Robert Christison, Commento alla farmacopea britannica e statunitense (1848)

Numerosi osservatori hanno riferito che la canapa indiana produce, nei nativi dell'Oriente che la utilizzano spesso al posto delle bevande alcooliche, talora uno stato pesante e indolente di piacevole fantasticheria, dal quale l'individuo può essere risvegliato facilmente per eseguire compiti semplici; talora uno stato allegro e attivo di ebbrezza, che spinge a danzare, a cantare e a ridere, stimola l'appetito venereo e accresce il desiderio di
cibo; talora un'ubriachezza rissosa, che conduce ad atti di violenza. Durante questa condizione, il dolore è lenito e gli spasmi interrotti. In genere, il sonno sopravviene dopo tre ore, e quando questo termina, non è seguito né da nausea, né da perdita d'appetito, né da costipazione. Nessun altro sintomo, a parte un leggero capogiro. Ciò nonostante, il suo uso frequente abbrutisce l'intelletto.
... Nella mia propria esperienza professionale, ... [la cannabis] ha provocato il sonno, ha lenito il dolore e ha arrestato lo spasmo; non ho mai osservato alcun effetto sgradevole durante o dopo la sua azione, eccetto che, in un solo caso, ha causato, all'inizio della sua azione, un senso allarmante di percussione nel cervello.
... Nel complesso, si tratta di un farmaco che merita studi piú approfonditi di quelli finora compiuti.

A quasi centocinquant'anni di distanza, e nonostante il progresso delle nostre conoscenze sul meccanismo d'azione della canapa indiana, questa conclusione resta ancora valida.


Il ruolo delle droghe nella letteratura francese tra Ottocento e Novecento è stato esplorato in La Belle époque de l'opium, di Arnould de Liedekerke (Éditions de la Différence, 1984), che raccoglie un ricco materiale bibliografico e un'antologia di testi a cui senz'altro rimando.
La monografia di Moreau (Parigi, Fortin-Masson et Cie., 1845), un classico della neuropsichiatria, non è purtroppo disponibile né in traduzione italiana né in ristampa francese: chi non si contenti di leggerla in biblioteca e voglia possederla, la troverà forse da qualche bouquiniste della rue Tournon, ma non si aspetti di portarsela via per pochi franchi.
II vivo interesse della farmacologia britannica per la cannabis, creatosi durante l'occupazione coloniale dell'India, è descritto dettagliatamente da Raphael Mechoulam in The Pharmacohistory... (op. cit.), che però non include in bibliografia il passaggio di Christison citato qui.
Non possiamo lasciare il XIX secolo senza almeno accennare ad alcune pubblicazioni italiane sulla cannabis, contemporanee di quelle di Moreau e di Christison: si tratta dei lavori di due chimici, Giovanni Polli e Carlo Erba, e del fisiologo Paolo Mantegazza. Il lettore interessato potrà trovarne una descrizione in Bibliografia italiana su allucinogeni e cannabis (Bologna, Grafton 9, 1994), a cura della SISSC (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza); oppure, piú dettagliatamente, nel libro di prossima pubblicazione che Giorgio Samorini ha dedicato alla storia della cannabis in Italia.

[Il libro di Giorgio Samorini è stato pubblicato nel 1997 da Nautilus (Torino), con il titolo L'erba di Carlo Erba), n.d.r.]

SI RICERCA E SI PROIBISCE,
MA SOPRATTUTTO SI CONSUMA (XX SECOLO)

L'Ottocento si chiude in Europa con la fiducia nelle magnifiche sorti progressive dell'umanità, e con la convinzione che la canapa indiana abbia effetti potenti e distinti da quelli di ogni altra pianta psicotropa.
Che tali effetti fossero opera di una sostanza, di un "principio attivo" ospitato nelle foglie e nelle infiorescenze, tutti lo sospettavano (in quegli anni venivano isolate la cocaina, la morfina e la chinina), ma nessuno riusciva a dimostrarlo. Ancora nel secondo dopoguerra, un repertorio di medicamenti "ad uso del farmacista italiano" ascriveva alla canapa indiana i seguenti componenti chimici: "cannabina, ossicannabina, cannabinina, tetanocannabina (sostanze poco bene definite), cannabinone, cannabinolo, olio essenziale (0,3%)"; e concludeva: "A quest'ultimo si attribuisce l'attività farmacologica della droga".
Che cosa ci fosse di preciso in quell'olio essenziale continuò a rimanere ignoto fino a quando, nel 1964, il giovane chimico israeliano Raphael Mechoulam annunciò d'essere riuscito a isolarne il principio attivo: con una breve nota pubblicata sul Journal of the American Chemical Society Mechoulam identificò tale principio in un nuovo derivato idrogenato del cannabinolo, il delta-9-tetraidrocannabinolo, capace di produrre nell'animale di laboratorio e nell'uomo effetti non dissimili da quelli dell'hashish.
Le azioni della cannabis, si sa, non hanno granché in comune con quelle della coca o dell'oppio, e la differenza si manifesta già nella struttura chimica del delta-9-tetraidrocannabinolo. Secondo la terminologia chimica, i principi psicoattivi contenuti nella coca (cocaina) e nell'oppio (morfina) sono degli alcaloidi. Quindi, come gli alcali inorganici, possiedono sulla loro molecola una debolissima carica elettrica che conferisce loro una certa affinità per l'acqua, che è a sua volta un dipolo elettrico. Perciò, la cocaina e la morfina si sciolgono facilmente nel sangue e nelle altre soluzioni acquose che bagnano i nostri organi interni, compreso il cervello. Il delta-9-tetraidrocannabinolo invece no: non è un alcaloide e non è per nulla carico elettricamente. Anzi, è sostanza fortemente "lipofila", cioè con una preferenza a sciogliersi nei grassi. E di grassi sono fatte le membrane che separano tutte le nostre cellule dal resto del mondo: sacchetti lipidici in cui galleggiano decine di migliaia di proteine dalle forme e funzioni piú diverse, come i recettori, che captano messaggi chimici lanciati da una cellula all'altra, e gli enzimi, che rendono veloci una frazione di secondo reazioni chimiche che altrimenti sarebbero

lentissime.
Che importanza può avere il fatto che il delta-9-tetraidrocannabinolo sia sostanza lipofila? Storicamente, enorme. Per comprenderla dobbiamo fare una breve deviazione d'itinerario, e ricordare attraverso quali meccanismi operano le sostanze psicoattive.
Prendiamo l'esempio della morfina. Iniettata endovena, questa penetra attraverso la barriera di cellule che separa il sangue dal sistema nervoso, e raggiunge il cervello. Lí, benché entri in contatto con quasi tutte le cellule cerebrali, essa interagisce soltanto con una popolazione molto limitata di cellule: quelle che sulla superficie esterna della propria membrana hanno dei recettori che la "riconoscono" specificamente, come una serratura "riconosce" la propria chiave. Tutte, ma proprio tutte, le azioni della morfina (dall'euforia alla stitichezza) sono una conseguenza di questo temporaneo legarsi a specifici recettori di membrana. Tale legame cambia la forma dei recettori (non metaforicamente: è proprio ciò che succede), li fa urtare con degli enzimi che si trovano accanto e li costringe, con rapidità e selettività strabilianti, ad avviare una serie di reazioni chimiche che finiscono col modificare l'eccitabilità delle cellule nervose, cioè la loro capacità di sentire gli stimoli lanciati dalle cellule vicine e di rispondervi.
Ma qual è il nesso di tutto ciò con il delta-9-tetraidrocannabinolo e la sua lipofilia? Questo: che per ventiquattro anni, dal 1964 al 1988, l'opinione prevalente tra farmacologi e neurobiologi era che una sostanza lipofila come il delta-9-tetraidrocannabinolo non potesse agire come la morfina (sostanza idrofila), ma si sciogliesse invece nella matrice lipidica della membrana e ne modificasse in maniera non selettiva le proprietà biochimiche. A questa teoria del delta-9-tetraidrocannabinolo come "sapone neuronale" alcuni scienziati piú avveduti opponevano un'obiezione dettata dal semplice spirito d'osservazione e dal buon senso (che difettano tra gli scienziati come in ogni altra categoria professionale): se il meccanismo d'azione del delta-9-tetraidrocannabinolo è cosí aspecifico, perché i suoi effetti sono invece cosí smaccatamente diversi da quelli di ogni altra sostanza psicoattiva? Perché cosí caratteristici e irripetibili? Quella pattuglia di anticonformisti non era composta da eretici, ma da gente sensata che ragionando per analogia si domandava: e se il delta-9-tetraidrocannabinolo avesse, come la morfina, un suo recettore specifico? Ipotesi plausibile che suscitava però, senza prove sperimentali, solo qualche scettica alzata di spalle.
La prima prova irrefutabile che un recettore per il delta-9-tetraidrocannabinolo esiste davvero arrivò inaspettatamente e, come spesso avviene, del tutto per caso, quando un gruppo di ricercatori del National Institute of Health di Bethesda (USA) stava "andando per recettori". Già, perché oggigiorno si può andare per recettori come si va per funghi, aspettando la stagione adatta, andando nel tal bosco, sotto quel tale albero eccetera. Nel caso dei recettori, basta avere un po' di fondi per la ricerca e un'idea di ciò che si vuole.