FLORA MAGICA (III SECOLO a.C.)

Plinio il Vecchio, enciclopedista latino autore di una celebre Storia naturale, è biasimato da molti storici della scienza per la sua erudizione maniacale, per la sua ansia di completezza che lo spinse ad accogliere nella sua opera, senza "metodo scientifico", notizie e idee provenienti dalla tradizione colta come da quella popolare. Eppure, anche i suoi detrattori piú accaniti devono convenire che proprio a quella insaziabile curiosità dobbiamo il salvataggio di tanti frammenti della cultura classica, che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre nel naufragio del mondo antico.
Quello che presentiamo ai lettori è uno di tali relitti. Del suo (probabile) autore sappiamo poco piú del nome - Bolo, detto "il Democriteo" - e del luogo di nascita: la città di Mendes nel Basso Egitto. Contemporaneo del poeta Callimaco, Bolo avrebbe composto nel terzo secolo prima di Cristo un trattato di farmacologia, fortemente tinto di magia e intitolato Kheirokmeta [Manufatti], per il quale avrebbe utilizzato fonti principalmente persiane e in particolare gli scritti naturalistici dei grandi Magi, Zoroastro e Ostane.

Plinio era a conoscenza di quel trattato che però, per essere Bolo soprannominato "il Democriteo", credeva opera autentica del filosofo di Abdera; ma che il Kheirokmeta fosse autenticamente democriteo o no, a Plinio importava poco: pur dimostrando un certo scetticismo circa il suo contenuto ("quanto portentosiora tradit!": 'ma che razza di miracoli ci racconta!'), per quell'amore della completezza che l'ha condannato al biasimo degli storici della scienza (e per nostra fortuna) ce ne ha trascritto qualche passaggio. Vi si parla di piante esotiche, dai nomi rievocatori e dagli effetti prodigiosi.


Bolo di Mendes, in: Plinio, Storia naturale, XXIV (160-165)

160. ... L'erba aglaophotis ['luce brillante'] ha preso nome dall'ammirazione degli uomini per la bellezza del suo colore e nasce sui marmi dell'Arabia, dal lato della Persia, ciò che la fa anche chiamare marmaritis; i Magi se ne servono quando vogliono evocare gli dèi.
161. L'achaemenis ['achemenide'], colore dell'ambra, priva di foglie, nasce presso i Taradistili, popolo dell'India: i criminali che la bevono sciolta nel vino confessano tra mille tormenti tutte le loro colpe, assaliti da molteplici visioni di creature divine. La chiamano anche hippophobada, perché i cavalli ne hanno particolarmente paura ...
164. La thalassaegle ['luce del mare'] si trova sulle rive del fiume Indo, e perciò si chiama anche potomangis; se ne fa una bevanda che causa delirio, e fa vedere cose straordinarie.
La theangelis ['messaggera degli dèi'] cresce sui monti del Libano di Siria, sul monte Dicte a Creta, a Babilonia e nella regione di Susa, in Persia; bevendola, i Magi acquistano la capacità divinatoria.
La gelotophyllis ['foglia che fa ridere'] nasce in Battriana e sulle rive del fiume Boristene. Se la si beve con birra o vino, si hanno ogni sorta di visioni e si ride, si ride, fino a quando non si siano mangiati dei pinoli, del pepe o del miele col vino di palma.

Sebbene sia chiaro che queste herbae magicae sono in realtà piante dai potenti effetti psicodislettici, la loro identificazione con specie vegetali a noi note resta, per quasi tutte, pressoché impossibile. L'autore di un moderno repertorio di botanica latina ci assicura che nell'ultima di esse, la gelotophyllis, si deve riconoscere la kannabis di Erodoto: non possiamo contraddirlo. Il nome, presumibilmente traduzione di un fitonimo persiano, è fantasioso, ma appropriato a una pianta che colpisce soprattutto per la bella foglia pennato-composta e per la capacità di far ridere chi la consuma.
D'altronde, che la cannabis avesse un ruolo importante nella vita spirituale dell'antico Iran, come suggerisce il contesto in cui Bolo ne parla, è ipotesi fondata su piú di una testimonianza. Se ne parla in alcuni testi mazdei: lo Yasna, per esempio, dove si dice del dio Ahura Mazda che è "senza estasi e senza canapa", o il Videvdat, dove la cannabis è considerata invece come un essere demoniaco. Questo atteggiamento ambivalente del mazdeismo ortodosso verso l'impiego "estatico" della cannabis (impiego che doveva essere piuttosto comune nella religione tradizionale persiana) si ritrova anche nei confronti di un altro importante vegetale psicotropo, l'haoma, versione iranica del soma indiano lungamente descritto nel Rig-Veda, e identificato da Gordon Wasson col fungo allucinogeno Amanita muscaria.


Il fatto che su Bolo si sappia molto poco non ha impedito a Max Wellmann di dedicargli una erudita monografia ("Die F?s??a des Bolos-Demokritos und der Magier Anaxilaos von Larissa", in Abhandlungen, Akademie Berlin, n. 7, 1928), né a Joseph Bidez e Franz Cumont di tracciarne i complessi rapporti con le dottrine di Zoroastro e di Ostane (Les Mages hellénisés, Parigi, Les Belles Lettres, 1973; prima edizione 1938). Il passo di Plinio qui riportato è tradotto dall'edizione critica di Jacques André (Pline l'Ancien, Histoire naturelle, Livre XXIV, Les Belles Lettres, 1972), a cui dobbiamo anche l'identificazione di gelotophyllis con la cannabis (Les Noms des plantes dans la Rome antique, Les Belles Lettres, 1985). Mi sembra invece inadeguata la sua identificazione di aglaophotis ('luce splendente') con la Paeonia, basata com'è su un'omonimia molto piú tarda; alcuni particolari (l'uso sacerdotale "per evocare gli dèi", la coincidenza degli attributi luminosi dell'aglaophotis con quelli che lo Yasna attribuisce all'haoma) lasciano piuttosto sospettare che col greco aglaophotis Bolo avesse inteso tradurre una descrizione metaforica dell'haoma, ripresa da fonti persiane.
Sull'uso religioso della cannabis nell'Iran antico, si veda Le Chamanisme et les techniques archaïques de l'extase, di Mircea Eliade (Parigi, Payot, 1968, p. 310-316). Infine, nel mare magno delle speculazioni sull'identità del soma/haoma, il libro di Gordon Wasson, Soma: Divine Mushroom of Immortality (New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1971), resta un punto di riferimento obbligato.
SEGNALI D'OBLIO (I SECOLO d.C.)

I racconti di Erodoto e di Bolo sono ambientati, non dimentichiamolo, in contrade lontane dall'esperienza dell'uomo comune, cosí lontane da diventare nebulose e fiabesche: la Scizia di Erodoto non è solo il teatro ben reale di una sfortunata spedizione di Dario, ma anche la regione onirica di Ovidio, dove le donne si cospargono il corpo d'unguenti magici e si trasformano in uccelli (Metamorfosi, XV). La Persia di Bolo è inoltre, lo abbiamo visto, patria di Zoroastro e Ostane, scopritori delle virtú medicinali delle piante (Plinio, Storia naturale, XXV, 13) ma anche magoi per eccellenza, cioè, come ci spiega il lessicografo Esichio, stregoni, taumaturghi e incantatori.
Con Dioscoride siamo in tutt'altro mondo. Nato in Cilicia, nella città greca di Anazarbo, Pedanio Dioscoride è probabilmente medico dell'esercito romano quando decide di scrivere un trattato che illustri le caratteristiche botaniche di tutte le piante medicinali a lui note, le loro proprietà farmacologiche e i loro impieghi terapeutici. Il risultato, conosciuto oggi col nome latino di Materia medica [I materiali della medicina], non è solo un'imponente opera di farmacologia, la piú vasta dell'antichità che ci sia pervenuta, ma anche un capolavoro di equilibrio metodologico, in cui le notizie derivate dall'immenso patrimonio orale dei rhizotomoi, gli antichi erboristi, si combinano con uno spirito critico, un gusto per la sperimentazione personale e un buon senso che hanno fatto di Dioscoride, a giusta ragione, uno dei principali pilastri della terapeutica fino a Paul Ehrlich e all'invenzione, nel diciannovesimo secolo, dei farmaci di sintesi organica. Insomma, Dioscoride sapeva il fatto suo. Non solo: a differenza di Erodoto e di Bolo, egli non nutriva interessi etnologici e non amava raccogliere aneddoti di paesi lontani. Ci parla di quel che sa, che ha visto e che ha provato. Perciò, leggere le sue informazioni sulla cannabis è particolarmente istruttivo: meglio di chiunque altro, Dioscoride ci informa su quello che i greci e i romani del suo secolo ne sapevano e ne pensavano.