posizione fetale o il desiderio di succhiare il seno femminile. La stessa enfatizzazione della sfera sessuale, descritta anche dai consumatori ricreativi di Ecstasy, può essere vista come espressione di questa regressione.
Perché dico questo? Perché la MDMA non è un afrodisiaco, in quanto non agisce direttamente sulla funzione sessuale. Anche la simbolizzazione raramente presenta stimoli inequivocabilmente genitali, quanto piuttosto sembra legata a fasi precoci dello sviluppo psicosessuale, e far parte di quella sessualità che Freud definì polimorfa. E’ una sessualità globale, fusionale, pregenitale, appunto. Del tutto assente, se non in casi eccezionali, è invece l’esperienza transpersonale. Gli empatogeni, come abbiamo già detto, non producono una dissoluzione dell’Io, né fenomeni di depersonalizzazione: il soggetto conserva inalterato una relazione cosciente col mondo esterno, con le persone, con gli oggetti. Per questo motivo la MDMA sembra completamente inadatta ad essere utilizzata in quella particolare forma di terapia che venne chiamata terapia psichedelica in senso stretto. Scopo di questa particolare forma di terapia, praticata soprattutto in America fino alla messa al bando delle sostanze, era quello di ottenere un’esperienza estremamente radicale e destrutturante, in grado di determinare un cambiamento globale della personalità del paziente. In genere la terapia psichedelica si dimostrò essere efficace nel trattamento dell’alcolismo, delle tossicodipendenze e in alcuni disturbi comportamentali.
Gilberto Camilla
Pubblicato su Dolce Vita n°9 – Marzo/Aprile 2007