Vediamo come.
I recettori sono proteine, e come tutte le proteine sono modellati su uno "stampo" fatto di acido ribonucleico (RNA) "messagero" che a sua volta è modellato su uno stampo di acido deossiribonucleico (DNA). Poiché i recettori fanno un po' tutti lo stesso mestiere, che è quello di riconoscere un messaggio chimico extracellulare e trasmetterlo all'interno della cellula, è ovvio che si somigliano un po' tutti (analogia: pipistrello, passero e pterodattilo sono animali molto diversi, ma hanno in comune un elemento di base necessario a volare, le ali). Le omologie tra recettori diversi non sono grandi, diciamo il 10-20%, ma bastano al biologo molecolare per giocare d'astuzia. Il ricercatore, infatti, fabbrica dei frammenti di DNA che contengono le sequenze omologhe, e li aggiunge a vari estratti in cui sono presenti tutti gli RNA cellulari (svariati milioni). Per ragioni di affinità chimica, il DNA artificiale va a legarsi ai vari RNA a cui corrisponde, e solo a quelli: quindi basta aggiungere all'estratto certi enzimi i quali, trovato l'RNA del recettore legato al DNA artificiale, lo usano come stampo per fabbricare il DNA completo del recettore, e inoltre producono questo DNA in milioni di copie, come desiderato: il DNA del recettore è adesso in quantità tale da poter essere isolato ("clonato") e analizzato come si deve.
Ora che sappiamo come si clona un recettore, possiamo ritornare al nostro gruppo di ricercatori americani: abbiamo capito che loro "andavano per recettori" non cercando un recettore in particolare, ma gettando l'amo senza stare a porsi troppi problemi. E gli è andata bene, come ci raccontano in un articolo comparso nel 1988 sulla rivista britannica Nature. Dopo aver isolato, nel modo suddetto, il DNA di un recettore ignoto, l'hanno deposto nel nucleo di un fibroplasto. Questa cellula (che resiste ai piú infami maltrattamenti genetici rimanendo, nonostante tutto, disperatamente normale) ha scambiato il DNA estraneo per uno dei suoi e si è messa a produrre il recettore che vi era codificato come se fosse una delle sue proprie proteine; e nel frattempo si è riprodotta, formando milioni e milioni di altri fibroplasti simili, che esprimevano tutti l'ignoto recettore. A quel punto, per scoprire quale sostanza vi si legasse, i ricercatori hanno provato una lunga serie di composti, a uno a uno, fino a trovare quello giusto, appunto il delta-9-tetraidrocannabinolo.
Il lettore che ha avuto la benevolenza di seguirmi in questa digressione tecnica avrà forse anche l'astuzia di pormi una domanda: se i recettori servono a captare i messaggi chimici che le cellule si lanciano reciprocamente, che ci fa nel nostro corpo il recettore per una sostanza prodotta da una pianta? Se si trattasse di un composto odorante o di un feromone, si capirebbe; ma una sostanza psicoattiva? Perché?
Esclusa la possibilità che l'evoluzione abbia previsto la beat generation, resta quella che il recettore riconosca il delta-9-tetraidrocannabinolo per errore, scambiandolo per un'altra sostanza: una sostanza endogena che, liberata dalle cellule nervose, potrebbe produrre quell'insieme di sensazioni psichiche e di effetti fisiologici che è ca
ratteristico della cannabis. Ma se questa sostanza cannabinoide endogena esiste, come si può fare per provarne l'esistenza?
In teoria, è facile come seguire una ricetta di cucina. Si prende un cervello (preferibilmente piuttosto grande, per esempio di maiale), se ne fa un estratto (che è come preparare un omogeneizzato) e se ne separano le varie componenti chimiche (e già qui la cosa si fa piú difficile). Poi si determina se una di tali componenti si lega specificamente al recettore del delta-9-tetraidrocannabinolo. Trovatala, se ne stabilisce la struttura chimica: quod erat demonstrandum.
Tuttavia, tra proteine, peptidi, lipidi semplici e complessi, carboidrati e chi piú ne ha piú ne metta, nel cervello di un mammifero risiedono svariati milioni di molecole, tra cui quella che ci interessa: la sostanza cannabinoide endogena. La quale, come se non bastasse, rappresenta molto probabilmente solo una frazione infinitesimale delle sostanze presenti nell'estratto di partenza: il proverbiale ago nel pagliaio.
E allora? Allora ci vuole astuzia, molta; fortuna, quanto basta; e "olio di gomito", moltissimo. Chi ha l'idea giusta, e ci crede, ed è disposto a lavorarci sopra, è in genere quello che alla fine vince. Nel nostro caso, l'idea giusta l'ha avuta ancora una volta Raphael Mechoulam. Da buon chimico, e ragionando per analogia, Mechoulam si è detto: il recettore cannabinoide riconosce il delta-9-tetraidrocannabinolo che è sostanza di natura lipofila; sembra possibile, quindi, che il cannabinoide endogeno sia anch'esso lipofilo. Cosí tutto diventa piú facile: un estratto dei soli lipidi contiene ovviamente un numero di composti chimici molto minore che in un estratto totale, ed è perciò molto piú semplice da analizzare. Un'idea semplificatrice, una buona idea dunque, ma anche un'idea giusta. Infatti, due anni dopo averla avuta, e dopo aver omogeneizzato ed estratto molti cervelli di maiale, Mechoulam annunciava alla comunità scientifica internazionale, sulle pagine della rivista americana Science, la purificazione e l'identificazione chimica di una molecola endogena dotata di attività biologiche simili a quelle del delta-9-tetraidrocannabinolo.
La sua ipotesi di partenza era corretta: si tratta in effetti di una sostanza lipofila, proprio come il delta-9-tetraidrocannabinolo, ma con la struttura chimica molto diversa da quest'ultimo e sorprendentemente piú semplice. Niente anelli del furano, niente catene laterali, niente stereochimica complessa: un acido grasso polinsaturo (come quelli che si trovano nell'olio d'oliva), condensato all'etanolammina (una piccola molecola che funge da precursore per fosfolipidi come la cefalina). L'acido grasso si chiama acido arachidonico; il nome chimico della sostanza cannabinoide endogena è dunque arachidonil-etanolammide. Ma Mechoulam, che ha un debole per la cultura indiana, ha preferito battezzarla anandammide, dal sanscrito ananda ('gioia profonda').
La scoperta dell'anandammide è del dicembre 1992. Dopo la pubblicazione su Science, diversi laboratori hanno confermato ed esteso il lavoro di Mechoulam e dei suoi collaboratori, dimostrando come la somministrazione di anandammide provochi un insieme di sintomi psichici e fisici molto simili a quelli causati dal consumo di hashish o di marijuana. Tali risultati confermano l'attività cannabinoide dell'anandammide, ma lasciano irrisolto un problema essenziale: perché il nostro cervello la produce? In quale momento del nostro tran-tran di animali sociali o della nostra vita interiore ne abbiamo bisogno? Forse quando ci viene improvvisamente svelata la comicità nascosta in un comportamento o in un oggetto, che ci era sfuggita fino allora? O quando c'è il sole, e siamo euforici e non sappiamo perché? O quando scriviamo una poesia, tracciamo un disegno, pensiamo una melodia? O semplicemente quando abbiamo voglia di mangiare un pezzo di cioccolata?
Dietro tali domande, che sono senza risposta e lo saranno ancora per un bel pezzo, ce ne sono altre, piú tecniche in apparenza. In quali cellule del sistema nervoso centrale si produce l'anandammide? Quali stimoli ne causano la produzione? Dove agisce, e come? ll neurobiologo è convinto che almeno a questi interrogativi siano possibili delle risposte sperimentali, e che queste possano spiegare le funzioni che l'anandammide svolge nel nostro comportamento quotidiano. Da Galileo in poi, fare un esperimento vuol dire innanzi tutto immaginare un pezzo di realtà possibile, per poi verificarne la probabilità mediante le manipolazioni sperimentali e i loro risultati. Allora, se apriamo il nostro "Libro de los seres imaginarios", che cosa troviamo al paragrafo "anandammide"? Vi troviamo anzitutto una cellula nervosa che, stimolata, produce anandammide e la secerne nel liquido extracellulare. Lí, l'anandammide entra in contatto con altre cellule e si lega temporaneamente a quelle che possiedono sulla loro superficie esterna il recettore cannabinoide. Il recettore trasmette la notizia del legame avvenuto, cambiando forma e costringendo proteine ed enzimi che gli sono vicini a fare lo stesso. Il messaggio è passato cosí all'interno della cellula, che può allora aumentare o diminuire di eccitabilità secondo le caratteristiche che le sono proprie (le cellule nervose, si sa, non sono come quelle del fegato, e l'una non vale l'altra). Finito il suo compito, l'anandammide viene risucchiata via dal liquido extracellulare, e i suoi effetti poco alla volta scompaiono. I risultati di esperimenti portati a termine di recente nel laboratorio di chi scrive hanno confermato queste predizioni: l'attività elettrica delle cellule nervose provoca la liberazione di anandammide nel mezzo extracellulare, seguita dalla sua rapida inattivazione.



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