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Visualizza Versione Completa : Riflessioni sulla sentenza di Ferrara e nuove prospettive



Avv. Zaina
19-04-13, 07:28
Cari amici,
mi permetto di pubblicare l'articolo di commento sulla sentenza di Ferrara, sperando che possa essere utile per comprendere quale strada deve essere seguita in futuro.
Nei prossimi giorni pubblicherò qualche mia personale riflessione che vorrà essere di indirizzo per tutti coloro che si vengano a trovare nella necessità di affrontare una perquisizione od un arresto. Constato, infatti, che esiste molta confusione e, soprattutto, che la categoria cui appartengo (gli avvocati) non offra adeguate risposte in tali occasioni, preferendo abitualmente tattiche (patteggiamento et similia) che devono costituire solo l'ultima spiaggia cui ricorrere.
A presto

:polliceu:


La sentenza resa dal Tribunale di Ferrara, lo scorso 20 marzo, sancendo l'applicabilità alla condotta della coltivazione della scriminante della destinazione all'uso personale della sostanza – così – ricavata, rivisita criticamente la nota pronunzia delle SS.UU. della Corte di Cassazione (n. 28605 datata 24 aprile 2008) che, invece, aveva sancito in modo ultimativo la assoluta rilevanza penale della condotta coltivativa.
La scelta del giudice di merito di dissentire dai canoni individuati dal Collegio di legittimità, pone efficacemente a nudo il carattere di esclusiva teoricità delle considerazioni poste a base di una decisione – quella delle Sezioni Unite – che, sino ad oggi, è apparsa e, purtroppo, in molti casi, tuttora appare, ancora un dogma intangibile.
Le SSUU della Suprema Corte, infatti, con la ricordata sentenza del 2008, si erano soffermate su di una contemporanea pluralità di aspetti, i più rilevanti dei quali non hanno mai convinto appieno ed anzi, si sono sempre prestati ad una motivata critica .
Il giudice monocratico di Ferrara, dunque, attraverso il riconoscimento della coniugabilità della coltivazione con l'uso personale della sostanza ottenuta con tale condotta, si è spinto – a ragion veduta - ben oltre, il dato normativo ed ermeneutico puramente didascalico.
Egli ha posto, infatti, l'accento sulla necessità di formulare un giudizio – in ordine alla liceità o meno della coltivazione di piante (dalle quali ricavare sostanze stupefacenti) - che si rapporti tangibilmente e necessariamente con la realtà che nella quotidianità si manifesta nelle aule di giustizia.
In proposito, quindi, particolarmente condivisibile (e felice) appare l'osservazione del Tribunale, il quale confuta e smentisce quel passaggio dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità, ove si fa discendere dal fenomeno della coltivazione, in maniera indiscriminata e diretta, un presunto aumento della quantitativo di stupefacente immesso sul mercato, senza, peraltro, operare alcuni doverosi distinguo, focalizzando, invece, lo scopo che anima l'attività del coltivatore.
Va osservato, infatti, che il nesso di causa ad effetto operato sic et simpliciter fra i due termini (coltivazione, da un lato e diffusione degli stupefacenti ricavati, dall'altro) in effetti, costituisce una considerazione che si palesa, soprattutto, per la sua forte carica di teoria ideologica.
Una simile impostazione – seppur all'apparenza logica - non tiene, infatti, conto della indubbia circostanza che la scelta del singolo cittadino di coltivare, per soddisfare le proprie necessità personali, determina successivamente una condotta destinata ad esaurirsi naturalmente nella sfera privatistica dell'interessato.
Vale a dire, che, proprio all'apice esattamente opposto di quanto affermato dalla sentenza delle SS.UU., in presenza di una coltivazione che presenti – con giudizio ex ante - caratteri compatibili con la finalità del consumo personale (numero di piante limitato, assenza di contatti con ambienti criminosi, difficile accessibilità a terzi del luogo di ricovero delle piante, etc.), non si verifica affatto un fenomeno di circolazione o collocazione sul mercato illecito del prodotto in questo modo ottenuto.
Lo stesso termine “coltivazione”, ad interpretazione del Tribunale di Ferrara, pare, così, esprimere un'accezione che “non si attaglia agevolmente alla fattispecie di quattro piantine cresciute in un vaso all'interno di un appartamento” .
Sembra, infatti, secondo l'opinione riportata in sentenza, ben più appropriato connotare con l'espressione “coltivazione”, un'attività che si svolga con modalità imprenditoriali e non limitata poche piante.
Quello, così, richiamato costituisce indirizzo ermeneutico che, già in passato, – seppur senza assurgere ai clamori del presente caso – era stato persuasivamente valorizzato dal GUP presso il Tribunale di Milano (sent. 13 ottobre 2009) , il quale aveva coniato una specifica definizione del verbo coltivare, sostenendo che esso “..non significa allestire vasi e vasetti ma governare un ciclo di preparazione del terreno, semina, sviluppo delle piante e raccolta del prodotto...”.
L'opera di delimitazione, sul piano strettamente ermeneutico, del concetto di coltivazione diviene, pertanto, caposaldo del ragionamento del giudice di prime cure, in quanto, risulta evidente che individuare esattamente quali condotte rientrino all'interno del concetto di “coltivazione” appare necessità che va, direttamente ed intimamente, collegata al principio di offensività.
Il principio di “offensività” assolve, infatti, alla duplice funzione di presidio di “controllo delle scelta di politica criminale” e “criterio ermeneutico indirizzato al giudice” .
Il concetto di “offensività”, dunque, inteso come termometro del grado di antigiuridicità di un fatto o di un comportamento, ma – in pari tempo – anche quale parametro del tipo di riprovazione sociale di una condotta, od ancora, del livello di protezione e di tutela di un preciso bene giuridico.
“Offensività”, che, in ultima analisi – e soprattutto in relazione al caso che ci occupa - deve venire intesa come espressione che indica l'attitudine concreta, di una specifica condotta, a proiettare ab externo, una minaccia che attenti al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
Vale a dire che - ammesso e non concesso che possa essere condivisibile la sanzionabilità indiscriminata dell'attività coltivativa – per potere effettivamente considerare integrato l'illecito previsto dall'art. 73 co. 1 (in relazione alla coltivazione), si deve dare corso ad una valutazione in parallelo fra la condotta concreta (oggetto di indagine) ed il precetto normativo, cui è riconnessa la eventuale sanzione .
Una simile metodica delibativa, presuppone, pertanto, un penetrante giudizio di fatto, da parte del magistrato (inquirente o giudicante), sulle circostanze, sulle modalità, sul gesto proprio posto in essere dall'agente.
Nel caso di specie, i canoni, attraverso i quali, si può pervenire alla formulazione del giudizio di offensività della condotta, appaiono univocamente orientati nel senso di non presentare affatto (sia considerati atomisticamente, che valutati complessivamente) quegli indici, che possono legittimare il pericolo, posto a base della scelta di sanzionare l'attività coltivativa.
Ne consegue, pertanto, un indubbio, quanto auspicabile ampliamento del novero dei criteri di scrutinio, in base ai quali si perviene alla soluzione in ordine all'offensività o meno della condotta coltivativa, che, sino ad oggi era, invece, circoscritta e condizionata unicamente all'esito dello screaning concernete il livello di principio attivo.
L'orientamento maggioritario della S.C., infatti, riteneva inoffensiva una condotta solamente se, dalla eventuale consulenza tossicologica, fosse emerso un risultato tale da escludere che il principio attivo, pur se effettivamente rinvenuto, avesse capacità drogante.
Dall'impostazione della sentenza in commento, emerge, inoltre, un evidente, quanto rigoroso, temperamento del carattere di pericolo che contraddistingue istituzionalmente la fattispecie della coltivazione.
La Corte di Cassazione, nella più volte richiamata pronunzia n. 28605, ebbe ad affermare che la condotta di coltivazione appare punibile sino dal momento di messa a dimora dei semi, siccome “…si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole “anticipazione” della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo”, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti”.
Or bene, un siffatto approccio (che giudica illecita la coltivazione, senza, però, operare serie distinzioni fra tutte le ipotesi che possono formare oggetto di indagine) pare oggi superato, proprio in funzione della valorizzazione di un'impostazione che conferisce importante rilievo al profilo finalistico della condotta.
Assumendo, quindi, quale concreto punto di riferimento finale lo scopo cui tende l'azione, viene superato quell'approccio di natura prettamente materiale, che – contrariamente ai principi della teoria generale del reato – non tiene in alcun conto il profilo psicologico dell'agente, soffermandosi esclusivamente ed asetticamente sulla condotta in sè.
La coltivazione, infatti, secondo la tesi che aderisce al ricordato arresto giurisprudenziale del 2008, esprimerebbe un carattere di antigiuridicità già in re ipsa; essa verrebbe ad essere ricompresa nella categoria delle condotte penalmente illecite, pur prescindendo da una disamina dell'elemento psicologico, attività di indagine, che, invece, dovrebbe costituire operazione assolutamente necessaria.
L'estensione dell'operatività della scriminate dell'uso personale di sostanze stupefacenti, anche in favore di condotte diverse dalla mera detenzione, costituirebbe, inoltre, espressione di un'imprescindibile e doverosa, seppur tardiva, armonizzazione giurisprudenziale del diritto interno, rispetto all'art. 2 comma 2 della decisione 757/GAI/2004 del Consiglio dell' Unione Europea .
La necessità di addivenire ad una condivisione normativa (fra ordinamento interno ed ordinamento internazionale) appare ancor più pressante sol che si pensi che la decisione in parola costituisce, per definizione, fonte primaria di diritto, che vincola il giudice nazionale, il quale deve interpretarla in modo del tutto conforme (Cfr. Corte di Giustizia 16 giugno 2005, C-105/2003) .
La corretta interpretazione del testo normativo europeo deve essere, quindi, impostata nel senso che appare ferma e chiara intenzione del legislatore europeo, quella di
1. porre come elemento centrale e discriminatorio, per la non punibilità di una azione concernente gli stupefacenti, il fine di consumo personale della sostanza,
2. porre le singole condotte in un rapporto di indiscussa subordinazione rispetto al ricordato scopo ultimo, onde inferire, nel caso concreto, da tale equazione la eventuale scriminabilità di ciascuna di esse,
3. circoscrivere, negli specifici casi concreti, l’indagine condotta-fine solo a quelle azioni che appaiono logicamente e razionalmente connettibili con l’uso personale.
Alla luce di questi principi, deriva che solo la detenzione, l’acquisto, la spedizione, la spedizione in transito, il trasporto, l'importazione o l'esportazione di stupefacenti [di cui alla lett. a)] e la coltura della pianta della cannabis [di cui alle lett. b)], possono plausibilmente essere “tenute dai loro autori…ai fini del loro consumo personale…” .
Il giudice, dunque, ad avviso di chi scrive, potrà, al fine di invocare l'applicabilità della causa di giustificazione dell'uso esclusivamente personale, avvalersi del meccanismo delibativo tratteggiato dalla Corte di Giustizia 16 giugno 2005, C-105/2003, interpretando il diritto nazionale per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro “al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all'art. 34 n. 2 lett. b) trattato UE”.

Rimini, lì 17 aprile 2013

Avv. Carlo Alberto Zaina