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Risultati da 1 a 10 di 23

Discussione: La storia della canapa

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  1. #1
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    davvero carino :D
    Chi ha paura muore ogni giorno,chi non ha paura muore una volta sola

  2. #2
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    Non i sensi ingannano, bensí il giudizio.

    Premessa: X seguire il filo

    Nonostante il titolo, questa non è una vera storia della canapa indiana, ma piuttosto una rassegna delle idee che su di essa si è fatte il mondo occidentale negli ultimi duemilaquattrocento anni. Pertanto non parlerò, se non per inciso e quando il filo del discorso lo renderà necessario, della storia naturale e della farmacologia della cannabis, né del ruolo, pure importante, che questa ha avuto in Medio Oriente, in India e in Cina.
    Cercherò invece di riordinare i termini di un problema: se è vero, come è vero, che fin dall'inizio della storia l'Europa ha fatto parte dell'areale geografico in cui la cannabis si distribuisce spontaneamente, e che per secoli gli europei sono stati a conoscenza dei suoi effetti psicotropi, come spiegare allora che essa non ha goduto da noi, almeno fino alla seconda metà del XX secolo, della popolarità e della considerazione di cui ha goduto invece in culture geograficamente limitrofe (come nel Medio Oriente), o presso altre popolazioni di origine indeuropea (come in India)?
    Questo problema si collega a quello, piú generale, del ruolo complessivamente molto modesto che, in tempi storici, le piante psicotrope hanno avuto nella storia della cultura europea: in contrasto con quello assai piú importante svolto nel resto del mondo, dove piante attive sul sistema nervoso centrale, e in grado perciò di modificare le operazioni della mente, hanno fatto parte integrante della cultura e della religiosità. Il vino, che pure sembra costituire un'importante eccezione, si colloca però, sia dal punto di vista farmacologico che da quello culturale, su un piano già diverso da quello, per esempio, del soma indiano o dell'ayahuasca amazzonico. Per contribuire a rendere conto di quest'assenza, che è già stata l'oggetto dei lavori di Richard E. Schultes, ho cercato di seguire il filo conduttore della cannabis attraverso la storia della cultura occidentale, raccogliendo quelle credenze, opinioni e giudizi che mi è sembrato potessero aiutare a ricostruire la relazione esistente tra gli intellettuali europei e gli effetti psicotropi della pianta. Tale relazione, come si vedrà, è marcata da un profondo interesse; ma da un interesse che rimane tuttavia "esterno", oscillando tra l'etnografico e lo scientifico senza diventare uso popolare e parte integrante del costume, come è avvenuto invece per certe solanacee nostrane (nel caso un po' speciale della stregoneria tardo-medievale), per il tabacco o per il caffè. La situazione s'è capovolta solo di recente, cioè da quando, nonostante la generalizzata proibizione legislativa, la cannabis si è affermata come una tra le sostanze psicoattive piú comunemente usate sia nel nostro continente sia in quello americano.
    Se uno che fa il neurofarmacologo di mestiere, come me, si decide a scrivere un libro di storia, vuol dire che ha ricevuto molto incoraggiamento: lo devo ai tanti colleghi e amici con cui ho condiviso discussioni sulle sostanze psicoattive e sui loro meccanismi d'azione. Ne ricordo qui solo alcuni: Jack A. Grebb e Andrew J. Czernik (della Rockefeller University, New York), Claas H. Lammers (del Max Planck Institut für Psychiatrie, Monaco di Baviera), Danilo Del Gaizo e Enzo Nucci. Un ringraziamento particolare va ad Antonino Pollio (dell'Università di Napoli), compagno di varie peregrinazioni etnofarmacologiche; a Giorgio Samorini, che ha avuto la gentilezza di anticiparmi le conclusioni del suo prossimo libro, sulla storia della cannabis in Italia; e a Roberto Longhi, che mi ha suggerito involontariamente il titolo di questa breve ma veridica storia.

    Daniele Piomelli
    (The Neurosciences Institute, La Jolla, marzo 1995)

    LA STORIA COMINCIA CON ERODOTO (V SECOLO a.C.)

    Nell'ottavo secolo prima di Cristo un gruppo di tribú nomadi indo-iraniche provenienti dalla Transoxiana penetrò in Europa orientale, stabilendosi a sud della Russia bianca, tra la catena montagnosa dei Carpazi e il fiume Boristene (Dnepr), e scacciandone le popolazioni indigene o sottomettendole. Abili cavalieri, guerrieri feroci e ricchi pastori, quegli emigranti non tardarono a entrare in contatto con gli avamposti commerciali fondati sulle coste del Mar Nero dalle città mercantili greche. Erodoto d'Alicarnasso, grande viaggiatore e storico delle guerre persiane, tramanda che il loro nome era scoloti, ma che i greci li chiamavano sciti.
    Insieme con il pesce salato, il miele e le pellicce, gli sciti esportavano nel Ponto ellenizzato, e da lí nel resto del mondo greco, gli echi di costumi religiosi inconsueti e ancestrali, che Erodoto ha osservato e registrato con avida curiosità di etnologo. Il passo che proponiamo, preso dal quarto libro delle Storie, descrive appunto uno di quei riti, fornendoci cosí la piú antica testimonianza europea sull'uso psicotropo della canapa indiana.


    Erodoto, Le storie, IV (73-75)

    Dopo un funerale, gli sciti si purificano in questo modo. Si spalmano il capo con un unguento, che poi lavano via. Per il corpo invece fanno cosí. Innalzano tre pali, inclinati l'uno verso l'altro, e vi stendono sopra delle coperte di feltro, che uniscono l'una all'altra il piú strettamente possibile. Poi, in un vaso posto al centro dei pali e delle coperte, pongono delle pietre arroventate al fuoco.
    Cresce nelle loro terre una canapa ["kannabis"] che assomiglia in tutto al lino, salvo per altezza e larghezza, che sono molto maggiori. Questa canapa cresce sia spontaneamente che coltivata. Anche i traci ne fanno dei vestiti simili ai vestiti di lino, e chi non l'ha mai vista non sarebbe capace di dire se sono fatti di lino o di canapa; e chi non conosce la tela di canapa crederebbe che si tratti di lino.
    Di questa canapa, dunque, gli sciti prendono il seme e, entrati sotto le coperte, lo gettano sulle pietre arroventate al fuoco; allora il seme libera un fumo odoroso e produce un vapore tale che nessuna stufa greca potrebbe farne altrettanto; inebriati da questa sauna, gli sciti lanciano urla di gioia ...

    Il passo è celebre, la sua veridicità è confermata dai ritrovamenti archeologici, e la sua interpretazione generalmente accettata spiega che il rito funebre raccontato da Erodoto è una variazione su un tema religioso antichissimo, quello del viaggio estatico nel mondo dei morti. Inalando il fumo di cannabis, i parenti del defunto convenuti al suo funerale credono che le loro anime si stacchino dal proprio involucro corporeo e accompagnino il morto alla sua nuova dimora. Altrove, come nelle steppe siberiane, è il succo del fungo Amanita muscaria che svolge una funzione simile: se ne serve lo sciamano guaritore o psicopompo per accompagnare le anime perdute dalla malattia o dalla morte. Altrove ancora, dove tali vie farmacologiche all'estasi sono neglette, altre possono supplirvi - digiuno rituale, musica, danza, meditazione - producendo, con meccanismi fisiologici ancora ignoti, effetti non dissimili. Ma che per un popolo d'origine probabilmente iranica come gli sciti lo strumento (principale?) del viaggio estatico nel regno dei morti fosse proprio la cannabis, non è cosa che debba troppo sorprenderci, come vedremo nel capitolo che segue.


    Il lettore curioso di rituali estatici avrà di che saziare le sue attese in quel "cunto de li cunti" del folclore a sfondo sciamanico che è Storia notturna: Una decifrazione del sabba, di Carlo Ginzburg (Torino, Einaudi, 1989). Il passo di Erodoto vi è citato alla pagina 188 ed è corredato di una portentosa bibliografia a cui volentieri rimando.
    Pur non toccando direttamente il ruolo della cannabis, la lettura di Giorgio Colli (La sapienza greca, vol. I, Milano, Adelphi, 1990) e di Giuliana Lanata (Medicina magica e religione popolare in Grecia, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1967) aiuta a inquadrare l'atteggiamento dei greci verso l'estasi religiosa e a comprendere quindi l'interesse di Erodoto per il rito scita. I ritrovamenti archeologici a cui accenno sopra sono descritti da M.I. Armatov in "Frozen Tombs of the Scythians", Scientific American n. 212 (1965), p. 101-109, dove sono riprodotti alcuni oggetti provenienti da un tumulo funerario scita trovato al confine tra Mongolia e Siberia, e quasi certamente adoperati per il consumo di cannabis.
    Il passo di Erodoto è tradotto qui dall'edizione critica di Ph. E. Legrand (Parigi, Les Belles Lettres, 1985).
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
    MrNatural

  3. #3
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    FLORA MAGICA (III SECOLO a.C.)

    Plinio il Vecchio, enciclopedista latino autore di una celebre Storia naturale, è biasimato da molti storici della scienza per la sua erudizione maniacale, per la sua ansia di completezza che lo spinse ad accogliere nella sua opera, senza "metodo scientifico", notizie e idee provenienti dalla tradizione colta come da quella popolare. Eppure, anche i suoi detrattori piú accaniti devono convenire che proprio a quella insaziabile curiosità dobbiamo il salvataggio di tanti frammenti della cultura classica, che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre nel naufragio del mondo antico.
    Quello che presentiamo ai lettori è uno di tali relitti. Del suo (probabile) autore sappiamo poco piú del nome - Bolo, detto "il Democriteo" - e del luogo di nascita: la città di Mendes nel Basso Egitto. Contemporaneo del poeta Callimaco, Bolo avrebbe composto nel terzo secolo prima di Cristo un trattato di farmacologia, fortemente tinto di magia e intitolato Kheirokmeta [Manufatti], per il quale avrebbe utilizzato fonti principalmente persiane e in particolare gli scritti naturalistici dei grandi Magi, Zoroastro e Ostane.

    Plinio era a conoscenza di quel trattato che però, per essere Bolo soprannominato "il Democriteo", credeva opera autentica del filosofo di Abdera; ma che il Kheirokmeta fosse autenticamente democriteo o no, a Plinio importava poco: pur dimostrando un certo scetticismo circa il suo contenuto ("quanto portentosiora tradit!": 'ma che razza di miracoli ci racconta!'), per quell'amore della completezza che l'ha condannato al biasimo degli storici della scienza (e per nostra fortuna) ce ne ha trascritto qualche passaggio. Vi si parla di piante esotiche, dai nomi rievocatori e dagli effetti prodigiosi.


    Bolo di Mendes, in: Plinio, Storia naturale, XXIV (160-165)

    160. ... L'erba aglaophotis ['luce brillante'] ha preso nome dall'ammirazione degli uomini per la bellezza del suo colore e nasce sui marmi dell'Arabia, dal lato della Persia, ciò che la fa anche chiamare marmaritis; i Magi se ne servono quando vogliono evocare gli dèi.
    161. L'achaemenis ['achemenide'], colore dell'ambra, priva di foglie, nasce presso i Taradistili, popolo dell'India: i criminali che la bevono sciolta nel vino confessano tra mille tormenti tutte le loro colpe, assaliti da molteplici visioni di creature divine. La chiamano anche hippophobada, perché i cavalli ne hanno particolarmente paura ...
    164. La thalassaegle ['luce del mare'] si trova sulle rive del fiume Indo, e perciò si chiama anche potomangis; se ne fa una bevanda che causa delirio, e fa vedere cose straordinarie.
    La theangelis ['messaggera degli dèi'] cresce sui monti del Libano di Siria, sul monte Dicte a Creta, a Babilonia e nella regione di Susa, in Persia; bevendola, i Magi acquistano la capacità divinatoria.
    La gelotophyllis ['foglia che fa ridere'] nasce in Battriana e sulle rive del fiume Boristene. Se la si beve con birra o vino, si hanno ogni sorta di visioni e si ride, si ride, fino a quando non si siano mangiati dei pinoli, del pepe o del miele col vino di palma.

    Sebbene sia chiaro che queste herbae magicae sono in realtà piante dai potenti effetti psicodislettici, la loro identificazione con specie vegetali a noi note resta, per quasi tutte, pressoché impossibile. L'autore di un moderno repertorio di botanica latina ci assicura che nell'ultima di esse, la gelotophyllis, si deve riconoscere la kannabis di Erodoto: non possiamo contraddirlo. Il nome, presumibilmente traduzione di un fitonimo persiano, è fantasioso, ma appropriato a una pianta che colpisce soprattutto per la bella foglia pennato-composta e per la capacità di far ridere chi la consuma.
    D'altronde, che la cannabis avesse un ruolo importante nella vita spirituale dell'antico Iran, come suggerisce il contesto in cui Bolo ne parla, è ipotesi fondata su piú di una testimonianza. Se ne parla in alcuni testi mazdei: lo Yasna, per esempio, dove si dice del dio Ahura Mazda che è "senza estasi e senza canapa", o il Videvdat, dove la cannabis è considerata invece come un essere demoniaco. Questo atteggiamento ambivalente del mazdeismo ortodosso verso l'impiego "estatico" della cannabis (impiego che doveva essere piuttosto comune nella religione tradizionale persiana) si ritrova anche nei confronti di un altro importante vegetale psicotropo, l'haoma, versione iranica del soma indiano lungamente descritto nel Rig-Veda, e identificato da Gordon Wasson col fungo allucinogeno Amanita muscaria.


    Il fatto che su Bolo si sappia molto poco non ha impedito a Max Wellmann di dedicargli una erudita monografia ("Die F?s??a des Bolos-Demokritos und der Magier Anaxilaos von Larissa", in Abhandlungen, Akademie Berlin, n. 7, 1928), né a Joseph Bidez e Franz Cumont di tracciarne i complessi rapporti con le dottrine di Zoroastro e di Ostane (Les Mages hellénisés, Parigi, Les Belles Lettres, 1973; prima edizione 1938). Il passo di Plinio qui riportato è tradotto dall'edizione critica di Jacques André (Pline l'Ancien, Histoire naturelle, Livre XXIV, Les Belles Lettres, 1972), a cui dobbiamo anche l'identificazione di gelotophyllis con la cannabis (Les Noms des plantes dans la Rome antique, Les Belles Lettres, 1985). Mi sembra invece inadeguata la sua identificazione di aglaophotis ('luce splendente') con la Paeonia, basata com'è su un'omonimia molto piú tarda; alcuni particolari (l'uso sacerdotale "per evocare gli dèi", la coincidenza degli attributi luminosi dell'aglaophotis con quelli che lo Yasna attribuisce all'haoma) lasciano piuttosto sospettare che col greco aglaophotis Bolo avesse inteso tradurre una descrizione metaforica dell'haoma, ripresa da fonti persiane.
    Sull'uso religioso della cannabis nell'Iran antico, si veda Le Chamanisme et les techniques archaïques de l'extase, di Mircea Eliade (Parigi, Payot, 1968, p. 310-316). Infine, nel mare magno delle speculazioni sull'identità del soma/haoma, il libro di Gordon Wasson, Soma: Divine Mushroom of Immortality (New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1971), resta un punto di riferimento obbligato.
    SEGNALI D'OBLIO (I SECOLO d.C.)

    I racconti di Erodoto e di Bolo sono ambientati, non dimentichiamolo, in contrade lontane dall'esperienza dell'uomo comune, cosí lontane da diventare nebulose e fiabesche: la Scizia di Erodoto non è solo il teatro ben reale di una sfortunata spedizione di Dario, ma anche la regione onirica di Ovidio, dove le donne si cospargono il corpo d'unguenti magici e si trasformano in uccelli (Metamorfosi, XV). La Persia di Bolo è inoltre, lo abbiamo visto, patria di Zoroastro e Ostane, scopritori delle virtú medicinali delle piante (Plinio, Storia naturale, XXV, 13) ma anche magoi per eccellenza, cioè, come ci spiega il lessicografo Esichio, stregoni, taumaturghi e incantatori.
    Con Dioscoride siamo in tutt'altro mondo. Nato in Cilicia, nella città greca di Anazarbo, Pedanio Dioscoride è probabilmente medico dell'esercito romano quando decide di scrivere un trattato che illustri le caratteristiche botaniche di tutte le piante medicinali a lui note, le loro proprietà farmacologiche e i loro impieghi terapeutici. Il risultato, conosciuto oggi col nome latino di Materia medica [I materiali della medicina], non è solo un'imponente opera di farmacologia, la piú vasta dell'antichità che ci sia pervenuta, ma anche un capolavoro di equilibrio metodologico, in cui le notizie derivate dall'immenso patrimonio orale dei rhizotomoi, gli antichi erboristi, si combinano con uno spirito critico, un gusto per la sperimentazione personale e un buon senso che hanno fatto di Dioscoride, a giusta ragione, uno dei principali pilastri della terapeutica fino a Paul Ehrlich e all'invenzione, nel diciannovesimo secolo, dei farmaci di sintesi organica. Insomma, Dioscoride sapeva il fatto suo. Non solo: a differenza di Erodoto e di Bolo, egli non nutriva interessi etnologici e non amava raccogliere aneddoti di paesi lontani. Ci parla di quel che sa, che ha visto e che ha provato. Perciò, leggere le sue informazioni sulla cannabis è particolarmente istruttivo: meglio di chiunque altro, Dioscoride ci informa su quello che i greci e i romani del suo secolo ne sapevano e ne pensavano.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
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  4. #4
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    Dioscoride, I materiali della medicina, III (165-166)

    165. Canapa domestica.
    La canapa è usata per fabbricare corde resistenti. Ha la foglia simile a quella del frassino, maleodorante, fusto lungo e vuoto, seme rotondo che mangiato in grande quantità diminuisce la fertilità nel maschio, e che invece, spremuto quando è ancora verde, è efficace per il mal d'orecchio.
    166. Canapa selvatica.
    La canapa selvatica ha il fusto breve come quello dell'altea, ma piú scuro, piú acuto e piú piccolo; la foglia somiglia a quella della canapa domestica, ma è piú acuta e piú scura; il fiore, rossastro, è come quello del lychnis, il seme e la radice come quelli dell'altea. La radice macerata mitiga le infiammazioni, riduce gli edemi e disperde il tessuto indurito intorno alle articolazioni. La sua corteccia è adatta alla fabbricazione di corde.

    È difficile nascondere un certo disappunto di fronte a questo arido resoconto di produzione di funi e di effetti antinfiammatori. Eppure il messaggio è chiaro: Dioscoride ignorava gli effetti psicotropi della cannabis. E come lui Plinio che, pur citandola almeno quattro volte, nella Storia naturale non stabilisce alcun nesso tra la canapa e le herbae magicae, le piante psicoattive di cui parla nel libro XXIV.
    Tuttavia, che certe piante potessero produrre delirio e vaneggiamenti era cosa ben nota a entrambi perché, tra l'altro, già problema sociale (sebbene in senso molto diverso da oggi) e oggetto di legiferazione. La Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, per esempio, comminava la deportazione e la confisca dei beni a quei pigmentarii (farmacisti, diremmo noi) che vendevano con troppa leggerezza certe piante, perlopiú psicoattive, che maghi e stregoni adoperavano come ingredienti per filtri d'amore (per esempio, l'Atropa belladonna) o veleni (Aconitum napellus). Alcune di queste piante si ritrovano impiegate in rituali magico-religiosi che, per il loro carattere ctonio ed estatico, lasciano intravedere delle analogie con le fumigazioni scite tramandateci da Erodoto. Un elenco di queste ultime, che leggiamo nelle tarde Argonautiche orfiche (v. 911-924), comprende lo stramonio, la belladonna, il papavero da oppio e l'aconito napello, tutte fortemente attive sul sistema nervoso centrale (e fortemente tossiche), ma non la cannabis. Ignorata dalla medicina come dalla magia, la canapa indiana sembra dunque scomparire dal novero delle piante psicotrope conosciute dal mondo greco-romano, lasciando di sé soltanto qualche eco remota.


    A simili conclusioni arrivava l'articolo di Theodore F. Brunner, "Marijuana in Ancient Greece and Rome?", Bulletin for the History of Medicine n. 47 (1973), p. 344-355. Una recente bibliografia su Dioscoride si trova in John M. Riddle, Dioscorides in Pharmacy and Medicine (Austin, University of Texas Press, 1985); si veda inoltre A. Touwaide, "Le Traité de matière médicale de Dioscoride. Pour une nouvelle lecture", Bulletin du Cercle Benelux d'histoire de la pharmacie n. 290 (1990), p. 265-281.
    Le Argonautiche orfiche si possono leggere nella traduzione francese di Francis Vian (Parigi, Les Belles Lettres, 1987). Ho tradotto il passo dei Materiali della medicina dalla versione latina di Karl G. Kuhn (Lipsia, 1830, Vol.XXVI, tomo I).

    TESTIMONIANZE TARDOANTICHE (IV - V SECOLO d.C.)

    Seguendo le tracce disperse della cannabis siamo passati dall'età classica all'ellenismo, e da questo all'apogeo dell'impero di Roma. Accingendoci ora a entrare in quel periodo che va dall'inizio del terzo alla fine del sesto secolo dopo Cristo, ci imbattiamo in una difficoltà inattesa: all'abituale povertà delle fonti storiche a nostra disposizione subentra ora un vuoto piú grave, perché causato non soltanto dalla mancanza di documenti (naturale, se si considera la peculiarità del problema che stiamo affrontando), ma anche da un sorprendente disinteresse per questo periodo da parte degli storici della scienza. L'età tardoantica, in cui un "sentimento nuovo" e una "etica diversa" da quelli dell'età classica sono ormai riconosciuti da altre discipline (come la storia dell'arte), è considerata ancora troppo spesso un'appendice trascurabile del mondo classico. La storia della medicina e della farmacologia, dove abbiamo finora cercato i nostri punti di riferimento, non fanno eccezione.
    Eppure, soprattutto nel IV secolo, gli scrittori di cose mediche non mancano: non solo grandi dilettanti (benestanti uomini di lettere prestati alla medicina, come Marcello di Bordeaux), ma anche medici che, come Teodoro Prisciano, tra una visita e l'altra trovano il tempo di scrivere prontuari terapeutici agili e non privi di originalità. Proprio scorrendo qualcuno di questi manuali dimenticati rintracciamo inaspettatamente le orme della cannabis: e questa volta, accanto agli anodini impieghi ripresi dalla tradizione di Dioscoride e Plinio, i suoi effetti psicoattivi fanno di nuovo capolino. Oribasio di Pergamo, per esempio, medico personale di Giuliano l'Apostata, riconosce che il seme di canapa "turba la mente" (Synopsis, IV, 20) e "produce una sensazione di calore corporeo" (ibidem, IV, 31). La voluta impassibilità di tale prosa tecnica non tragga in inganno: uno scrittore emozionalmente piú partecipe avrebbe scelto frasi piú suggestive, ma non avrebbe potuto dire molto di piú
    su questo sintomo cosí tipico del consumo di cannabis; molti secoli dopo Oribasio, il medico americano Victor Robinson lo descriverà cosí: "Un calore delizioso pervade tutto il mio corpo. Ardente e beato galleggio nell'universo, consunto da un'irresistibile passione" (An Essay on Hasheesh, ca. 1930, p. 74).
    Le proprietà calefacenti della cannabis sono sfruttate dalla medicina tardoantica per curare, con un collegamento logico che è caratteristico della mentalità premoderna, le ustioni da freddo. Questo impiego, già noto a Plinio (Storia naturale, XX, 259), è descritto in un compendio anonimo di fitoterapia, giunto a noi sotto il nome spurio di "Erbario di Apuleio Platonico".


    Apuleio Platonico, Erbario, CXV (1-2)

    1. Per il dolore al seno.
    Applica la canapa selvatica pestata in grasso animale: guarisce l'edema e, se c'è ascesso, lo purga.
    2. Per le scottature da freddo.
    Stempera nell'aceto il frutto della canapa selvatica, tritato con seme d'ortica, e applicalo alle scottature.

    Famosissimo e copiatissimo durante tutto il Medioevo, l'Erbario di Apuleio non ha, naturalmente, nulla che vedere con l'Apuleio autore dell'Asino d'oro, vissuto due secoli prima. Le sue prescrizioni, non sempre originalissime, in questo caso sono probabilmente esatte: gli effetti antinfiammatori della cannabis, già noti a Dioscoride, sono stati confermati da scoperte scientifiche recenti.
    Forse la piú importante di queste è l'identificazione, sulla membrana esterna dei linfociti (cellule che svolgono un ruolo centrale nell'infiammazione e nella risposta immunitaria), di un recettore proteico che si lega selettivamente a due sostanze presenti nella cannabis: il delta-9-tetraidrocannabinolo (?9THC) e il cannabidiolo.
    Se da un lato la tarda antichità vede rinascere, dopo la crisi economica e culturale del terzo secolo, l'interesse per la divulgazione scientifica e la ricerca empirica, dall'altro, e forse principalmente, essa è protagonista di una profonda rivoluzione religiosa che ha come epicentro una ridefinizione del concetto di sacro. Fa parte di questa rivoluzione il rifiorire della magia, che nell'impero romano d'occidente si configura molto piú nelle forme di magia provinciale e contadina che in quelle alchimistiche e astrologiche della magia egizia e orientale. L'opera medica di Marcello di Bordeaux, che ha attirato gli strali volterriani dei pochi studiosi che se ne sono occupati, è una delle migliori testimonianze di tale tendenza.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
    MrNatural

  5. #5
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    Marcello di Bordeaux, I farmaci, IX (77)

    Lega la radice di canapa al tuo braccio destro: di preferenza, avvolgici tutto il braccio, ma se ne hai poca, allora fattene un amuleto da sospendere al collo. Per farti capire quanto è potente questo rimedio: se leghi la radice come ti ho spiegato, il flusso del sangue si fermerà immediatamente, e si rimetterà a scorrere quando la slegherai e leverai la radice.

    Empirico e magico, il quarto secolo si conclude con un gigante dello spirito occidentale, che non possiamo tralasciare in questa nostra storia: Agostino, vescovo di Ippona. Non saprei dire se nei suoi 100 trattati, 300 lettere e 700 sermoni sant'Agostino abbia mai avuto occasione di menzionare la canapa indiana. Ha però certamente parlato di allucinazioni e di sostanze (piante?) che le procurano, e cosí facendo ha marcato in modo definitivo il pensiero europeo su tale questione per almeno dieci secoli; cioè fino a quando un nuovo evento, l'invenzione della stregoneria, cambierà di nuovo radicalmente la situazione.
    Per il pensiero premoderno, in una pianta la capacità di agire sul corpo umano, modificandolo, è effetto della natura intima della pianta stessa, natura che si manifesta sotto forme molteplici: nella sua anatomia, nel suo habitat, nella sua storia mitica e, naturalmente, in quelle che oggi chiamiamo, stricto sensu, le sue azioni farmacologiche. Tale natura si può definire divina, ma soltanto nella misura in cui l'aggettivo è usato in senso animista: la pianta è sí dimora d'una divinità, ma d'una divinità che le è propria. Il fatto poi che un'erba o una radice producano allucinazioni e delirio dà alla loro natura numinosa un carattere particolare: spesso una pianta psicotropa è abitata da figure semidivine legate al mondo dei morti, della medicina e della divinazione, per esempio le Ninfe; proprio come i pazzi e gli stolti, che sono "colpiti dalle Ninfe" (nympholeptoi).
    Con Agostino, si sancisce un allontanamento radicale dalla suddetta visione animista: interrogatosi sulla natura delle allucinazioni (La città di Dio, XVIII, 18), egli risponde riallacciandosi all'esegesi cristiana, secondo cui il mondo naturale è divino non "juxta propria principia", cioè secondo principi che gli sono intimi, ma in quanto specchio di realtà celesti e teatro dello scontro tra le forze del bene e quelle del male. Per Agostino, perciò, ogni allucinazione (anche quelle prodotte da "arti magiche" o da "veleni") è frutto di una ludificazione diabolica che opera sulla fantasia dell'uomo: il diavolo, che nulla può creare, trasforma l'immagine delle cose create da Dio perché sembrino all'uomo ciò che esse non sono (si ricordi che il diavolo è pur sempre di natura angelica, "licet


    proprio vitio sit maligna": 'anche se resa malvagia dal suo errore').
    Questo cambiamento di prospettiva avrà conseguenze che non mancheremo di sottolineare piú avanti.


    Il rapporto problematico che esiste tra gli storici della scienza e il mondo tardoantico è ben descritto nel saggio di Lelia Cracco Ruggini, "Scienze pure ed applicate nella cultura tardoantica", in Storia di Roma: L'età tardoantica (Torino, Einaudi, 1993), in cui purtroppo le scienze mediche sono solo brevemente accennate. Il lettore interessato potrà trovare qualche informazione su Marcello di Bordeaux, Oribasio di Pergamo e Teodoro Prisciano in AA.VV., Storia del pensiero medico occidentale: 1. Antichità e medioevo, (Bari, Laterza, 1993), e nel bel libro di Jacques André, Être médecin à Rome (Parigi, Les Belles Lettres, 1987), oppure alle voci corrispondenti nella Realenzyclopädie der Altertumswissenschaft di Pauli-Wissowa. Altrimenti, dovrà rivolgersi ai testi originali: Theodori Prisciani, Euporiston libri III, edito da V. Rose, Teubner, 1894; Marcelli Empirici, De medicamentis liber, edito da G. Helmereich, Teubner, 1889; Oribasii, Synopsis ad Eustathium: Libri ad Eunapium, edito da J. Raeder, Teubner, 1926; Pseudo-Apuleii, Herbarius, edito da E. Howald e H.E. Sigerist (Corpus medicorum latinorum vol. 4, Teubner, 1927). Devo le idee concernenti "l'etica diversa" del mondo tardoantico alla lettura di Ranuccio Bianchi-Bandinelli, "Gusto e valore dell'arte provinciale", in Storicità dell'arte classica (Roma, De Donato, 1973, p. 381-413), e quelle sul ruolo del sacro a Peter Brown, specialmente in The Making of Late Antiquity (Cambridge Mass., Harvard University Press, 1978). Agostino e la teoria cristiana delle allucinazioni sono discussi in Jean-Claude Schmitt, Les Révenants: Les vivants et les morts dans la société médiévale (Parigi, Gallimard, 1994). Il lettore interessato alla formazione del simbolismo naturalistico cristiano leggerà con piacere il lucido saggio introduttivo di Francesco Zambon a Il fisiologo (Milano, Adelphi, 1975).
    L'identificazione di un recettore cannabinoide espresso nei linfociti è in Munro, S., Thomas, K.L., Abu-Shaar, M., "Molecular Characterization of a Peripheral Receptor for Cannabinoids", Nature n. 365 (1993), p. 61-65.

    UNA BADESSA, UN PAPA E UN MERCANTE (XII - XIV SECOLO)

    Anche per la canapa indiana il Medioevo fu un'età buia. E nel buio, ha osservato Carlo Maria Cipolla nel suo classico studio "Il ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) nello sviluppo economico del Medioevo", accadono cose strane.
    In quei secoli difficili, "per sfuggire alle calamità incombenti la gente si divise in tre parti. Una si incaricò di pregare il Signore Domineddio. La seconda si dedicò al commercio e all'agricoltura. Ed infine, per proteggere le due suddette parti da ingiustizie e da aggressioni furono creati i baroni" (Filippo di Vitry, 1295-1361).
    Impegnati com'erano a difendere gli oppressi e a procurarsi pepe in Terrasanta, i baroni non avevano tempo per occuparsi della canapa. Gli agricoltori, poi, che magari qualcosa potevano saperne perché la coltivavano, avevano altre gatte da pelare e assai poco agio per scrivere delle loro esperienze psichedeliche (ed è un peccato, perché pare che ne avessero talora di interessanti). Restano quindi il clero e i mercanti: a loro ci rivolgiamo nella speranza di trovarvi un barlume di luce, in tanta oscurità.
    Il clero dell'epoca faceva di tutto un poco, e ogni lettore di Umberto Eco sa che non c'era convento che non fosse anche farmacia e ospedale. Un ignoto amanuense del nono secolo, per esempio, tracciando la mappa del grande monastero benedettino di San Gallo in Svizzera vi incluse un infirmarium e un herbularius (giardino dei semplici) diviso in sedici appezzamenti, ciascuno contrassegnato dal nome della pianta officinale che avrebbe dovuto ospitare. Ma dissoltesi le grandi scuole mediche dell'antichità e smarritane in gran parte la lezione, che medicina si poteva mai praticare in un monastero? In prima approssimazione, un amalgama di tradizioni folcloriche locali e di terapeutica greco-romana, mediato da traduzioni latine di Dioscoride, dall'Erbario di Apuleio Platonico e da altri due o tre testi di minore importanza. Soprattutto dove il peso dell'eredità romana era piú debole e l'influenza grecizzante degli arabi risentita piú lentamente, lontano dall'Italia per esempio, la tradizione popolare e la medicina folclorica ispiravano con forza tutta particolare i ricettari farmaceutici e i testi di terapia.
    Il passo che proponiamo descrive appunto un uso medicinale della cannabis certamente originato dalla tradizione folclorica: è stato scritto, in un latino piú che zoppicante "inconsciamente bilingue", da Hildegarda, badessa nel convento benedettino di Bingen, e santa estatica.


    Hildegarda di Bingen, La medicina semplice, I (11)

    La canapa ["hannf"] è calda, e cresce quando l'aria non è né molto calda né molto fredda, e anche la sua natura è cosí, e il suo seme è salutare, e mangiarlo fa bene alle persone sane, ed è leggero per lo stomaco e utile, perché ne scaccia lo slim ed è digeribile, e diminuisce i cattivi umori e rafforza i buoni umori. Tuttavia, chi ha testa malata e cervello vuoto ["cerebrum vacuum"] se mangia della canapa avrà facilmente dei dolori di testa. Chi invece ha la testa sana e il cervello pieno non riceverà male. Ma chi invece è molto malato avrà anche mal di stomaco. Se invece è poco malato, non ne riceverà male

    Che la canapa rafforzi il buon umore, sono ancora oggi in tanti a crederlo, ma invece di essere santificati, come accadde a Hildegarda, vengono processati per direttissima. È vero che i tempi sono cambiati: le visioni estatiche di Hildegarda di Bingen, ineffabili per bellezza e luminosità e tuttavia da lei cosí magistralmente descritte nel Liber divinorum operum e nello Scivias, sono attribuite dalla medicina moderna a quella particolare condizione, nota col nome di "aura", che accompagna gli attacchi di emicrania ed epilessia.
    Un altro segno dell'inesorabile mutare dei tempi è che, durante quei secoli bui, neppure le altissime sfere ecclesiastiche erano immuni da certe esperienze. Eccone un esempio: il Pontefice Giovanni XXI, al secolo Pietro Ispano, "lo qual già luce in dodici libelli", oltre ad avere composto le dodici Summulae logicales che Dante mostra di apprezzare, è stato l'autore di un fortunatissimo trattatello di medicina pratica intitolato Il tesoro dei poveri, un condensato di varie autorità mediche antiche e tardoantiche accessibile non già ai poveri, che naturalmente non sapevano né leggere né scrivere, ma a quei monaci che della salute corporale dei poveri si occupavano. La ricetta che segue prescrive il cascame della pettinatura della cannabis come antidolorifico nelle otiti: un impiego che potrebbe avere la sua base razionale nell'effetto analgesico del delta-9-tetraidrocannabinolo e di altri cannabinoli, e che era già stato suggerito da Dioscoride, Plinio e Marcello di Bordeaux.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
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    Pietro Ispano, "Il tesoro dei poveri", in Practica Jo. Serapionis (fol. CCLVII)

    Dolore all'orecchio.
    Item: la stoppa di canapa intinta in bianco d'uovo fa molto bene. L'ho provata.

    In tema di raccolta e di pettinatura della canapa, mi si permetta una rapidissima parentesi, per rispondere indirettamente a un dubbio che deve avere tormentato il lettore piú versato in botanica e in tassonomia vegetale: in che misura la specie Cannabis sativa europea è comparabile per composizione chimica, e quindi per i suoi effetti psicoattivi, alla Cannabis indica egiziana e mediorientale?


    Charles Baudelaire, Il vino e l'hashish (capitolo IV)

    Durante la mietitura della canapa, avvengono talvolta degli strani fenomeni a quelli che, maschi o femmine, vi lavorano. Si direbbe che si alzino dalla messe non so quali spiriti vertiginosi che circolano intorno alle gambe e salgono maliziosamente fino al cervello. La testa del mietitore è ora piena di turbinii, ora carica di fantasticherie. Le membra si indeboliscono e si rifiutano di rendere servizio.

    La fitochimica moderna ha dato ragione a Baudelaire: anche se piú povera in derivati cannabinolici, la cannabis delle nostre regioni non è priva di effetti psicotropi.
    Riprendendo il filo cronologico del nostro discorso, viene da domandarsi se nelle città marinare del Mediterraneo la medicina e la cultura dell'Islam non avessero lasciato qualche segno piú esplicito delle azioni psicotrope della cannabis. La cosa può sorprendere, ma sembra proprio di no: uno dei testi piú autorevoli della Scuola di Salerno, Le medicine semplici di Matteo Plateario, praticamente la ignora, tranne una brevissima menzione fra certe "cure aggiuntive delle ferite". Lo stesso vale per la Pratica di Serapione (ibn Sarabiyun) e per altri testi arabi coevi.
    Come spiegarci questo silenzio? Forse bisogna ricordare che la cannabis è pianta dai forti effetti disinibitori sul sistema nervoso centrale: si pensi agli "spiriti vertiginosi" di Baudelaire che "salgono maliziosamente fino al cervello", o all'impiego afrodisiaco che ne ha fatto per secoli, in India, la medicina ayurvedica. Ebbene, per tutte le religioni di un solo libro l'eresia è, come sosteneva a ragion veduta san Paolo, opera dei sensi. La disinibizione diventa facilmente sensualità, e quest'ultima ancora piú facilmente eresia (soprattutto se l'azione fisiologica di una pianta è figura, secondo lo spirito di Agostino, di realtà trascendenti). Un buon esempio di questo sillogismo, in campo musulmano, ce lo offre un mercante dell'epoca; anzi, il mercante per antonomasia: Marco, figlio di Niccolò Polo, Veneziano.


    Marco Polo, Il Milione, XV (8)
    (trad. it. di G.B. Baldelli Boni, 1837)

    [Siamo nell'anno 1170, gravi scismi turbano la legge di Maometto] Hassan, figlio di Sabbah, nativo di Thus, per sottrarsi all'oscurità a cui parevano condannarlo i suoi natali, volle farsi promulgatore di nuova setta, via per la quale molti in Asia sperarono nominanza, ed abiurata ogni legge, spaziò quanto a lui piacque in imaginarie opinioni, e volendo ogni culto esteriore abolito, perciò i suoi seguaci detti furono Bateniani. Ei fece i suoi studi


    sotto abili professori maomettani, e si diè fama con dispute, con lunghe peregrinazioni, e dopo varie vicende tornò in Persia, e in Damagan ebbe numerosi seguaci, consentendo a ciascuno dissoluzione di massime e di costumi. Fece l'acquisto del castello di Alamut da uno dei suoi discepoli ... Le rivoluzioni operate in Persia dai Selgiuchidi favorivano il suo ingrandimento, poté fabbricare o usurparsi altre castella nella parte alpina della Persia detta Rudbard, che la natura scabrosa e aspra della contrada, e l'arte renderono inespugnabili, perciò Veglio o Signore della Montagna fu detto, essendo che in Arabo abbiano i due vocaboli un medesimo suono. Qui fondò la piú nuova, la piú empia tirannide di cui parlino le storie. Poco formidabile per l'ampiezza di stato si rendé tale col terrore ... Il Veglio inondò di predicatori della setta le terre maomettane, s'accerchiò di giovinetti robusti, e prestanti, che faceva rapire, ed usava ogni arte per farli ciechi ministri dei suoi voleri. All'uopo nudrivali dell'inique sue massime, gli affascinava co' prestigi delle voluttà. In amena e segreta parte del suo castello fece costruire incantevoli giardini, ove raccolse tutto ciò che diletta, eccita, appaga la fervida imaginazione giovanile. Colui che voleva mandare, o trarre da quel giardino, che appellava paradiso, inebriava con una polvere. Ed i donzelli, che uscivano da quel pantano di voluttà, sel ricordavano come d'una visione, d'un incanto ed ardevano d'esservi ricondotti. E il Veglio prometteva loro, che se cieca obbedienza gli presterebbero, se spenderebbero al suo servigio la vita, eterni sarebber quei contenti. Cosí tanto gli inanimiva, tanto gli affascinava, che reputavasi beato colui, che si avventurava pel Veglio ai piú dubbi cimenti.

    Come si sa, la setta musulmana del Veglio della Montagna è quella Ismailita degli hashishiya, gli "uomini dediti al hashish", famigerata tra Crociati e Arabi ortodossi e temuta da entrambi per le sue dottrine esoteriche e il suo estremismo politico. Oltre che agli hashishiya, la cannabis si trova associata a partire dal XII secolo anche ad altri ordini mistici dell'Iran islamico, in sapore di eterodossia. Non diversamente, nel mondo cristiano l'uso di piante psicotrope sarà collegato a una nuova forma di eresia che prenderà definitivamente corpo soltanto qualche secolo dopo Marco Polo: lo heresis strigiatum, la stregoneria.


    Dal saggio di Carlo Maria Cipolla, che si trova in Allegro ma non troppo (Bologna, Il Mulino, 1988), ho preso la citazione di Filippo di Vitry. Non a Cipolla si deve però ascrivere l'idea che le campagne dell'età di mezzo fossero teatro di esperienze "psichedeliche", ma a Piero Camporesi, che l'ha espressa e documentata forse meglio che altrove in Il pane selvaggio (Il Mulino, 1980).
    Una santa come Hildegarda di Bingen, che oltre a essere estatica scriveva libri di storia naturale, componeva musica e conversava con papi e imperatori, non poteva non attirare l'attenzione dei biografi. Tra i numerosi libri apparsi su di lei suggerisco: Hildégarde de Bingen: Conscience inspirée du XII siècle, di Régine Pernoud (Monaco princ., Éditions du Rocher, 1994); la biografia, di Walter Pagel, pubblicata in Dictionary of Scientific Biography (New York, Scribner, 1972), con bibliografia; e il breve saggio del neurologo inglese Oliver Sacks in The Man Who Mistook His Wife for a Hat (New York, Harper, 1970. Trad. it. di C. Morena: L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi, 1989). Il passo di Hildegarda è dal Liber de plantis, cap. XI, e si può leggere nel suo originale quasi-latino nella Patrologia dell'abbé Migne (CXCVII, Parigi, 1855), o in traduzione francese (Grenoble, Millon, 1988). A proposito del latino di Hildegarda: non sono riuscito a identificare l'affezione che lei chiama "slim"; né il Glossarium di Du Cange né il Wörterbuch di Grimm ne danno notizia. Pierre Monat, che ha curato la traduzione francese, lo rende con écoulements d'humeurs.
    Infine, il Thesaurum pauperum di Pietro Ispano si trova tradizionalmente in calce alla Practica Jo. Serapionis (Lione, Jacob Myt, 1525) ed è citato da quella fonte; ma ne esistono anche un'antica traduzione italiana (Libro dimandato il tesoro dei poveri, Venezia, Giovanni Alvise de Varesi, 1500) e un'edizione moderna (Obras medicas de Pedro Hispano, Coimbre, M. H. da Rocha Pereira, 1973). Sull'uso dell'hashish nel mondo arabo, si veda "The Pharmacohistory of Cannabis Sativa" di Raphael Mechoulam, in Cannabinoids as Therapeutic Agents (p. 1-19), volume edito dallo stesso Mechoulam (Boca Raton, CRC Press, 1986).

    L'INVENZIONE DELLA STREGONERIA
    E LA SCOPERTA DEL NUOVO MONDO
    (XV-XVII SECOLO)

    La stregoneria, dunque. Sulla vessata questione, gli uomini di cultura agli albori dell'età moderna si divisero, come spesso accade, in due categorie: quelli che ci credevano, e quelli che ci credevano ma...
    I primi dicevano: le streghe si spalmano il corpo con un unguento diabolico e grazie a esso volano nella notte al Sabba infernale; lí incontrano il Demonio, ci fanno l'amore e ne combinano poi di cotte e di crude. I secondi dicevano invece: sí, è vero che ci sono delle donnette scimunite che raccontano di queste frottole, ma se le immaginano; e a dar loro queste credenze bizzarre sono certi unguenti che si preparano usando erbe e radici atte a produrre allucinazioni e delirio. Anzi, aggiungevano, abbiamo le prove: figuratevi che hanno trovato alcune di queste poverette in piena catalessi, abbarbicate a un pagliericcio o a una trave; ed esse, svegliatesi, sostenevano cocciutamente che no, loro non avevano dormito, avevano volato davvero su città e villaggi e avevano in

    contrato bei giovani e avuto ogni sorta di avventure.
    Uno di tali increduli, lo spagnolo Andres Hernandez de Laguna, medico nella città lorenese di Metz, spinge il suo scetticismo fino a cercare nella capanna di due vecchi, accusati di stregoneria, l'unguento con cui questi si cospargevano per immaginarsi il Sabba con i suoi annessi e connessi. Non solo lo trova, ma ne lascia la dettagliata descrizione che segue.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
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    A. Laguna, "Commento a Dioscoride", I materiali della medicina, IV (75)

    ... Tra le cose che trovarono nella capanna di quelle streghe, c'era un vaso mezzo pieno di un certo unguento verde, come il populeone [pomata medievale che conteneva, tra l'altro, foglie di papavero e germogli di pioppo] con il quale si ungevano, il cui odore era cosí grave e pesante che mostrava d'essere composto da erbe fredde e soporifere in ultimo grado, come la cicuta, la belladonna, il giusquiamo o la mandragora; del quale unguento, grazie al bargello [alguazil] che mi era amico, ho fatto in modo d'ottenere un buon barattolo. Con questo, ritornato nella città di Metz, ho unto dalla testa ai piedi la moglie del boia che, a causa delle infedeltà del marito, aveva perso completamente il sonno, ed era diventata quasi furiosa. ... Questa, appena fu unta, con gli occhi spalancati come quelli di un coniglio, e sembrando anzi essa stessa una lepre cotta, piombò in un sonno talmente profondo, che pensai di non riuscire piú a svegliarla. [Quando poi, dopo trentasei ore di sonno, finalmente fu svegliata...] ... le sue prime parole furono: "Perché in mal punto mi svegliasti, ora che ero circondata da tutti i piaceri e diletti del mondo?" - e rivolti gli occhi al marito gli disse sorridendo: "E tu, pitocco, sappi che ti ho messo le corna, e con un galante piú giovane e piú bello di te".

    L'unguento delle streghe intorno a cui affabulavano teologi e inquisitori era, dunque, un linimento a base di piante psicotrope nostrane, che un buon erborista campagnolo (cioè "strega") poteva raccogliere e preparare con una certa facilità: la belladonna, il giusquiamo, l'aconito napello. Vegetali associati fin dall'antichità al mondo dei morti, come la cannabis presso gli sciti, e che non erano probabilmente mai usati a casaccio o per scopi ricreativi, ma in un contesto di magia e di religione popolare dai contorni estatici. Cose queste abbastanza chiare a noi - soprattutto grazie agli studi di G. Bonomo, J.B. Russell e C. Ginzburg che hanno pazientemente ricostruito il profilo della stregoneria medievale - ma che in fondo erano già evidenti agli intellettuali di allora. Al punto che, quando questi vengono a sapere dei bizzarri rituali religiosi degli indiani d'America - quando, per esempio, apprendono da Francisco Hernandez che i sacerdoti aztechi usano la pianta ololiuhqui (Rivea corymbosa L.) per comunicare con i loro dèi -, non esitano a stabilire un parallelo illuminante con le "streghe" di casa nostra.


    Paolo Zacchia, De' mali hipochondriaci

    [Zacchia, archiatra di Innocenzo X, commenta qui la ricetta di un unguento stregonesco, pubblicata nel 1558 dal filosofo napoletano Giovanbattista della Porta]
    Altri Autori pongono altre unzioni per fare vedere in sogno cose grate, vaghe e piacevoli, come quella che fassi di sugo di Appio, di foglie tenere di Pioppo, d'Acoro volgare, di Solatro, di Stramonio, e d'Aconito untandone le tempie e la gola. Certa cosa è, che altre se ne fanno che non sono prive del loro effetto, e massimamente quelle, delle quali appresso gl'Indiani e altri barbari si servivano i falsi sacerdoti, dando ad intendere ai semplici popoli di vedere in sogno i Dei, e il Paradiso, e come quelle anche delle quali si servono le streghe, le quali per lo piú per virtú di queste unzioni profondamente addormentatesi veggiono alcuni sogni conformi alla loro immaginazione, e pensano falsamente (almeno le piú) di essere state ne' conviti e nozze co' demoni, e loro vaghi e ivi avere banchettato e goduto di nefandissimi piaceri.

    Streghe e aztechi avevano questo in comune, che entrambi comunicavano con i loro dèi in stato di estasi, e usavano per questo scopo piante psicotrope. Tutto ciò era ben chiaro ai piú avveduti tra gli uomini di cultura europei del XVI e XVII secolo, per i quali i barbari ignudi d'oltreoceano erano forse tanto lontani culturalmente quanto le vecchie montanare, analfabete e mezzo morte di fame, che vedevano trascinare davanti al tribunale del Santo Offizio.
    E la cannabis? La cannabis continua a vivere lontana da questi clamori, conosciuta per i suoi effetti, ma né temuta né associata ad alcuna particolare devianza religiosa. Le parole dello stesso Andres de Laguna nel suo commento a Dioscoride illustrano bene la quieta vita di provincia di quei tempi.


    A. Laguna, "Commento a Dioscoride", I materiali della medicina, III (l60)

    [Il seme di canapa] si digerisce difficilmente, dà peso allo stomaco, provoca ubriachezza e mal di testa e si con
    verte in cattivi umori. I quali danni ed inconvenienti si devono perdonare alla canapa, perché essa è strumento della giustizia, per punire ed estirpare gli uomini dannosi allo stato [con le corde di canapa si impiccavano infatti i malfattori].


    Il lettore del racconto di Leonardo Sciascia La strega e il capitano (che contiene alcune tra le pagine piú assennate scritte in italiano sulla stregoneria dopo quelle di Alessandro Manzoni) ricorderà che, tra le povere cose della strega Caterina, gli inquisitori trovano una cartina "con dentro erba che non si è potuto comprendere che cosa sia" e che invece il medico Antonio Clerici dichiara essere "erba Andina", chiamata anche "yerba mate". Da uomo di buon gusto, Leonardo Sciascia glissa sulla cosa, ma a noi sembra chiaro che il dottor Clerici accusava l'ignara Caterina di detenere e consumare foglie dell'arbusto andino Erythroxylon coca, con cui si prepara appunto un ben noto mate.
    Dalla vastissima bibliografia sulla stregoneria pesco due titoli che si leggono con piacere e profitto: un romanzo, La chimera, di Sebastiano Vassalli (Torino, Einaudi 1990) e un'antologia di testi, La stregoneria: Diavoli, streghe e inquisitori dal Trecento al Settecento, a cura di S. Abbiati, A. Agnoletto e M.R. Lazzati (Milano, Mondadori 1984). Altri riferimenti bibliografici piú completi si possono trovare in Storia notturna di C. Ginzburg e (sul ruolo delle piante psicotrope) in D. Pomelli-A. Pollio, "In Upupa o Strige: A Study in Renaissance Psychotropic Plant Ointments", History and Philosophy of the Life Sciences, n. 16 (1994), p. 241-273. Il testo di De Laguna è tratto da C. E. Dubler, La Materia Medica de Dioscorides: Transmision medieval y renacentista, vol. III: La "Materia Medica" de Dioscorides traducida y comentada por Andres de Laguna (Barcellona, 1955). Quello di Zacchia è citato da Piero Camporesi in Il pane selvaggio, alle pagine l66-167: ho solo modificato qua e là l'ortografia, seguendo l'edizione di Vitale Mascardi (Roma, 1644).

    LA FAMOSA INVASIONE DEI FRANCESI IN EGITTO (XIX SECOLO)

    L'obelisco di Place de la Concorde non è la sola cosa che Napoleone abbia riportato in Francia dal lontano Egitto. Tra i membri della "Commission des Sciences et des Arts d'Egypte", istituita dal generale corso per traslocare opere d'arte dal paese dei faraoni alla ville lumière, c'era un certo monsieur Rouyer che, essendo "farmacista ordinario di Sua Maestà l'Imperatore" e non antiquario, preferí alla raccolta di pezzi archeologici lo studio delle piante medicinali di quell'esotica regione. Tornato a Parigi, monsieur Rouyer riordinò i suoi appunti e ne ricavò una dotta relazione che fece stampare, per i colleghi della Facoltà, nel Bulletin de pharmacie de Paris (1810).


    M. Rouyer, Farmaci comuni degli Egiziani

    La canapa è secondo gli egiziani la pianta per eccellenza, non per l'utile che se ne ricava in Europa e in molti altri paesi, ma a causa delle singolari proprietà che le si attribuiscono. Quella che si coltiva in Egitto è inebriante e narcotica. Ci si serve delle foglie e delle sommità fiorite di questa pianta, che bisogna raccogliere prima che giungano a maturità: con queste si prepara una conserva che si usa per confezionare il berch, il diasmouk e il bernaouy. Le foglie di canapa ridotte in polvere e incorporate nel miele o sciolte nell'acqua costituiscono la base del berch dei poveri. Questi ultimi si inebriano anche fumando la canapa da sola, o mischiata a tabacco: se ne fa una grande consumazione in Egitto, dove non si coltiva che per quest'impiego. La canapa d'Egitto è la stessa che quella d'Europa? Deve le sue proprietà alla coltura o al clima?

    Con questi interrogativi, che hanno tenuto occupati i botanici sistematici per il secolo a venire e che non sono ancora del tutto risolti, si chiude un paragrafo in apparenza modesto e oscuramente specialistico, ma che era destinato ad avere un impatto formidabile sulla cultura scientifica e letteraria francese del XIX secolo.
    Monsieur Rouyer era spalleggiato da un altro mémoire quasi contemporaneo, quello che Sylvestre de Sacy aveva letto l'anno prima, nel 1809, all'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi, intitolato Memoria sulla dinastia degli Assassini e sull'origine del loro nome. Il principale contributo scientifico di tale dissertazione voleva essere l'identificazione della misteriosa "polvere" adoperata dal Vecchio della Montagna per governare la setta degli Hashishiya, secondo il racconto di Marco Polo e di altri cronisti dell'epoca. Basandosi su vari argomenti soprattutto linguistici, De Sacy era giunto alla conclusione (come abbiamo visto nelle pagine precedenti) che si trattasse di hashish, e ne descrisse in dettaglio anche i potenti effetti euforizzanti e psicodislettici.
    Cosí, di punto in bianco, scienze naturali e scienze storiche si coalizzarono per mostrare all'attonito pubblico delle nazioni civili che la mente umana, res cogitans e sede dell'anima, poteva essere alterata in maniera spettacolare dall'ingestione di una semplice pianta. Nel giro di pochi anni, una valanga di racconti, romanzi e saggi in cui l'hashish svolgeva il ruolo ora di protagonista, ora di comparsa, si andò ad aggiungere a quelli che, nello stesso periodo, si scrivevano su un'altra droga d'origine vegetale, l'oppio:
    L'opium agrandit ce qui n'as pas de bornes,
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