MARIJUANA "UN CULTO PER POCHI"
di Markiodiaz

L'uso dei derivati della canapa come droga, o più precisamente per fini ricreativi e inebrianti, ha
origini molto antiche che risalgono a un uso cerimoniale e religioso che diffuso in passato in
varie epoche e luoghi, come l'antica Cina, o l'India. Citata negli erbari cinesi come pianta
medica, pare che invece in India si sia diffuso particolarmente l'uso inebriante. Lì la pianta
veniva considerata sacra e utilizzata nelle cerimonie religiose. Una leggenda vedica racconta
per esempio che il dio Shiva per trovare un po' di ombra finì in un bosco di piante di canapa, e
dopo averle assaggiate diventarono il suo cibo prediletto.
Erodoto nel IV libro delle Storie racconta che gli Sciti, nomadi del Mar Nero, usavano fumare
canapa in questo modo: "Dunque gli Sciti prendono i semi di canapa, si infilano sotto la tenda
fatta di coperte e li gettano sulle pietre roventi; i semi gettati bruciano producendo un fumo che
nessun bagno a vapore greco potrebbe superare. Gli Sciti urlano di gioia per il fumo che
sostituisce per loro il bagno. In Europa, invece, la fortuna dei derivati della cannabis come
sostanza stupefacente è molto tarda. Tra le droghe è sempre stato l'oppio a farla da padrone,
sin dall'antichità. Per cui benché in Europa per molti secoli si coltivasse canapa per fini
industriali, non se ne faceva un uso inebriante, anche perché la canapa sativa possiede delle
percentuali molto basse di principio attivo. Questo almeno sino all'800 quando durante la
spedizione di Napoleone in Egitto arrivò in Europa questa sostanza, sotto forma di hashish, che
suscitò l'interesse di molti e venne ampiamente sperimentata e degustata in modo simile a
come si faceva per l'oppio.
Tuttavia ci sono delle testimonianze sporadiche che mostrano come questa sostanza, anche se
conosciuta da pochi, in qualche modo circolasse. Per esempio ce ne parla Marco Polo nel
Milione (leggi cap 40-41), in cui viene spiegata la leggenda del Vecchio della montagna, che
arruolava briganti e mercenari e regalava loro un paradiso fatto di droghe che consentivano loro
di diventare assassini. Sembra appunto che la parola "assassino" derivi da hashish: gli adepti
venivano detti "hasheshins", tradotto poi in "assassini" proprio perché consumavano hashish.
Ma nel testo di Marco Polo si parla anche di oppio e di vino, a testimonianza del fatto che erano
queste le sostanze stupefacenti più diffuse e conosciute. La leggenda del grande Vecchio
tuttavia circolò molto, e la ritroviamo per esempio nel Decamerone di Boccaccio nella novella
VIII della terza giornata dove si parla di "una polvere di maravigliosa vertù" la stessa che usava
"lo Veglio della montagna quando alcun voleva dormendo mandare nel suo paradiso o
trarnelo".
Studi molto recenti hanno poi messo in luce che sembra che anche tra il 1500 e il 1600 si
facesse un certo consumo della sostanza, se è vero che Shakespeare ne faceva uso. Questo
almeno credono due illustri studiosi: il dottor Frances Thackeray (capo del dipartimento di
Paleontologia del museo Transvaal di Pretoria) e il professor Nick van der Merwe, che
sostengono come la straordinaria produttività poetica del drammaturgo inglese si possa
spiegare attraverso l'esperienza della droga. Le prove sarebbero nel sonetto numero 76, in cui il
poeta sembra conoscere le proprietà della canapa almeno stando alla frase: «L’invenzione in
una nota erba». I due ricercatori sostengono che all'epoca la sostanza era conosciuta e
importata nel continente dai marinai portoghesi di ritorno dall'India. Di fatto l'analisi di alcune
pipe di terracotta trovate nell'ultima residenza di Shakespeare, analizzate, sembra aver
confermato la presenza di tracce di marijuana.
Che dire, la sostanza quivi descritta è in grado di aprire porte... dipende solo da chi ne fa uso e
come se ne assume il vero sapore.

fonte: http://radiocittafujiko.it