A. Laguna, "Commento a Dioscoride", I materiali della medicina, IV (75)
... Tra le cose che trovarono nella capanna di quelle streghe, c'era un vaso mezzo pieno di un certo unguento verde, come il populeone [pomata medievale che conteneva, tra l'altro, foglie di papavero e germogli di pioppo] con il quale si ungevano, il cui odore era cosí grave e pesante che mostrava d'essere composto da erbe fredde e soporifere in ultimo grado, come la cicuta, la belladonna, il giusquiamo o la mandragora; del quale unguento, grazie al bargello [alguazil] che mi era amico, ho fatto in modo d'ottenere un buon barattolo. Con questo, ritornato nella città di Metz, ho unto dalla testa ai piedi la moglie del boia che, a causa delle infedeltà del marito, aveva perso completamente il sonno, ed era diventata quasi furiosa. ... Questa, appena fu unta, con gli occhi spalancati come quelli di un coniglio, e sembrando anzi essa stessa una lepre cotta, piombò in un sonno talmente profondo, che pensai di non riuscire piú a svegliarla. [Quando poi, dopo trentasei ore di sonno, finalmente fu svegliata...] ... le sue prime parole furono: "Perché in mal punto mi svegliasti, ora che ero circondata da tutti i piaceri e diletti del mondo?" - e rivolti gli occhi al marito gli disse sorridendo: "E tu, pitocco, sappi che ti ho messo le corna, e con un galante piú giovane e piú bello di te".
L'unguento delle streghe intorno a cui affabulavano teologi e inquisitori era, dunque, un linimento a base di piante psicotrope nostrane, che un buon erborista campagnolo (cioè "strega") poteva raccogliere e preparare con una certa facilità: la belladonna, il giusquiamo, l'aconito napello. Vegetali associati fin dall'antichità al mondo dei morti, come la cannabis presso gli sciti, e che non erano probabilmente mai usati a casaccio o per scopi ricreativi, ma in un contesto di magia e di religione popolare dai contorni estatici. Cose queste abbastanza chiare a noi - soprattutto grazie agli studi di G. Bonomo, J.B. Russell e C. Ginzburg che hanno pazientemente ricostruito il profilo della stregoneria medievale - ma che in fondo erano già evidenti agli intellettuali di allora. Al punto che, quando questi vengono a sapere dei bizzarri rituali religiosi degli indiani d'America - quando, per esempio, apprendono da Francisco Hernandez che i sacerdoti aztechi usano la pianta ololiuhqui (Rivea corymbosa L.) per comunicare con i loro dèi -, non esitano a stabilire un parallelo illuminante con le "streghe" di casa nostra.
Paolo Zacchia, De' mali hipochondriaci
[Zacchia, archiatra di Innocenzo X, commenta qui la ricetta di un unguento stregonesco, pubblicata nel 1558 dal filosofo napoletano Giovanbattista della Porta]
Altri Autori pongono altre unzioni per fare vedere in sogno cose grate, vaghe e piacevoli, come quella che fassi di sugo di Appio, di foglie tenere di Pioppo, d'Acoro volgare, di Solatro, di Stramonio, e d'Aconito untandone le tempie e la gola. Certa cosa è, che altre se ne fanno che non sono prive del loro effetto, e massimamente quelle, delle quali appresso gl'Indiani e altri barbari si servivano i falsi sacerdoti, dando ad intendere ai semplici popoli di vedere in sogno i Dei, e il Paradiso, e come quelle anche delle quali si servono le streghe, le quali per lo piú per virtú di queste unzioni profondamente addormentatesi veggiono alcuni sogni conformi alla loro immaginazione, e pensano falsamente (almeno le piú) di essere state ne' conviti e nozze co' demoni, e loro vaghi e ivi avere banchettato e goduto di nefandissimi piaceri.
Streghe e aztechi avevano questo in comune, che entrambi comunicavano con i loro dèi in stato di estasi, e usavano per questo scopo piante psicotrope. Tutto ciò era ben chiaro ai piú avveduti tra gli uomini di cultura europei del XVI e XVII secolo, per i quali i barbari ignudi d'oltreoceano erano forse tanto lontani culturalmente quanto le vecchie montanare, analfabete e mezzo morte di fame, che vedevano trascinare davanti al tribunale del Santo Offizio.
E la cannabis? La cannabis continua a vivere lontana da questi clamori, conosciuta per i suoi effetti, ma né temuta né associata ad alcuna particolare devianza religiosa. Le parole dello stesso Andres de Laguna nel suo commento a Dioscoride illustrano bene la quieta vita di provincia di quei tempi.
A. Laguna, "Commento a Dioscoride", I materiali della medicina, III (l60)
[Il seme di canapa] si digerisce difficilmente, dà peso allo stomaco, provoca ubriachezza e mal di testa e si con
verte in cattivi umori. I quali danni ed inconvenienti si devono perdonare alla canapa, perché essa è strumento della giustizia, per punire ed estirpare gli uomini dannosi allo stato [con le corde di canapa si impiccavano infatti i malfattori].
Il lettore del racconto di Leonardo Sciascia La strega e il capitano (che contiene alcune tra le pagine piú assennate scritte in italiano sulla stregoneria dopo quelle di Alessandro Manzoni) ricorderà che, tra le povere cose della strega Caterina, gli inquisitori trovano una cartina "con dentro erba che non si è potuto comprendere che cosa sia" e che invece il medico Antonio Clerici dichiara essere "erba Andina", chiamata anche "yerba mate". Da uomo di buon gusto, Leonardo Sciascia glissa sulla cosa, ma a noi sembra chiaro che il dottor Clerici accusava l'ignara Caterina di detenere e consumare foglie dell'arbusto andino Erythroxylon coca, con cui si prepara appunto un ben noto mate.
Dalla vastissima bibliografia sulla stregoneria pesco due titoli che si leggono con piacere e profitto: un romanzo, La chimera, di Sebastiano Vassalli (Torino, Einaudi 1990) e un'antologia di testi, La stregoneria: Diavoli, streghe e inquisitori dal Trecento al Settecento, a cura di S. Abbiati, A. Agnoletto e M.R. Lazzati (Milano, Mondadori 1984). Altri riferimenti bibliografici piú completi si possono trovare in Storia notturna di C. Ginzburg e (sul ruolo delle piante psicotrope) in D. Pomelli-A. Pollio, "In Upupa o Strige: A Study in Renaissance Psychotropic Plant Ointments", History and Philosophy of the Life Sciences, n. 16 (1994), p. 241-273. Il testo di De Laguna è tratto da C. E. Dubler, La Materia Medica de Dioscorides: Transmision medieval y renacentista, vol. III: La "Materia Medica" de Dioscorides traducida y comentada por Andres de Laguna (Barcellona, 1955). Quello di Zacchia è citato da Piero Camporesi in Il pane selvaggio, alle pagine l66-167: ho solo modificato qua e là l'ortografia, seguendo l'edizione di Vitale Mascardi (Roma, 1644).
LA FAMOSA INVASIONE DEI FRANCESI IN EGITTO (XIX SECOLO)
L'obelisco di Place de la Concorde non è la sola cosa che Napoleone abbia riportato in Francia dal lontano Egitto. Tra i membri della "Commission des Sciences et des Arts d'Egypte", istituita dal generale corso per traslocare opere d'arte dal paese dei faraoni alla ville lumière, c'era un certo monsieur Rouyer che, essendo "farmacista ordinario di Sua Maestà l'Imperatore" e non antiquario, preferí alla raccolta di pezzi archeologici lo studio delle piante medicinali di quell'esotica regione. Tornato a Parigi, monsieur Rouyer riordinò i suoi appunti e ne ricavò una dotta relazione che fece stampare, per i colleghi della Facoltà, nel Bulletin de pharmacie de Paris (1810).
M. Rouyer, Farmaci comuni degli Egiziani
La canapa è secondo gli egiziani la pianta per eccellenza, non per l'utile che se ne ricava in Europa e in molti altri paesi, ma a causa delle singolari proprietà che le si attribuiscono. Quella che si coltiva in Egitto è inebriante e narcotica. Ci si serve delle foglie e delle sommità fiorite di questa pianta, che bisogna raccogliere prima che giungano a maturità: con queste si prepara una conserva che si usa per confezionare il berch, il diasmouk e il bernaouy. Le foglie di canapa ridotte in polvere e incorporate nel miele o sciolte nell'acqua costituiscono la base del berch dei poveri. Questi ultimi si inebriano anche fumando la canapa da sola, o mischiata a tabacco: se ne fa una grande consumazione in Egitto, dove non si coltiva che per quest'impiego. La canapa d'Egitto è la stessa che quella d'Europa? Deve le sue proprietà alla coltura o al clima?
Con questi interrogativi, che hanno tenuto occupati i botanici sistematici per il secolo a venire e che non sono ancora del tutto risolti, si chiude un paragrafo in apparenza modesto e oscuramente specialistico, ma che era destinato ad avere un impatto formidabile sulla cultura scientifica e letteraria francese del XIX secolo.
Monsieur Rouyer era spalleggiato da un altro mémoire quasi contemporaneo, quello che Sylvestre de Sacy aveva letto l'anno prima, nel 1809, all'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi, intitolato Memoria sulla dinastia degli Assassini e sull'origine del loro nome. Il principale contributo scientifico di tale dissertazione voleva essere l'identificazione della misteriosa "polvere" adoperata dal Vecchio della Montagna per governare la setta degli Hashishiya, secondo il racconto di Marco Polo e di altri cronisti dell'epoca. Basandosi su vari argomenti soprattutto linguistici, De Sacy era giunto alla conclusione (come abbiamo visto nelle pagine precedenti) che si trattasse di hashish, e ne descrisse in dettaglio anche i potenti effetti euforizzanti e psicodislettici.
Cosí, di punto in bianco, scienze naturali e scienze storiche si coalizzarono per mostrare all'attonito pubblico delle nazioni civili che la mente umana, res cogitans e sede dell'anima, poteva essere alterata in maniera spettacolare dall'ingestione di una semplice pianta. Nel giro di pochi anni, una valanga di racconti, romanzi e saggi in cui l'hashish svolgeva il ruolo ora di protagonista, ora di comparsa, si andò ad aggiungere a quelli che, nello stesso periodo, si scrivevano su un'altra droga d'origine vegetale, l'oppio:
L'opium agrandit ce qui n'as pas de bornes,



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