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Discussione: La storia della canapa

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  1. #1
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    Gli effetti psicologici della cannabis includono euforia, stati oniroidi, calma e sonnolenza.
    ... L'intossicazione accresce la sensibilità agli stimoli esterni, svela dettagli che sarebbero ordinariamente ignorati, fa apparire piú ricchi e brillanti i colori e aumenta la sensibilità soggettiva alla musica e all'arte. Il tempo sembra rallentare, e una quantità maggiore di cose sembra avvenire in un tempo dato. Altri sintomi sono: aumento dell'appetito, secchezza delle fauci e tachicardia. Stranamente, si prova spesso una separazione della personalità: mentre ci si sente high, si è anche osservatori obiettivi della propria intossicazione.
    Si possono sviluppare sintomi di paranoia e si può, nello stesso tempo, riderci sopra. Si possono inoltre produrre depersonalizzazione e derealizzazione. Se gli ingredienti attivi della marijuana raggiungono livelli ematici molto elevati, il soggetto può subire allucinazioni simili a quelle prodotte da droghe quali l'acido lisergico dietilamide (LSD). Questi effetti includono percezione distorta del corpo, aberrazioni spaziali e temporali, aumentata sensibilità al suono, sinestesia, accresciuta suggestionabilità, e stato di profonda consapevolezza.

    Al di là dell'esattezza puntigliosa delle sue descrizioni, Moreau propone un'interpretazione neuropsichiatrica degli effetti dell'hashish che corrisponde, in sostanza, all'interpretazione "morale" che ne dà Baudelaire nelle ultime pagine di Les Paradis artificiels.
    Secondo Moreau, noi viviamo nel presente grazie a un atto della volontà che dirige la nostra attenzione verso tutti quegli oggetti e quei fenomeni che hanno per noi un interesse attuale; è un concetto che sarà in parte ripreso da Henri Bergson in Matière et mémoire (1896). Attraverso la memoria viviamo nel passato, e attraverso l'immaginazione, nell'avvenire. L'hashish, indebolendo la volontà, cioè riducendo quella "forza intellettuale che domina le idee, le associa e le lega tra loro", lascia campo libero alla memoria e all'immaginazione: passato e avvenire prendono cosí il sopravvento e causano uno stato di dissociazione delle idee che, per Moreau, non è soltanto sintomo primario dell'intossicazione da hashish, ma anche modificazione, "fatto primordiale" (fait primordial), alla base sia dello stato di sonno sia delle piú diverse forme di alienazione mentale.


    J. Moreau, L'hashish e l'alienazione mentale (1845)

    Nello stato regolare o normale [delle nostre facoltà intellettuali], quando vogliamo pensare qualcosa, meditare su un soggetto, cioè considerarlo sotto i suoi diversi punti di vista, succede quasi sempre che ne siamo distratti da qualche idea estranea. Ma quest'idea non fa che traversare il nostro spirito, senza lasciare tracce, oppure la si può scacciare facilmente, senza che la serie regolare dei nostri pensieri sia interrotta.
    Uno dei primi effetti apprezzabili dell'hashish è l'indebolimento graduale e sempre piú marcato del potere che
    abbiamo di dirigere i nostri pensieri a nostro piacimento. Insensibilmente, ci sentiamo invasi da idee estranee al soggetto sul quale vogliamo fissare la nostra attenzione. Queste idee che la volontà non ha evocato, e che sorgono nel nostro spirito non si sa né come né perché, diventano sempre piú numerose, piú vive, piú sorprendenti.
    ... Noi viviamo nel presente grazie a un atto della volontà che dirige la nostra attenzione verso degli oggetti che hanno per noi un interesse attuale.
    Grazie alla memoria, viviamo nel passato; grazie a essa possiamo, in un certo senso, ricominciare la nostra esistenza dal punto preciso in cui essa ha cominciato con la coscienza di noi stessi.
    Grazie all'immaginazione viviamo nell'avvenire; grazie a essa possiamo crearci un mondo nuovo e, se posso usare un'espressione la cui precisione giustificherà forse il barbarismo, una nuova esteriorità. Grazie a essa, reagendo su sé stesso, l'io sembra potersi trasformare, cosí come essa modifica, cambia a suo piacimento le cose, le persone, il tempo e i luoghi.
    Poiché l'azione dell'hashish va a indebolire la volontà - la forza intellettuale che domina le idee, le associa e le lega tra loro -, memoria e immaginazione prendono il sopravvento, le cose presenti ci diventano estranee, e cadiamo in balia del passato e del futuro.
    La coscienza apprezza diversamente questi effetti, secondo il grado di violenza del disordine intellettuale provocato dall'agente modificatore.
    Finché questo disordine non ha passato certi limiti, si riconosce facilmente l'errore nel quale siamo stati indotti, non già nel momento stesso in cui ci domina, il che implicherebbe una contraddizione, ma immediatamente dopo che, rapido come il fulmine, esso ha traversato la mente. Ne risulta allora una successione di idee false e di idee vere, di sogni e di realtà, che costituisce una sorta di stato intermedio tra follia e ragione, e fa sí che un individuo possa essere, se non in realtà almeno in apparenza, nello stesso tempo pazzo e sano di mente.

    Le analogie che Moreau stabilisce tra sintomi dell'intossicazione da hashish e psicosi lo convincono, con logica da "chiodo scaccia chiodo" che sfugge a noi come a molti dei suoi contemporanei, a studiare gli effetti terapeutici della cannabis su un piccolo gruppo di pazienti ricoverati a Bicêtre. In calce a L'hashish e l'alienazione mentale, Moreau descrive sette di questi esperimenti, in cui la somministrazione orale di hashish a pazienti affetti da schizofrenia avrebbe prodotto una remissione completa dei sintomi. Vediamone uno: quello del parrucchiere parigino D.
    Giovane e di robusta costituzione fisica, D. ha sofferto per qualche tempo, e senza alcuna causa esterna apparente, di forti dolori alla testa e di ronzii agli orecchi. Il suo carattere ha anche subito, all'improvviso, un cambiamento violento: a tal punto che la moglie afferma di non riconoscerlo piú e di temere qualche disgrazia. Si crede ricco, geniale, poeta. Passa il tempo a scribacchiare versi sui muri della sua stanza, asserendo che le sue poesie farebbero "crepare d'invidia" (sono parole sue) Corneille e Racine, se fossero ancora vivi.
    Il 16 Febbraio 1842 lo portano a Bicêtre, dove D. riceve la dose canonica di bagni prolungati, ventose alla nuca e purganti, fino a quando Moreau incomincia a interessarsi a lui. Da quel momento, il trattamento cambia. Il medico non esita a sperimentare una terapia d'assalto: trenta grammi di hashish per os, a digiuno, accompagnati da qualche tazza di caffè (che, come si ricorderà dalla lettura di Gautier, ne accelera e ne potenzia gli effetti). Dopo un'ora e mezzo dalla somministrazione del preparato, D. mostra tutti i sintomi dell'intossicazione - euforia, stato oniroide, sonnolenza -, sintomi che durano fino a sera, quando egli cena normalmente, si ritira, e passa una notte calma e senza sogni. L'indomani, lo stato generale di D. è cosí migliorato e i sintomi della sua malattia sono cosí drasticamente diminuiti da permettere il suo trasferimento immediato alla fattoria di Sant'Anna (nella zona sud di Parigi), che era allora un centro di convalescenza per pazienti neuropsichiatrici, da cui sarà dimesso poco piú tardi.
    Che dire di questa miracolosa guarigione, e delle altre sei che Moreau ci descrive? Che di miracoli siffatti, ahimè, sono pieni gli annali della storia della medicina, con le piú varie terapie (viene in mente la polvere di corno d'alce, usata dal medico illuminista svizzero Tissot per curare l'epilessia; oppure, piú di recente, la "psicochirurgia" che pretendeva di curare disturbi della personalità distruggendo chirurgicamente aree piú o meno grandi dell'encefalo). In casi del genere lo scetticismo non è mai troppo.
    Bisogna aggiungere che tra i contemporanei di Moreau non molti ne condividevano le intemperanze terapeutiche: di là dalla Manica, per esempio, vari esponenti della scuola farmacologica britannica - ancora ai suoi primi passi, ma destinata a un avvenire glorioso - avevano compreso il potenziale terapeutico della cannabis, ma lo esploravano con ben piú cauto empirismo.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
    MrNatural

  2. #2
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    Robert Christison, Commento alla farmacopea britannica e statunitense (1848)

    Numerosi osservatori hanno riferito che la canapa indiana produce, nei nativi dell'Oriente che la utilizzano spesso al posto delle bevande alcooliche, talora uno stato pesante e indolente di piacevole fantasticheria, dal quale l'individuo può essere risvegliato facilmente per eseguire compiti semplici; talora uno stato allegro e attivo di ebbrezza, che spinge a danzare, a cantare e a ridere, stimola l'appetito venereo e accresce il desiderio di
    cibo; talora un'ubriachezza rissosa, che conduce ad atti di violenza. Durante questa condizione, il dolore è lenito e gli spasmi interrotti. In genere, il sonno sopravviene dopo tre ore, e quando questo termina, non è seguito né da nausea, né da perdita d'appetito, né da costipazione. Nessun altro sintomo, a parte un leggero capogiro. Ciò nonostante, il suo uso frequente abbrutisce l'intelletto.
    ... Nella mia propria esperienza professionale, ... [la cannabis] ha provocato il sonno, ha lenito il dolore e ha arrestato lo spasmo; non ho mai osservato alcun effetto sgradevole durante o dopo la sua azione, eccetto che, in un solo caso, ha causato, all'inizio della sua azione, un senso allarmante di percussione nel cervello.
    ... Nel complesso, si tratta di un farmaco che merita studi piú approfonditi di quelli finora compiuti.

    A quasi centocinquant'anni di distanza, e nonostante il progresso delle nostre conoscenze sul meccanismo d'azione della canapa indiana, questa conclusione resta ancora valida.


    Il ruolo delle droghe nella letteratura francese tra Ottocento e Novecento è stato esplorato in La Belle époque de l'opium, di Arnould de Liedekerke (Éditions de la Différence, 1984), che raccoglie un ricco materiale bibliografico e un'antologia di testi a cui senz'altro rimando.
    La monografia di Moreau (Parigi, Fortin-Masson et Cie., 1845), un classico della neuropsichiatria, non è purtroppo disponibile né in traduzione italiana né in ristampa francese: chi non si contenti di leggerla in biblioteca e voglia possederla, la troverà forse da qualche bouquiniste della rue Tournon, ma non si aspetti di portarsela via per pochi franchi.
    II vivo interesse della farmacologia britannica per la cannabis, creatosi durante l'occupazione coloniale dell'India, è descritto dettagliatamente da Raphael Mechoulam in The Pharmacohistory... (op. cit.), che però non include in bibliografia il passaggio di Christison citato qui.
    Non possiamo lasciare il XIX secolo senza almeno accennare ad alcune pubblicazioni italiane sulla cannabis, contemporanee di quelle di Moreau e di Christison: si tratta dei lavori di due chimici, Giovanni Polli e Carlo Erba, e del fisiologo Paolo Mantegazza. Il lettore interessato potrà trovarne una descrizione in Bibliografia italiana su allucinogeni e cannabis (Bologna, Grafton 9, 1994), a cura della SISSC (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza); oppure, piú dettagliatamente, nel libro di prossima pubblicazione che Giorgio Samorini ha dedicato alla storia della cannabis in Italia.

    [Il libro di Giorgio Samorini è stato pubblicato nel 1997 da Nautilus (Torino), con il titolo L'erba di Carlo Erba), n.d.r.]

    SI RICERCA E SI PROIBISCE,
    MA SOPRATTUTTO SI CONSUMA (XX SECOLO)

    L'Ottocento si chiude in Europa con la fiducia nelle magnifiche sorti progressive dell'umanità, e con la convinzione che la canapa indiana abbia effetti potenti e distinti da quelli di ogni altra pianta psicotropa.
    Che tali effetti fossero opera di una sostanza, di un "principio attivo" ospitato nelle foglie e nelle infiorescenze, tutti lo sospettavano (in quegli anni venivano isolate la cocaina, la morfina e la chinina), ma nessuno riusciva a dimostrarlo. Ancora nel secondo dopoguerra, un repertorio di medicamenti "ad uso del farmacista italiano" ascriveva alla canapa indiana i seguenti componenti chimici: "cannabina, ossicannabina, cannabinina, tetanocannabina (sostanze poco bene definite), cannabinone, cannabinolo, olio essenziale (0,3%)"; e concludeva: "A quest'ultimo si attribuisce l'attività farmacologica della droga".
    Che cosa ci fosse di preciso in quell'olio essenziale continuò a rimanere ignoto fino a quando, nel 1964, il giovane chimico israeliano Raphael Mechoulam annunciò d'essere riuscito a isolarne il principio attivo: con una breve nota pubblicata sul Journal of the American Chemical Society Mechoulam identificò tale principio in un nuovo derivato idrogenato del cannabinolo, il delta-9-tetraidrocannabinolo, capace di produrre nell'animale di laboratorio e nell'uomo effetti non dissimili da quelli dell'hashish.
    Le azioni della cannabis, si sa, non hanno granché in comune con quelle della coca o dell'oppio, e la differenza si manifesta già nella struttura chimica del delta-9-tetraidrocannabinolo. Secondo la terminologia chimica, i principi psicoattivi contenuti nella coca (cocaina) e nell'oppio (morfina) sono degli alcaloidi. Quindi, come gli alcali inorganici, possiedono sulla loro molecola una debolissima carica elettrica che conferisce loro una certa affinità per l'acqua, che è a sua volta un dipolo elettrico. Perciò, la cocaina e la morfina si sciolgono facilmente nel sangue e nelle altre soluzioni acquose che bagnano i nostri organi interni, compreso il cervello. Il delta-9-tetraidrocannabinolo invece no: non è un alcaloide e non è per nulla carico elettricamente. Anzi, è sostanza fortemente "lipofila", cioè con una preferenza a sciogliersi nei grassi. E di grassi sono fatte le membrane che separano tutte le nostre cellule dal resto del mondo: sacchetti lipidici in cui galleggiano decine di migliaia di proteine dalle forme e funzioni piú diverse, come i recettori, che captano messaggi chimici lanciati da una cellula all'altra, e gli enzimi, che rendono veloci una frazione di secondo reazioni chimiche che altrimenti sarebbero

    lentissime.
    Che importanza può avere il fatto che il delta-9-tetraidrocannabinolo sia sostanza lipofila? Storicamente, enorme. Per comprenderla dobbiamo fare una breve deviazione d'itinerario, e ricordare attraverso quali meccanismi operano le sostanze psicoattive.
    Prendiamo l'esempio della morfina. Iniettata endovena, questa penetra attraverso la barriera di cellule che separa il sangue dal sistema nervoso, e raggiunge il cervello. Lí, benché entri in contatto con quasi tutte le cellule cerebrali, essa interagisce soltanto con una popolazione molto limitata di cellule: quelle che sulla superficie esterna della propria membrana hanno dei recettori che la "riconoscono" specificamente, come una serratura "riconosce" la propria chiave. Tutte, ma proprio tutte, le azioni della morfina (dall'euforia alla stitichezza) sono una conseguenza di questo temporaneo legarsi a specifici recettori di membrana. Tale legame cambia la forma dei recettori (non metaforicamente: è proprio ciò che succede), li fa urtare con degli enzimi che si trovano accanto e li costringe, con rapidità e selettività strabilianti, ad avviare una serie di reazioni chimiche che finiscono col modificare l'eccitabilità delle cellule nervose, cioè la loro capacità di sentire gli stimoli lanciati dalle cellule vicine e di rispondervi.
    Ma qual è il nesso di tutto ciò con il delta-9-tetraidrocannabinolo e la sua lipofilia? Questo: che per ventiquattro anni, dal 1964 al 1988, l'opinione prevalente tra farmacologi e neurobiologi era che una sostanza lipofila come il delta-9-tetraidrocannabinolo non potesse agire come la morfina (sostanza idrofila), ma si sciogliesse invece nella matrice lipidica della membrana e ne modificasse in maniera non selettiva le proprietà biochimiche. A questa teoria del delta-9-tetraidrocannabinolo come "sapone neuronale" alcuni scienziati piú avveduti opponevano un'obiezione dettata dal semplice spirito d'osservazione e dal buon senso (che difettano tra gli scienziati come in ogni altra categoria professionale): se il meccanismo d'azione del delta-9-tetraidrocannabinolo è cosí aspecifico, perché i suoi effetti sono invece cosí smaccatamente diversi da quelli di ogni altra sostanza psicoattiva? Perché cosí caratteristici e irripetibili? Quella pattuglia di anticonformisti non era composta da eretici, ma da gente sensata che ragionando per analogia si domandava: e se il delta-9-tetraidrocannabinolo avesse, come la morfina, un suo recettore specifico? Ipotesi plausibile che suscitava però, senza prove sperimentali, solo qualche scettica alzata di spalle.
    La prima prova irrefutabile che un recettore per il delta-9-tetraidrocannabinolo esiste davvero arrivò inaspettatamente e, come spesso avviene, del tutto per caso, quando un gruppo di ricercatori del National Institute of Health di Bethesda (USA) stava "andando per recettori". Già, perché oggigiorno si può andare per recettori come si va per funghi, aspettando la stagione adatta, andando nel tal bosco, sotto quel tale albero eccetera. Nel caso dei recettori, basta avere un po' di fondi per la ricerca e un'idea di ciò che si vuole.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
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  3. #3
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    Vediamo come.
    I recettori sono proteine, e come tutte le proteine sono modellati su uno "stampo" fatto di acido ribonucleico (RNA) "messagero" che a sua volta è modellato su uno stampo di acido deossiribonucleico (DNA). Poiché i recettori fanno un po' tutti lo stesso mestiere, che è quello di riconoscere un messaggio chimico extracellulare e trasmetterlo all'interno della cellula, è ovvio che si somigliano un po' tutti (analogia: pipistrello, passero e pterodattilo sono animali molto diversi, ma hanno in comune un elemento di base necessario a volare, le ali). Le omologie tra recettori diversi non sono grandi, diciamo il 10-20%, ma bastano al biologo molecolare per giocare d'astuzia. Il ricercatore, infatti, fabbrica dei frammenti di DNA che contengono le sequenze omologhe, e li aggiunge a vari estratti in cui sono presenti tutti gli RNA cellulari (svariati milioni). Per ragioni di affinità chimica, il DNA artificiale va a legarsi ai vari RNA a cui corrisponde, e solo a quelli: quindi basta aggiungere all'estratto certi enzimi i quali, trovato l'RNA del recettore legato al DNA artificiale, lo usano come stampo per fabbricare il DNA completo del recettore, e inoltre producono questo DNA in milioni di copie, come desiderato: il DNA del recettore è adesso in quantità tale da poter essere isolato ("clonato") e analizzato come si deve.
    Ora che sappiamo come si clona un recettore, possiamo ritornare al nostro gruppo di ricercatori americani: abbiamo capito che loro "andavano per recettori" non cercando un recettore in particolare, ma gettando l'amo senza stare a porsi troppi problemi. E gli è andata bene, come ci raccontano in un articolo comparso nel 1988 sulla rivista britannica Nature. Dopo aver isolato, nel modo suddetto, il DNA di un recettore ignoto, l'hanno deposto nel nucleo di un fibroplasto. Questa cellula (che resiste ai piú infami maltrattamenti genetici rimanendo, nonostante tutto, disperatamente normale) ha scambiato il DNA estraneo per uno dei suoi e si è messa a produrre il recettore che vi era codificato come se fosse una delle sue proprie proteine; e nel frattempo si è riprodotta, formando milioni e milioni di altri fibroplasti simili, che esprimevano tutti l'ignoto recettore. A quel punto, per scoprire quale sostanza vi si legasse, i ricercatori hanno provato una lunga serie di composti, a uno a uno, fino a trovare quello giusto, appunto il delta-9-tetraidrocannabinolo.
    Il lettore che ha avuto la benevolenza di seguirmi in questa digressione tecnica avrà forse anche l'astuzia di pormi una domanda: se i recettori servono a captare i messaggi chimici che le cellule si lanciano reciprocamente, che ci fa nel nostro corpo il recettore per una sostanza prodotta da una pianta? Se si trattasse di un composto odorante o di un feromone, si capirebbe; ma una sostanza psicoattiva? Perché?
    Esclusa la possibilità che l'evoluzione abbia previsto la beat generation, resta quella che il recettore riconosca il delta-9-tetraidrocannabinolo per errore, scambiandolo per un'altra sostanza: una sostanza endogena che, liberata dalle cellule nervose, potrebbe produrre quell'insieme di sensazioni psichiche e di effetti fisiologici che è ca

    ratteristico della cannabis. Ma se questa sostanza cannabinoide endogena esiste, come si può fare per provarne l'esistenza?
    In teoria, è facile come seguire una ricetta di cucina. Si prende un cervello (preferibilmente piuttosto grande, per esempio di maiale), se ne fa un estratto (che è come preparare un omogeneizzato) e se ne separano le varie componenti chimiche (e già qui la cosa si fa piú difficile). Poi si determina se una di tali componenti si lega specificamente al recettore del delta-9-tetraidrocannabinolo. Trovatala, se ne stabilisce la struttura chimica: quod erat demonstrandum.
    Tuttavia, tra proteine, peptidi, lipidi semplici e complessi, carboidrati e chi piú ne ha piú ne metta, nel cervello di un mammifero risiedono svariati milioni di molecole, tra cui quella che ci interessa: la sostanza cannabinoide endogena. La quale, come se non bastasse, rappresenta molto probabilmente solo una frazione infinitesimale delle sostanze presenti nell'estratto di partenza: il proverbiale ago nel pagliaio.
    E allora? Allora ci vuole astuzia, molta; fortuna, quanto basta; e "olio di gomito", moltissimo. Chi ha l'idea giusta, e ci crede, ed è disposto a lavorarci sopra, è in genere quello che alla fine vince. Nel nostro caso, l'idea giusta l'ha avuta ancora una volta Raphael Mechoulam. Da buon chimico, e ragionando per analogia, Mechoulam si è detto: il recettore cannabinoide riconosce il delta-9-tetraidrocannabinolo che è sostanza di natura lipofila; sembra possibile, quindi, che il cannabinoide endogeno sia anch'esso lipofilo. Cosí tutto diventa piú facile: un estratto dei soli lipidi contiene ovviamente un numero di composti chimici molto minore che in un estratto totale, ed è perciò molto piú semplice da analizzare. Un'idea semplificatrice, una buona idea dunque, ma anche un'idea giusta. Infatti, due anni dopo averla avuta, e dopo aver omogeneizzato ed estratto molti cervelli di maiale, Mechoulam annunciava alla comunità scientifica internazionale, sulle pagine della rivista americana Science, la purificazione e l'identificazione chimica di una molecola endogena dotata di attività biologiche simili a quelle del delta-9-tetraidrocannabinolo.
    La sua ipotesi di partenza era corretta: si tratta in effetti di una sostanza lipofila, proprio come il delta-9-tetraidrocannabinolo, ma con la struttura chimica molto diversa da quest'ultimo e sorprendentemente piú semplice. Niente anelli del furano, niente catene laterali, niente stereochimica complessa: un acido grasso polinsaturo (come quelli che si trovano nell'olio d'oliva), condensato all'etanolammina (una piccola molecola che funge da precursore per fosfolipidi come la cefalina). L'acido grasso si chiama acido arachidonico; il nome chimico della sostanza cannabinoide endogena è dunque arachidonil-etanolammide. Ma Mechoulam, che ha un debole per la cultura indiana, ha preferito battezzarla anandammide, dal sanscrito ananda ('gioia profonda').
    La scoperta dell'anandammide è del dicembre 1992. Dopo la pubblicazione su Science, diversi laboratori hanno confermato ed esteso il lavoro di Mechoulam e dei suoi collaboratori, dimostrando come la somministrazione di anandammide provochi un insieme di sintomi psichici e fisici molto simili a quelli causati dal consumo di hashish o di marijuana. Tali risultati confermano l'attività cannabinoide dell'anandammide, ma lasciano irrisolto un problema essenziale: perché il nostro cervello la produce? In quale momento del nostro tran-tran di animali sociali o della nostra vita interiore ne abbiamo bisogno? Forse quando ci viene improvvisamente svelata la comicità nascosta in un comportamento o in un oggetto, che ci era sfuggita fino allora? O quando c'è il sole, e siamo euforici e non sappiamo perché? O quando scriviamo una poesia, tracciamo un disegno, pensiamo una melodia? O semplicemente quando abbiamo voglia di mangiare un pezzo di cioccolata?
    Dietro tali domande, che sono senza risposta e lo saranno ancora per un bel pezzo, ce ne sono altre, piú tecniche in apparenza. In quali cellule del sistema nervoso centrale si produce l'anandammide? Quali stimoli ne causano la produzione? Dove agisce, e come? ll neurobiologo è convinto che almeno a questi interrogativi siano possibili delle risposte sperimentali, e che queste possano spiegare le funzioni che l'anandammide svolge nel nostro comportamento quotidiano. Da Galileo in poi, fare un esperimento vuol dire innanzi tutto immaginare un pezzo di realtà possibile, per poi verificarne la probabilità mediante le manipolazioni sperimentali e i loro risultati. Allora, se apriamo il nostro "Libro de los seres imaginarios", che cosa troviamo al paragrafo "anandammide"? Vi troviamo anzitutto una cellula nervosa che, stimolata, produce anandammide e la secerne nel liquido extracellulare. Lí, l'anandammide entra in contatto con altre cellule e si lega temporaneamente a quelle che possiedono sulla loro superficie esterna il recettore cannabinoide. Il recettore trasmette la notizia del legame avvenuto, cambiando forma e costringendo proteine ed enzimi che gli sono vicini a fare lo stesso. Il messaggio è passato cosí all'interno della cellula, che può allora aumentare o diminuire di eccitabilità secondo le caratteristiche che le sono proprie (le cellule nervose, si sa, non sono come quelle del fegato, e l'una non vale l'altra). Finito il suo compito, l'anandammide viene risucchiata via dal liquido extracellulare, e i suoi effetti poco alla volta scompaiono. I risultati di esperimenti portati a termine di recente nel laboratorio di chi scrive hanno confermato queste predizioni: l'attività elettrica delle cellule nervose provoca la liberazione di anandammide nel mezzo extracellulare, seguita dalla sua rapida inattivazione.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
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  4. #4
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    In quale regione del cervello possono aver luogo questi eventi? Nell'ippocampo, per esempio: una piccola regione a forma di cavalluccio di mare, situata proprio sotto la corteccia cerebrale, attraverso cui passano i cogitata et visa per andare a formare memorie stabili o a perdersi per sempre; l'ippocampo è ricco di recettori cannabinoidi, la cui attivazione potrebbe essere la causa della smemoratezza tipica del fumatore di hashish. Oppure nell'ipotalamo, una struttura alla base del cervello, che regola molti di quei processi vitali che funzionano benis
    simo da sé e sui quali la nostra coscienza normalmente non ha alcun controllo: la fame, la sete, la temperatura corporea. Anche l'ipotalamo, come l'ippocampo, contiene dei recettori cannabinoidi; anche lí dunque la loro attivazione può avere degli effetti importanti, per esempio quello di aumentare l'appetito (un classico effetto del consumo di cannabis).
    Chiudiamo il "Libro de los seres imaginarios" e ritorniamo a noi. Se, da una parte, lo studio del meccanismo d'azione del delta-9-tetraidrocannabinolo ha portato alla scoperta dell'anandammide e del suo ruolo di sostanza cannabinoide endogena, dall'altra la ricerca farmacologica e tossicologica ha dimostrato in questi ultimi anni, oltre ogni ragionevole dubbio, l'innocuità della cannabis e dei suoi principi attivi.
    Non è questo il luogo per riassumere i dati sperimentali, numerosissimi, a sostegno di tale innocuità: il lettore interessato potrà consultare con profitto la letteratura specializzata sull'argomento, a cui faccio riferimento nella nota bibliografica. Ricordo solo che, a differenza di altre sostanze psicoattive di largo consumo (tabacco e alcool, soprattutto), la cannabis non produce nell'uomo alcuna sindrome di dipendenza fisica. La dipendenza psicologica di cui parla talora la letteratura medica resta un concetto vago, dai contorni mal distinti; in mancanza di una sindrome vera e propria e di sintomi biologici oggettivi, come avviene invece per la cocaina, la sua unica definizione possibile è un truismo: l'hashish e la marjiuana si fumano, e si torna a fumarne, perché piacciono. Bella scoperta: anche il crack (che è cocaina base, non salificata) si fuma dapprincipio perché piace; ma se poi si torna a fumarne è perché, superata una certa variabile soglia di consumo, diventa sofferenza fisica l'astenersi, e non se ne può piú fare a meno.
    Il fatto che, nonostante incontrovertibili dati farmacologici, il consumo di cannabis resti illegale e severamente punito in paesi scientificamente avanzati, non costituisce soltanto un esempio particolare della universale irrazionalità che governa gli affari umani. È anche un segnale, grave, dell'impotenza della scienza moderna di fronte a problemi sociali che pure essa sarebbe chiamata, se non a risolvere, almeno ad alleviare. Nel caso della cannabis, se considerazioni d'opportunismo accademico hanno un ruolo importante nel determinare un atteggiamento di "non-ingerenza" da parte del mondo della scienza, un ruolo piú sottile ma un peso forse maggiore ha la cartesianissima visione del mondo che spinge il ricercatore a preferire, come Ercole al bivio, il cammino "oggettivo" della res extensa a quello "soggettivo" della res cogitans. Ma ciò che piú vale la pena di sapere sull'attività superiore del sistema nervoso centrale (e la cannabis rientra, nel suo piccolo, in questa categoria) richiederebbe, anziché il divorzio, l'unione tra la conoscenza oggettiva del mondo naturale, il piú grande portato della rivoluzione galileiana, e quella lucida simpatia che chiunque voglia conoscere deve provare per l'oggetto della propria conoscenza (ma questa è un'altra storia, che Goethe aveva cominciato a scrivere e che scienziati e filosofi ricominciano ora a discutere).
    Al mondo, comunque sia, non ci sono solo scienziati e filosofi. Tra gli altri, vi si trovano anche gli economisti: una categoria di gente pratica, che bada al sodo, soprattutto se educati nella City. Nell'articolo che segue, un ignoto redattore dell'Economist traccia degli inattesi prolegomeni a ogni futuro discorso sulla cannabis, e impartisce nello stesso tempo una lezione di creatività scientifica a tutta la Facoltà Neurofarmacologica.


    "Portare le droghe all'interno della legge", The Economist, maggio 1993

    Nel 1883, l'insigne medico britannico Benjamin Ward Richardson denunciò i mali del bere tè. Affermò che questa bevanda causava una "condizione estremamente nervosa, semi-isterica". Nel 1936, un articolo apparso sull'American Journal of Nursing sosteneva che il consumatore di marjiuana "si può rivolgere improvvisamente con violenza assassina su chiunque gli è piú vicino". Tè e marjiuana hanno tre cose in comune: alterano l'umore, sono considerati passabilmente innocui, e producono dipendenza fisica. [Come abbiamo visto, quest'affermazione non è del tutto esatta: bisogna perdonarla a un economista che scrive di farmacologia.]
    Gli atteggiamenti nei confronti della dipendenza fisica sono complicati e spesso contraddittori. Il tè e la marjiuana sono, in sé, abbastanza inoffensivi, eppure il tè è generalmente legale, la marjiuana no. Il tabacco e la cocaina sono nocivi ma, ancora una volta, il tabacco è quasi universalmente permesso, mentre la maggioranza dei lettori di The Economist vive in paesi che puniscono con la prigione il possesso di cocaina. Aggiungete l'imprevisto di dipendenze fisiche che non provengono da siringhe o da sigarette, ma da casinò e da dischetti per il computer, e avrete una bella arena di combattimento fra libertari e puritani.
    Questa battaglia, sempre vivace, è appena diventata piú accesa. Il 28 aprile [1993], Bill Clinton ha nominato nuovo "zar della droga" d'America, e perciò leader mondiale del piú duro programma di proibizione al mondo, l'ex-poliziotto Lee Brown. Dieci giorni prima, gli italiani avevano votato per muoversi in una direzione opposta, eliminando dalla loro legislazione sulla droga le misure piú severe.
    Un tale coraggio è raro. L'atteggiamento della maggior parte degli elettorati e dei governi è quello di deplorare i problemi che il commercio illegale di droga porta con sé, di guardare alla cosa con avversione, e di sedere sullo status quo - cioè su una politica di proibizione indiscriminata. ... Eppure la maggioranza dell'opinione pubblica recalcitra di fronte alla possibilità di esplorare nuove strade legali per ridurre tali effetti. Questo rifiuto è dovuto in parte a un'avversione per la dipendenza fisica in sé stessa, un argomento tirato in ballo spesso con incoeren
    za. La disapprovazione piú decisa viene da quelli che gridano di libertà civili se i loro piaceri favoriti - per esempio, i fucili da guerra - sono messi in pericolo. La dipendenza fisica da sigarette è riconosciuta come la principale causa evitabile di morte al mondo. L'alcool priva i beoni dei loro fegati e della loro memoria, e causa la morte di troppi innocenti che vengono uccisi sulla strada da guidatori ubriachi. Eppure, in questi casi l'idea di dissuadere all'interno della legge è largamente accettata. Una ragione piú fondata di dubbio è la preoccupazione che la legalizzazione potrebbe causare un aumento del consumo di droga, e che quest'ultimo potrebbe schiacciare ciò che si potrebbe guadagnare dal portare le droghe all'interno della legge. Eppure, legalizzazione non vuol dire libertà di consumo sfrenato, senza limiti sulla fornitura o l'uso di droghe. Messa in pratica con misura, essa permetterebbe ai governi di strappare dalle mani dei criminali il controllo della distribuzione e della qualità di queste sostanze. ll controllo di qualità è decisivo, perché molti dei danni prodotti da droghe acquistate per la strada sono causati da prodotti adulterati, come un alcolico mal distillato può produrre cecità ... Una legalizzazione di questo genere non permetterebbe, magicamente, di fare a meno dei poliziotti, ma renderebbe piú maneggevole il loro compito. In particolare nel campo delle droghe leggere, dove le tasse possono essere piú lievi e le restrizioni meno onerose, e dove i primi esperimenti di legalizzazione dovrebbero aver luogo, essa ridurrebbe quella "indennità di rischio" che assicura ai cartelli della droga il loro profitto. Le tasse riscosse su quella che è considerata oggi la maggiore industria al mondo esente da imposte potrebbero essere utilizzate dai governi per la cura della tossicomania e per l'educazione, impieghi molto piú redditizi degli attuali tentativi di soffocare ogni genere di rifornimento criminale.
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
    MrNatural

  5. #5
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    La ricerca del soma

    C'è un'altra considerazione da fare, per il futuro. L'illegalità delle droghe e l'avversione per delle dipendenze fisiche che producono piacere, stanno deviando la ricerca scientifica. Gli scienziati progrediscono nella comprensione di ciò che, nelle droghe, produce piacere e di ciò che rende cosí difficile rinunciarvi. Attualmente la ricerca è obbligata ad avere un solo scopo: disintossicare i tossicodipendenti. Potrebbe averne un altro. In molte aree della farmacologia i ricercatori stanno esplorando l'idea delle "designer drugs", sostanze confezionate per adattarsi in maniera innocua nella biochimica umana. La ricerca sulle tossicodipendenze dovrebbe essere incoraggiata a fare lo stesso: oltre a progettare terapie migliori per quelli che vogliono disintossicarsi, andare verso l'invenzione di "highs" meno rischiosi, piú efficaci e meno capaci di produrre abitudine. Al momento questo non è possibile, perché droghe innocue, droghe d'abuso e crimine sono messi tutti sullo stesso piano.

    La proposta di The Economist, avanzata con una radicalità che sorprende in una rivista cosí solidamente conservatrice, è dunque di indirizzare la ricerca farmacologica verso l'invenzione di nuovi farmaci psicoattivi che siano in grado, senza effetti collaterali maggiori, di ridurre l'angoscia del vivere quotidiano, aumentare il benessere, e produrre piacere. Una proposta esplicitamente orwelliana, formulata con razionalità e spirito pratico, alla quale, però, The Economist avrebbe fatto bene ad aggiungere un fatto non irrilevante: che noi siamo ancora lontani dall'avere, sui meccanismi di funzionamento del cervello, un livello di comprensione sufficiente a sviluppare farmaci di tal genere. Mi spiego: la ricerca è già certamente in grado di produrre farmaci efficaci nel trattamento di alcune patologie neuropsichiatriche, basati sulla conoscenza di meccanismi neurobiologici fondamentali, e adatti a migliorare sensibilmente la vita del malato con il minimo di effetti collaterali. Ma intervenire sul cervello di una persona sana per modificarne la coscienza è tutt'altra cosa. Anche chi, come me, è convinto che tutti i nostri stati mentali siano causati da processi soggiacenti di attività neuronale, non può non riconoscere che la nostra comprensione di tali processi, e di come essi interagiscono per produrre la coscienza, è ancora praticamente inesistente. Ne risulta che, allo stato attuale delle cose, l'idea di creare "designer drugs" della coscienza resta del tutto illusoria.
    Come sostengono Lester Grinspoon e James B. Bakalar, "una società senza droghe è un sogno impossibile, e probabilmente indesiderabile". Indesiderabile, perché la nostra società si è plasmata accogliendo al proprio interno il suo rapporto millenario con le sostanze psicoattive. Impossibile, perché tutto ciò che sappiamo del cervello porta a credere che il bisogno di trascendere, sia pure saltuariamente, lo stato di coscienza normale (cioè lo stato mentale in cui conduciamo la maggior parte della nostra vita produttiva) sia una pulsione fisiologica propria della specie umana. Aspettando le molecole sapienti e innocue del futuro, regolare la soddisfazione di questo bisogno tramite l'uso di sostanze come la cannabis, sulla cui benignità tossicologica ed efficacia farmacologica testimoniano millenni di storia passata e milioni di consumatori attuali, sarebbe un'attesa prova di razionalità e un coraggioso atto di buongoverno.


    Dal lettore che una conclusione cosí poco possibilista ha lasciato scettico, vorrei accomiatarmi consigliando la lettura di alcuni articoli sulle proprietà farmacologiche e tossicologiche della cannabis: di Leo E. Holister, "Health Aspects of Cannabis", Pharmacological Review n. 38 (1986), p. 1-20; e di William L. Dewey, "Cannabinoid Pharmacology", ibidem, p. 151-178. Sulla tossicologia della cannabis e sull'opportunità di legalizzarne l'uso, ha scritto piú volte Giancarlo Arnao in questa stessa collana (per esempio in Proibizionismo, an
    tiproibizionismo e droghe, 1993); inoltre, fra le tante monografie piú o meno scientifiche, una spicca per serietà e autorevolezza: L. Grisnpoon e J.B. Bakalar, Marijuana: The Forbidden Medicine, New Haven, Yale University Press, 1993 [trad. it.: Marijuana: La medicina proibita, Padova, Muzzio, 1995]. Le scoperte scientifiche che hanno cambiato il nostro modo di vedere la farmacologia della cannabis sono riassunte da Raphael Mechoulam in "Search for Endogenous Ligands of the Cannabinoid Receptor", Biochemical Pharmacology n. 48 (1994), p. 1537-1544. Piú recente è la caratterizzazione del meccanismo di formazione e inattivazione dell'anandammide, sostanza cannabinoide endogena: V. Di Marzo, A. Fontana, H. Cadas, S. Schinelli, G. Cimino, J.C. Schwartz e D. Piomelli, "Formation and Inactivation of Endogenous Cannabinoid Anandamide in Central Neurons", Nature n. 372 (1994), p. 686-691. Nello scrivere questo capitolo ho utilizzato materiale da me già pubblicato in "La canapa di dentro", Altrove n. 2 (1995), Torino, Nautilus, p. 51-57.

    INDICE

    Premessa: seguire il filo

    LA STORIA COMINCIA CON ERODOTO (V SECOLO a.C.)

    FLORA MAGICA (III SECOLO a.C.)

    SEGNALI D'OBLIO (I SECOLO d.C.)

    TESTIMONIANZE TARDOANTICHE (IV-V SECOLO d.C.)

    UNA BADESSA, UN PAPA E UN MERCANTE (XII-XIV SECOLO)

    L'INVENZIONE DELLA STREGONERIA
    E LA SCOPERTA DEL NUOVO MONDO (XV-XVII SECOLO)

    LA FAMOSA INVASIONE
    DEI FRANCESI IN EGITTO (XIX SECOLO)

    TRA FEUILLETONS E FARMACOPEE (XIX SECOLO)

    SI RICERCA E SI PROIBISCE
    MA SOPRATTUTTO SI CONSUMA (XX SECOLO)
    Se non al primo ciclo, già al secondo o al terzo quasi tutti riescono al ottenere buoni risultati con la tecnica classica. Quei pochi che non ci riescono è meglio che tornino piuttosto a spender i loro soldi dagli street-pusher.
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