Nel segno del giornalismo all’italiana, secondo cui quando qualcuno indica la luna gli interpreti imbecilli della realtà guardano il dito, nei giorni scorsi il Meeting degli stati del Centro e Sud America di Cartagena, che si è occupato fra l’altro della “vexata quaestio” della legalizzazione delle droghe su scala mondiale (chiesta a gran voce da quasi tutti i presidenti degli stati produttori o di transito, cioè Colombia, Perù, Messico, Guatemala) è passata alle cronache nostrane solo per la gaffe degli agenti della scorta del presidente Obama.
Fattisi beccare in un albergo di lusso mentre litigavano sul prezzo da corrispondere ad alcune escort locali. Così quasi nessun giornale italiano ha parlato del fatto più importante, non si sa se per scelta deliberata o semplice sciatteria. E quale era il fatto più importante? Che per una volta paesi arretrati ideologicamente, ma non più economicamente, come Colombia, Perù, Messico e Honduras – visti per anni come bastioni del bolivarismo quando non del guevarismo o del castrismo nel centro e nel sud America – oggi ragionano in termini liberisti, liberali e libertari in materia di contenimento del traffico internazionale degli stupefacenti facendo propria l’opzione del compianto Milton Friedman o di uno degli ex potenziali candidati repubblicani a sfidare Obama alle prossime presidenziali, l’ultra liberale Ron Paul: legalizzare il commercio, la produzione e il consumo di tutte le droghe. Partendo gradualmente da quelle leggere, cioè l’erba e l’hashish.
Obama, che alla vigilia della propria prima elezione aveva fatto capire di non essere contrario in linea di principio e che nel corso del proprio mandato non ha di certo ostacolato l’insorgere di legislazioni più permissive nei singoli stati, specie in materia di cosiddetta cannabis terapeutica, che in Illinois o in California può venire facilmente prescritta per depressione o altri malesseri esistenziali e non solo fisici, adesso teme la concorrenza del “law and order” ultra conservatore e vagamente bigotto dell’altra faccia della luna del Gop, quella di Romney e Santorum, ed allora si è presentato ipocritamente al vertice di Cartagena.
Con questo statement: «La mia posizione personale e quella del mio Governo è che la legalizzazione delle droghe non è la risposta. Se questo accadesse vedremo lo sviluppo di un massivo commercio di droghe che diventerà prevalente in diversi Paesi, senza limiti per le sue operazioni e questo potrebbe essere molto più pericoloso rispetto alla situazione attuale». Argomentazioni ormai assolutamente risibili. «Siamo coscienti della nostra responsabilità – ha dichiarato Obama – in questo ambito e credo che sia legittimo fare una discussione sulle leggi che sono ora in vigore, se queste causino più danni che benefici in alcuni ambiti». Ricordando altresì che gli Usa hanno investito 30 miliardi di dollari in programmi di prevenzione e trattamento.
Di parere diverso si è mostrato invece dal collega colombiano Juan Manuel Santos: «È il momento di analizzare se ciò che stiamo facendo in materia di lotta alla droga è il meglio che possiamo fare oppure individuiamo un’alternativa più efficace e meno costosa». E affermato dal presidente di un paese che dai tempi di Reagan è diventato simbolo della repressione militare del narco traffico, oltretutto fomentato da decine di bande armate tra cui quelle guerrigliere comuniste delle Farc e dell’Erp, fa un certo effetto.
Ma il non detto del dibattito, che in ogni caso costituisce un precedente importante, è un altro: il sospetto, oltre ai problemi di omicidi da guerre mondiali (oltre 50mila morti in Messico negli ultimi cinque anni), che l’attuale crisi finanziaria mondiale sia uno degli effetti collaterali dell’avere consegnato alle grandi organizzazioni criminali mondiali il vero bancomat di ogni economia, cioè la pronta liquidità di cassa. Soldi che non servono più solo a corrompere polizie e dogane, con casi paradossali come quello messicano dove gli ex poliziotti hanno costituito una delle bande di narco trafficanti più spietate come “los zetas” e dove degli ultimi cinque zar anti droga, quattro sono finiti in carcere per accuse di complicità con il cartello di Sinaloa, ma a creare fondi sovrani, come quello delle isole Cayman segnalato dal Financial Times a novembre, dotati di liquidità inesauribile e con potenziale “licenza di uccidere” qualunque economia del globo venga messa sotto pressione dalla loro legale speculazione.
Il merito di aver avviato il dibattito è tutto del presidente del Guatemala, Otto Pérez. Il suo Paese, come altri in Centroamerica vive un’ondata di violenza legata al narcotraffico. I morti sono numerosi, soprattutto in Honduras, e i cartelli messicani hanno ampliato il raggio delle proprie operazioni nella regione.
In una intervista al quotidiano colombiano El Tiempo, Pérez fa notare che la politica antidroga seguita fino ad oggi non ha funzionato, «i cartelli sono cresciuti, il consumo è aumentato così come gli omicidi», e accusa gli Usa di aver boicottato il vertice regionale che aveva convocato in Guatemala lo scorso 24 marzo per affrontare il tema, facendo pressione perchè alcuni Paesi non vi partecipassero.
Il settimanale britannico The Economist va sostenendo da 30 anni, a volte in perfetta solitudine, altre meno, che la legalizzazione, profetizzata anche da Milton Friedman e in Italia da campioni di liberalismo vero come Marco Pannella e Antonio Martino, sia “the only way out of this mess”, l’unica via per uscire da questo casino. E i dati americani lo confermano: gli Usa da soli spendono 40 miliardi di dollari l’anno per cercare di bloccare il rifornimento di droghe. Arrestano ogni anno un milione e mezzo di persone e ne incarcerano mezzo milione. L’industria illegale della droga, secondo l’Onu, vale circa 320 miliardi di dollari l’anno. Ma è una stima di quello che si vede e si sequestra, il dieci o massimo quindici per cento del tutto, non del resto che continua sottotraccia, cioè il novanta e passa per cento. Flussi sotterranei esentasse e corruzione che destabilizzano le economie.
Alma Guillermoprieto, la nota blogger della The New York Review of Books, nell’ultimo numero in edicola profetizza che prima o poi l’America Latina disobbedirà alla politica di Washington in materia di guerra alla droga, iniziata da Richard Nixon nel 1970, e preparerà un cessate il fuoco con i narcos tagliando però loro l’erba sotto i piedi attraverso un processo di graduale regolamentazione legalizzata di produzione e consumo di cannabis e cocaina, i due maggiori cespiti di guadagno delle mafie di tutto il mondo insieme all’eroina e alle droghe sintetiche.
E mentre in paesi come l’Italia il dibattito langue, proprio il presidente del Guatemala, come ricorda la Guillermoprieto, che era andato al potere con una campagna elettorale che prometteva lacrime e sangue a produttori e consumatori e trafficanti di droga, «dopo solo un mese ha realizzato che non era cosa e di fronte all’ondata di violenza che ha messo in ginocchio il paese ha capito che la via era un’altra: cessate il fuoco e legalizzazione degli stupefacenti».
D’altronde la storia del consumo di droga nel mondo è quella classica dell’eterogenesi dei fini: la guerra dell’oppio fu fatta per legalizzarne il consumo in Cina da parte dell’ex impero britannico ed ebbe contro i cinesi che non volevano che i loro connazionali fossero intontiti dall’oppio dello straniero, nella seconda metà dell’ottocento. Meno di trenta anni dopo nel 1909 è ancora l’impero britannico a approvare la prima legge che porta oppiacei e cocaina fuori dalle farmacie e in mano alla mafia.
di Dimitri Buffa
Fonte: Opinione.it