Come promesso riprendo qualche commento di novità giurisprudenziali.
Per prima cosa, intendo segnalare la sentenza n. 2269/13 della Corte di Appello di Bologna, pronunziata lo scorso 18 luglio e di cui avevo dato notizia, in quanto ero direttamente interessato quale difensore di uno degli imputati.
Si tratta di una decisione assai importante perché valorizza la indefettibile importanza della esecuzione, nel corso del procedimento penale, della consulenza tossicologica sulla sostanza stupefacente.
Tale attività, infatti, appare del tutto risolutiva, onde potere ricavare il dato concernente la capacità offensiva e diffusiva dello stupefacente.
La sua assenza lascia un ampio cono d'ombra.
Per potere formulare una prognosi di correlabilità e di fondatezza dell'eventuale tesi di una detenzione per consumo personale, (ma, soprattutto per valutare la contrapposta linea accusatoria di una destinazione parziale o totale alla cessione in favore di terzi) il reperto psicotropo detenuto dalla persona indagata deve essere sottoposto ad un esame che può ( e deve) essere svolto ai sensi degli artt. 359 e 360 cpp, quando - addirittura -non si ritenga di dare corso (per la complessità dell'accertamento) ad un vero e proprio incidente probatorio ex art. 392 e segg. cpp.
Nela caso di specie, la Corte ha colto l'intrinseco errore in cui era incorso il primo giudice, laddove egli aveva ritenuto di potere pervenire ad una valutazione di esclusione dell'attenuante prevista dall'art. 73 comma 5 dpr 309/90 (lieve entità), sulla scorta di una elaborazione di carattere esclusivamente logico, fondata sull'asserzione di uno degli imputati che aveva definito di "buona qualità" lo stupefacente.
In buona sostanza in assenza di dato certi, il primo giudice aveva formulato una valutazione astratta ed empirica del tutto sfavorevole agli imputati.
Tale opzione è stata disattesa dalla Corte territoriale, perché invece appare assolutamente necessario - come si rimarca in sentenza - conoscere il principio attivo contenuto nella sostanza sequestrata (e detenuta) e non può apparire risolutivo od esaustivo - siccome "ambiguo"-(come testualmente affermato in sentenza) un richiamo del tutto soggettivo.
In pratica,la posizione così assunta dal giudice distrettuale si informa all'applicazione rigorosa del favor rei, vale a dire di quel principio, contenuto nel libro III del codice procedura penale e regolato espressamente e tassativamente dall'art. 192 .
La carenza di un elemento probatorio di accusa - quale risulta ad esempio l'individuazione del principio attivo che connoti la sostanza - avrebbe potuto, ad avviso di chi scrive, anche a potere determinare la Corte ad una decisione ancor più radicale, nel senso di prosciogliere gli imputati, non essendo stata effettivamente raggiunta la prova di una reale idoneità drogante del reperto sequestrato.
Certamente - nel caso di specie - le stesse ammissioni parziali delle persone inquisite, così come il rinvenimento di ulteriori elementi (ad esempio annotazioni che paiono riferibili a cessioni) non hanno permesso l'assunzione di una posizione così tranchant, e - così - i giudici hanno ritenuto di dovere adottare una posizione mediana, che - comunque - sancisce un principio di diritto estremamente importante, che va salutato come approdo garantista.
Nessuna presunzione sfavorevole all'imputato, infatti, può sostituire - neppure interinalmente - un atto procedimentale, a fini probatori, che non sia stato tempestivamente e ritualmente svolto; l'onere della prova rimane ascritto a carico di colui intenda dimostrare un fatto.
Il PM che esercita l'azione penale deve, pertanto, fornire la prova della responsabilità che egli asserisce a carico dell'indagato/imputato, sia che essa concerna l'intera condotta, sia che essa attenga a profili che permettano di qualificare la stessa sotto un aspetto giuridico, piuttosto che un altro.
Il PM deve dimostrare la destinazione allo spaccio, il livello di thc dello stupefacente, la non finalizzazione della sostanza al consumo personale, etc...
L'inadempimento a tale onere, oltre al proscioglimento, può portare, comunque, ad un trattamento sanzionatorio maggiormente favorevole per la persona inquisita.
Medesimo obbligo è posto a carico del giudicante, il quale - munito di poteri espressi per sopperire a specifiche carenza investigative - ove non attivi queste sue prerogative, e non sia in possesso di prove risolutive, non può formulare valutazioni pregiudizievoli,