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Discussione: novità giurisprudenziali

  1. #11
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    Caro Bluedigit e' proprio quello che lei solleva il vero problema che la sentenza intende risolvere.
    Bando a soggettivismi infondati e vanno posti limiti alle valutazioni delle forze dell'ordine spesso improntate a pregiudizi, per evitare ingiustizie.
    Non stia a scusar si non c'è ne necessità .
    Un po' di calore serve nelle discussioni, io ne sono un esempio.

  2. #12
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    SULLA INGENTE QUANTITA' DI SOSTANZA DETENUTA

    La sentenza n. 28828/13 pronunziata all'udienza pubblica dello scorso 19 giugno 2013, dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, suggerisce nuovi spunti interpretativi, concernenti la questione dei termini di configurabilità specifica e di applicazione della circostanza aggravante prevista dall'art. 80 comma 2° dpr 309/90, già risolta dalle SS.UU. il 24 maggio 2012 .
    Innanzitutto, va osservato che la decisione in commento appare assolutamente ortodossa e conforme rispetto all'indirizzo giurisprudenziale recentemente invalso.
    Essa, infatti, dichiaratamente, si ispira ad uno dei principi cardine che lo stesso esplicita, in quanto nega che il giudice possa avvalersi di una presunzione di automatica applicazione dell'aggravante dell'ingente quantità, ogni qualvolta il principio attivo stupefacente esorbiti il limite di 2000 volte il cd. valore soglia .
    Nella fattispecie, infatti, la Corte di legittimità – ravvisando che il THC dello stupefacente sequestrato era “di poco superiore al valore massimo espresso in milligrammi” (Kg. 1,114 a fronte di un limite di Kg. 1,000) – ha condivisibilmente censurato la sentenza di merito, la quale si sarebbe limitata a prendere atto del superamento del limite citato, per ritenere configurata la circostanza aggravante in parola.
    In realtà, il giudice – in ipotesi di superamento di quella soglia al di sotto della quale la circostanza non è configurabile – non può e non deve ritenere, in modo ineludibile, sussistente l’aggravante dell’art. 80/2° dpr 309/90.
    E’, quindi, onere del giudicante quello di verificare se il dato ponderale, unitamente a tutte le altre circostanze dell’azione (soggettive ed oggettive), giustifichi l’aggravamento di pena conseguente all’eventuale applicazione dell’istituto in oggetto.
    Il senso del limite introdotto dalle SSUU è, dunque, quello di sancire uno sbarramento aritmetico al di sotto del quale, tassativamente, non può essere ravvisabile, sotto alcun profilo, l’ipotesi dell’ingente quantità.
    La decisione della Corte, peraltro, offre due ulteriori spunti di riflessione.
    1)
    Il primo pensiero attiene alla scelta dei canoni matematici che vengono adottati, in sede di giudizio, al fine di determinare la effettiva rilevanza del profilo ponderale, in relazione alla condotta specifica contestata all'indagato/imputato.
    Come noto, esistono due paradigmi utilizzabili.
    Il primo è quello della dose media singola, vale a dire la quantità di principio attivo, relativa ad ogni singola assunzione, che appare idonea a produrre un effetto stupefacente e che è stato stabilito da una commissione scientifica su incarico governativo.
    La struttura e tipologia di questo parametro permette – già di per sé – di definirlo come strumento tecnico da utilizzare esclusivamente nelle situazioni di cessione di stupefacenti a terzi (spaccio).
    Il suo impiego permette, infatti, di desumere la effettiva portata diffusiva della condotta illecita, (e, dunque, il livello di gravità del comportamento posto in essere) attraverso la determinazione del numero delle dosi ricavabili dal compendio specifico.
    Il secondo, invece, è quello cd. della quantità massima detenibile, che è criterio di carattere complesso, che viene prodotto dalla moltiplicazione della dose media singola per un coefficiente variabile che è stato stabilito in sede politica (e che muta a seconda della tipologia dello stupefacente in oggetto).
    Esso è stato concepito – dal legislatore del 2006 - come limite quantitativo, atto ad agevolare la soluzione del quesito relativo alla destinazione ad uso esclusivamente personale della sostanza stupefacente posseduta dall'inquisito.
    Nelle intenzioni del legislatore, infatti, detto strumento interpretativo, introducendo un limite quantitativo, avrebbe dovuto assumere una valenza probatoria rilevante (se non, addirittura, assoluta) nel giudizio concernente le condotte di detenzione, importazione od esportazione.
    Pur se ridimensionato dai vari approdi giurisprudenziali, che si sono succeduti negli anni, il criterio della quantità massima detenibile, si è rivelato (e si rivela tuttora) certamente utile, perchè coerente e pertinente rispetto alle condotte diverse dalla cessione.
    In presenza di una situazione di puro possesso, che non sia suffragata da indicatori di una possibile destinazione (in tutto od in parte) a terzi dello stupefacente detenuto dall'agente, lo scopo primario dell'indagine consiste, in effetti, in quello di accertare la compatibilità logica e fattuale fra il quantitativo effettivamente detenuto (e quantificato attraverso il parametro della quantità massima detenibile) e la possibile evocazione difensiva della scriminante della destinazione della droga ad un uso personale.
    Ritiene, però, chi scrive, che il paradigma in questione possa e debba essere applicato, comunque, indiscriminatamente a tutte quelle condotte, sopra richiamate, di detenzione, importazione od esportazione, pur in presenza di quantitativi che appaiano – come nel caso deciso dalla sentenza in commento - idonei ad escludere a priori l'operatività della esimente di cui al comma 1 bis dell'art. 73 dpr 309/90.
    La distinzione fra le categorie delle condotte illecite nei confronti delle quali si deve riconoscere l'applicazione dei due criteri aritmetici – in esame - deve essere, infatti, rigorosa e non deve ammettere deroghe, che possano, in qualche modo, ingenerare confuse, quanto ondivaghe interpretazioni, oltre che contraddittorie sovrapposizioni.
    Ciò premesso, dunque, appare del tutto improprio il richiamo al principio attivo espresso dalle sostanze stupefacenti sequestrate e quantificato attraverso il criterio della d.m.s., in luogo del canone della q.m.d. .
    Si tratta di un errore prospettico commesso in tuta evidenza in sede di giudizio di merito.
    Ritiene, peraltro, chi scrive, che molto opportuno sarebbe stato in autorevole intervento del S.C., il quale bene avrebbe fatto – trattando una questione, quella della ingente quantità, la cui soluzione si ottiene proprio attraverso l'adozione del canone della q.m.d. - ad operare una puntualizzazione, atta a sgombrare il campo da equivoci metodologici.
    2)
    La seconda riflessione riguarda la scelta, operata dalle SSUU, con la sentenza n. 36258 del 24 maggio 2012, di stabilire quale discrimine, per escludere automaticamente la ricorrenza dell'aggravante di cui all'art. 80 comma 2° dpr 309/90, una “quantità inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia) determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006”.
    Ad una più attenta riflessione, non convince, infatti
    a. la decisione di utilizzare un unico coefficiente (quello pari a 2.000 volte la quantità massima detenibile) in relazione a sostanze stupefacenti, tra loro, assai differenti,
    b. il metodo e le motivazioni con cui le SSUU hanno fissato in 2.000 volte il coefficiente moltiplicatore da adottare.

    a. Con riguardo alla prima delle due obbiezioni, che si intende sviluppare, si osserva che il cd. “misuratore di grandezza” , individuato e sancito dalla pronunzia delle SSUU, una volta moltiplicato per la quantità massima detenibile, (la quale muta a seconda del tipo di sostanza) comporta conclusioni sia matematiche, che ponderali assai sorprendenti (e contraddittorie).
    Se, infatti, poniamo in comparazione sostanze psicotrope altamente nocive come la cocaina o come la MDMA (ecstasy), (la cui quantità massima detenibile appare di per sé piuttosto elevata – in quanto pari a mg. 750 -) con la cannabis, (che, a propria volta, presenta una quantità massima detenibile pari a mg. 500), avremo la sorpresa di verificare che il limite al di sotto del quale la aggravante dell'ingente quantità non opera, appare per la cocaina e l'ecstasy pari a gr. 1.500 di principio attivo, mentre per la cannabis tale limite è di gr. 1.000 .
    Or bene, un simile risultato appare oltre modo sconcertante, posto che è indubbia la diversa e maggiore nocività fra le sostanze poste in comparazione, della cocaina e dell'ecstasy rispetto ai derivati della cannabis.
    Risulta, dunque, illogico stabilire il medesimo coefficiente (2.000 volte) in funzione di droghe che esprimono valori di pericolosità e dipendenza del tutto differenti tra loro, ottenendo, così, risultati che penalizzano gravemente le droghe leggere rispetto a quelle pesanti.
    b. In secondo luogo si osserva, che, al di là delle dotte riflessioni della decisione della Suprema Corte, non è dato comprendere appieno quale sia l'effettiva genesi del coefficiente pari a 2.000 volte.
    I giudici di legittimità evocano semplicemente lo svolgimento di quella che definiscono “..un'operazione puramente ricognitiva che, sulla base dei dati concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari.....individui, sviluppando detti dati, una soglia verso l'alto....”.
    Al di là delle lodevoli indicazioni programmatiche, difetta, però, – in sentenza – l'indicazione dell’esatto incipit da cui prende vita l'iter logico, attraverso si perviene all'individuazione dell'adottato criterio delle 2.000 volte.
    In concreto, nonostante una lettura attenta ed approfondita della sentenza, operazione che permette di sottoporre la stessa ad accurate deduzioni, l’interprete non è in posto in grado di rinvenire, quindi, in alcuna parte della corposa sentenza, il motivo – logico, scientifico e giuridico - della scelta delle SSUU di adottare il moltiplicatore pari a “2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia) determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006”.
    Ne aiuta a svelare l'arcano, il riferimento ad una relazione concernente la tipologia ed il numero dei casi esaminati dall'Ufficio del Massimario, dalla quale emergono, peraltro, generici riferimenti a quantitativi lordi di droga sequestrata (che vanno dai 2 ai 10 chilogrammi per le droghe pesanti, ed attorno ai 50 chilogrammi per le droghe che le stesse SSUU definiscono “leggere”).
    Ergo, permangono rilevanti perplessità sui canoni e sulle metodiche che hanno sotteso ad una scelta importante e decisiva (oltre che condivisibile sul piano sistematico), quale quella di individuare limiti di carattere ponderale, in quanto finalizzata a superare radicati contrasti giurisprudenziali.
    Non convince, inoltre, come detto, la costruzione di una piattaforma unica ed omogenea per tutte le sostanze, intesa come fattore moltiplicativo della quantità massima detenibile, dal quale ricavare il limite sotto al quale la circostanza aggravante prevista dall'art. 80 comma 2° dpr 309/90 non opera.
    Un simile indirizzo – oltre a creare le contraddizioni già evidenziate – non può venire, affatto, temperato dai diversi valori-soglia e dai singoli gradi di purezza che connotano le diverse specie di stupefacente.
    D'altro canto, la stessa giurisprudenza della Sesta Sezione, citata dalle SSUU, era giunta ad un'apprezzabile elaborazione, riguardante, però, il dato ponderale lordo, fissando in 10 chilogrammi (per eroina e cocaina) ed in 50 chilogrammi (per hashish e marjiuana ) il discrimen per l'ingente quantità.
    Non si comprende perché una simile indicazione non sia stata raccolta, in attesa di un intervento normativo chiarificatore.
    E' sperabile, poi, che la scelta di addivenire ad un criterio unificato (le sovente ricordate 2.000 volte), non sia frutto di un lapsus del Supremo Collegio,.
    A pg. 23 della sentenza n. 36258 del 24 maggio 2012, si indica, infatti, sorprendentemente, una serie di valori-soglia per le varie sostanze e per l'hashish, si fa menzione del valore di 1000.
    In realtà, il vero valore soglia – per i derivati della cannabis - è pacificamente, come in più occasioni ribadito, fissato in 500.
    Il decreto ministeriale del 4 agosto 2006 (cd. Decreto Turco), in effetti, aveva elevato, per i derivati della cannabis, il valore soglia a 1000, ma va ricordato che il TAR del Lazio - con la sentenza del 21 marzo 2007 n. 2487 – annullò il decreto in questione, riportando il valore ai termini originari, cioè 500 mg. .
    Se effettivamente il valore-soglia fosse stato quello indicato nel dm 4 agosto 2006, allora la previsione unitaria avrebbe potuto avere una sua astratta giustificazione, in quanto il risultato – per la cannabis – non sarebbe stato più di 1.000 grammi, bensì di 2.000 grammi, quantità superiore a quella ritenuta per le droghe pesanti.
    Così – nella realtà non è – e, dunque, permangono e si rafforzano la perplessità sin qui sollevate.


    Rimini, lì 15 luglio 2013

    Carlo Alberto Zaina
    Ultima modifica di Avv. Zaina; 13-07-13 alle 16:07

  3. #13
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    RIBADITO IL PRINCIPIO CHE LA VENDITA (E QUINDI L'ACQUISTO) DEI SEMI DI CANNABIS COSTITUISCE ATTIVITA' LECITA


    Il principio statuito dalla sentenza delle SSUU dello scorso 18 ottobre 2012 (n. 47604), che ha escluso che la vendita di semi di cannabis integri gli estremi del delitto di cui all'art. 82 dpr 309/90, trova puntuale e corretta applicazione nella decisione del GUP presso il Tribunale di Roma, del 7 febbraio – 7 aprile 2013, che ha assolto quattro commercianti di semi di cannabis, accusati di violazione proprio della citata disposizione di legge.
    Si è così posta fine ad un'odissea giudiziaria durante oltre quattro anni.
    La rilevanza delle pronunzia, che si commenta, consiste, certamente, nella felice intuizione giuridica del giudice di prime cure, il quale colloca la condotta di vendita di semi di cannabis, attribuita al commerciante – ed oggetto della specifica contestazione di reato -, nel segmento degli atti preparatori non punibili.
    Ad avviso del giudicante, infatti, non sarebbe ravvisabile il requisito della idoneità “in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato”, atteso che “non è dato dedurre la effettiva destinazione dei semi”, una volta che essi siano stati venduti.
    E' evidente che tali affermazioni si coniugano in maniera armonica con l'osservazione :
    1.che sia sempre stato obbiettivamente impossibile – per il giudicante - acquisire la prova positiva della volontà genetica ed univoca del commerciante di istigare, tramite la vendita di semi di cannabis, gli acquirenti all'uso di sostanze stupefacenti, attesa la molteplicità di ipotetici motivi che potevano sottostare all'acquisto;
    2. che, una volta perfezionata la vendita, la destinazione finale e l'eventuale utilizzo modale dei semi – entrati negozialmente nella sfera di esclusiva disponibilità dell'acquirente – sfugge a qualsiasi forma di verifica da parte del commerciante.
    Costui non ha alcun obbligo di verificare l'uso successivo degli stessi.
    Ulteriore profilo di interesse si rinviene, poi, nella disamina della condotta degli imputati, che induce il giudice ad escludere la configurabilità dell'art. 414 c.p. in relazione all'art. 73 dpr 309/90 (ipotesi di reato di istigazione alla coltivazione illecita, che le SSUU hanno ritenuto come unica formulabile in teoria in situazioni del genere).
    La sola inserzione pubblicitaria, che raffigura semi e contiene indicazioni sulla loro provenienza e descrizione, non presenta – ad avviso del GUP - il carattere di fungere da spinta determinativa specificatamente indirizzata nei confronti degli acquirenti al fine di indurre costoro ad acquistare per coltivare.

    Rimini, lì 15 luglio 2013

    Carlo Alberto Zaina

  4. #14
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    IMPORTANTE PRONUNCIA ODIERNA DELLA CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA

    La Corte di Appello di Bologna Terza Sezione Penale, alla odierna udienza ha dichiarato il principio per cui, in assenza di perizia tossicologica che attesti il livello di thc, si deve ravvisare l'ipotesi lieve - cioè quella prevista dal comma V dell'art. 73, se non si può affermare che lo stupefacente detenuto era destinato ad un uso esclusivamente personale.
    Nel caso specifico la detenzione di 900 grammi di marjiuana ce 100 grammi di hashish ha comportato per due giovani, che io assistevo e difendevo assieme all'avv. Falco di Brindisi, la condanna alla pena di 2 anni e 4 mesi per uno (che era imputato anche di resistenza e minacce) e di 2 anni con sospensione condizionale per l'altro che non aveva altre accuse al di fuori di quella di detenzione illecita in concorso.
    L'impossibilitò di stabilire il grado di purezza dell'hashish o della marjiuana e, quindi, il numero di dosi o di quantità massime detenibili, diviene, quindi, ostacolo insormontabile per il giudice e legittima, pertanto, un trattamento pro reo di maggiore favore anche in presenza di quantitativi lordi importanti come quello in oggetto.
    Il narcotest diviene un mero indicatore della presenza di principi attivi e null'altro.
    La corte ha tenuto in conto anche il fatto che certamente una parte importante e preponderante dello stupefacente era destinata al fabbisogno personale dei detentori e non vi era alcuna prova di spaccio.
    Tra trenta giorni si potranno leggere le motivazioni e si potrà essere più precisi.
    E', comunque, un altro passo verso una distinzione del trattamento sanzionatorio per la cannabis.
    Ultima modifica di Avv. Zaina; 18-07-13 alle 20:28

  5. #15
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    Segnalo un'interessante sentenza della Corte di Cassazione in materia di guida sotto l'effetto di stupefacenti (art. 187 CdS).
    Nell'occasione i giudici di legittimità hanno escluso la ricorrenza del reato, che, invece, era stato ritenuto sussistente sia in primo grado, che in Appello in quanto non è stato fornita la prova che la persona trovata ad occupare il posto di guida di un veicolo fermo in un'area di sosta, avesse realmente guidato.
    Vale a dire che, se nel caso di specie, parrebbe possibile che l'assunzione dello stupefacente fosse avvenuta nell'anteriore immediatezza del controllo svolto dalle forze dell'ordine, non altrettanto provato è il fatto che la persona inquisita abbia guidato in tale stato.
    Le risultanze processuali che hanno portato la Corte ad annullare le sentenze di condanna, infatti, non dimostrano affatto che i verbalizzanti abbiano potuto percepire direttamente la circostanza dell'auto in movimento e della sua guida da parte dell'imputato.
    Da queste premesse è stata logica l'assoluzione.


    Carlo Alberto Zaina

    SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

    SEZIONE IV PENALE

    Sentenza 9 aprile - 12 luglio 2013, n. 30209
    (Presidente Brusco – Relatore D’Isa)

    Ritenuto in fatto

    A.G. ricorre in Cassazione avverso la sentenza, in epigrafe indicata, della Corte d'appello di Bologna che, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal GIP del Tribunale di Forlì in ordine al reato di cui all'art. 187 C.d.S., ha ridotto la pena inflitta in primo grado.

    Con il primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione relativamente al rigetto della richiesta di dichiarare la nullità degli esiti delle analisi tossicologiche per violazione delle disposizioni normative di cui agli artt. 354, 356, 114 disp. Att. e art. 366 e.p.p. non essendo stato avvisato l'imputato della possibilità di farsi assistere da un difensore, per il mancato deposito degli accertamenti e della relativa notifica al difensore. In particolare l'avviso al difensore, cui si fa riferimento in sentenza, è quello relativo alla perquisizione attuata dai verbalizzanti sull'autovettura a bordo della quale fu controllato l'A. , ma nessun avviso in tal senso gli fu dato per la richiesta di essere sottoposto a prelievi di liquidi biologici. Della circostanza, per altro, da atto lo stesso GIP; con riguardo alla seconda nullità si evidenzia che, vertendosi in materia di "accertamenti urgenti sulla persona", rientranti nel disposto dell'art. 354 c.p.p. e, comunque, di un atto cui il difensore aveva facoltà di assistere, non si era proceduto al deposito nella segreteria del P.M. entro tre giorni dal compimento e la notifica dell'avviso al difensore del diritto di visionarli e di estrarne copia.

    Con il secondo motivo si denuncia vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell'imputato. Si argomenta che non è affatto rimasto provato che l'A. si trovasse alla guida dell'autovettura in stato di alterazione psico-fisica dovuta all'assunzione di sostanze stupefacenti, mancando la prova sia in ordine alla sussistenza della condotta di guida che allo stato di alterazione. Quanto alla prima l'imputato fu controllato nella sua autovettura ferma nell'area di sosta (omissis) mentre discuteva con la propria fidanzata; i giudici di merito sono caduti in errore laddove hanno ritenuto che la Polizia avesse fermato il ricorrente mentre il veicolo era in marcia.

    Ritenuto in diritto

    La sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto addebitato all'imputato non sussiste.

    Quanto alle eccezioni in rito esse sono tutte infondate, sul punto sono pienamente condivisibili le argomentazioni esposte prima dal GIP e poi dalla Corte d'Appello, e, comunque, anche se non si tenesse in conto il verbale redatto il giorno (omissis) alla ore 04.00 dagli ufficiale di P.G. procedenti i quali davano atto (sia pure con riferimento all'attività di perquisizione dell'autovettura finalizzata al rinvenimento di sostanze stupefacenti) di avere avvisato l'imputato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, l'eccezione risulta tardiva in quanto doveva essere sollevata immediatamente dopo il compimento (182, 2 comma c.p.p.), e, quindi, almeno in sede di opposizione al decreto penale di condanna.

    Altrettanto dicasi in ordine all'eccezione dell'omesso avviso di deposito degli atti, la motivazione della Corte territoriale è corretta in quanto aderente sia al dato normativo che alla giurisprudenza di questa Corte.

    Relativamente al secondo motivo, concernente la responsabilità penale, dato di fatto certo, in quanto comprovato dal risultato delle analisi sui liquidi biologici, è che il ricorrente avesse assunto sostanze stupefacenti, ma la circostanza di fatto, presupposto indispensabile ad integrare il reato contestato, che l’A. si trovasse alla guida di un'autovettura, è stata solo desunta con argomentazione che non regge al vaglio di tenuta logica da parte di questo Collegio.

    Invero, dagli atti non emerge che il ricorrente fosse stato fermato mentre era alla guida o che, quanto meno, fosse stato avvistato alla guida di un'autovettura prima di essere fermato dagli agenti operanti nell'area di sosta. Emerge, invece, che, nel momento del controllo, egli si trovava in auto insieme alla fidanzata fermo in un'area di sosta. Non è riportato alcun dato di segno opposto nella sentenza di primo grado, ed, in quella di appello si afferma "...è argomento capzioso quello difensivo secondo cui l'accertamento è stato effettuato mentre l'autovettura era in sosta nell'area di servizio e quindi l'imputato in quel momento non era alla guida. D'altronde è implausibile (non l'invoca neppure l'appellante) l'ipotesi che l'assunzione di plurime droghe sia avvenuta in quel preciso contesto spazio temporale, immediatamente prima del controllo, sì da escludere la consumazione del reato...".

    Ebbene, l'affermazione, ancorché sostenibile in via di ipotesi, non è suffragata da dati oggettivi, il che determina un vizio di motivazione. Ed invero, poiché non è dato sapere se gli agenti abbiano controllato l'autovettura con a bordo il ricorrente e la fidanzata proprio nel momento in cui si fermava, non si può escludere che l'assunzione delle sostanze stupefacenti possa essere avvenuta proprio durante la sosta nell'area di servizio e non prima che l'A. si fosse posto alla guida dell'auto.

    E non è affatto vero che l'imputato non abbia invocato l'assunzione come avvenuta in quel contesto; invero, l'eccezione è oggetto specifico del secondo motivo dell'atto del gravame di merito.

    Essendo questo il quadro probatorio evincibile dagli atti, si impone l'annullamento della sentenza senza rinvio.

    P.Q.M.

    Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto ascritto all'imputato non sussiste.

  6. #16
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    Desidero informarvi che da martedì 20 agosto riprenderò -sperando di farvi cosa gradita - la pubblicazione di commenti su novità giuriprudenziali concernenti il tema della cannabis.

  7. #17
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    Come promesso riprendo qualche commento di novità giurisprudenziali.
    Per prima cosa, intendo segnalare la sentenza n. 2269/13 della Corte di Appello di Bologna, pronunziata lo scorso 18 luglio e di cui avevo dato notizia, in quanto ero direttamente interessato quale difensore di uno degli imputati.
    Si tratta di una decisione assai importante perché valorizza la indefettibile importanza della esecuzione, nel corso del procedimento penale, della consulenza tossicologica sulla sostanza stupefacente.
    Tale attività, infatti, appare del tutto risolutiva, onde potere ricavare il dato concernente la capacità offensiva e diffusiva dello stupefacente.
    La sua assenza lascia un ampio cono d'ombra.
    Per potere formulare una prognosi di correlabilità e di fondatezza dell'eventuale tesi di una detenzione per consumo personale, (ma, soprattutto per valutare la contrapposta linea accusatoria di una destinazione parziale o totale alla cessione in favore di terzi) il reperto psicotropo detenuto dalla persona indagata deve essere sottoposto ad un esame che può ( e deve) essere svolto ai sensi degli artt. 359 e 360 cpp, quando - addirittura -non si ritenga di dare corso (per la complessità dell'accertamento) ad un vero e proprio incidente probatorio ex art. 392 e segg. cpp.
    Nela caso di specie, la Corte ha colto l'intrinseco errore in cui era incorso il primo giudice, laddove egli aveva ritenuto di potere pervenire ad una valutazione di esclusione dell'attenuante prevista dall'art. 73 comma 5 dpr 309/90 (lieve entità), sulla scorta di una elaborazione di carattere esclusivamente logico, fondata sull'asserzione di uno degli imputati che aveva definito di "buona qualità" lo stupefacente.
    In buona sostanza in assenza di dato certi, il primo giudice aveva formulato una valutazione astratta ed empirica del tutto sfavorevole agli imputati.
    Tale opzione è stata disattesa dalla Corte territoriale, perché invece appare assolutamente necessario - come si rimarca in sentenza - conoscere il principio attivo contenuto nella sostanza sequestrata (e detenuta) e non può apparire risolutivo od esaustivo - siccome "ambiguo"-(come testualmente affermato in sentenza) un richiamo del tutto soggettivo.
    In pratica,la posizione così assunta dal giudice distrettuale si informa all'applicazione rigorosa del favor rei, vale a dire di quel principio, contenuto nel libro III del codice procedura penale e regolato espressamente e tassativamente dall'art. 192 .
    La carenza di un elemento probatorio di accusa - quale risulta ad esempio l'individuazione del principio attivo che connoti la sostanza - avrebbe potuto, ad avviso di chi scrive, anche a potere determinare la Corte ad una decisione ancor più radicale, nel senso di prosciogliere gli imputati, non essendo stata effettivamente raggiunta la prova di una reale idoneità drogante del reperto sequestrato.
    Certamente - nel caso di specie - le stesse ammissioni parziali delle persone inquisite, così come il rinvenimento di ulteriori elementi (ad esempio annotazioni che paiono riferibili a cessioni) non hanno permesso l'assunzione di una posizione così tranchant, e - così - i giudici hanno ritenuto di dovere adottare una posizione mediana, che - comunque - sancisce un principio di diritto estremamente importante, che va salutato come approdo garantista.
    Nessuna presunzione sfavorevole all'imputato, infatti, può sostituire - neppure interinalmente - un atto procedimentale, a fini probatori, che non sia stato tempestivamente e ritualmente svolto; l'onere della prova rimane ascritto a carico di colui intenda dimostrare un fatto.
    Il PM che esercita l'azione penale deve, pertanto, fornire la prova della responsabilità che egli asserisce a carico dell'indagato/imputato, sia che essa concerna l'intera condotta, sia che essa attenga a profili che permettano di qualificare la stessa sotto un aspetto giuridico, piuttosto che un altro.
    Il PM deve dimostrare la destinazione allo spaccio, il livello di thc dello stupefacente, la non finalizzazione della sostanza al consumo personale, etc...
    L'inadempimento a tale onere, oltre al proscioglimento, può portare, comunque, ad un trattamento sanzionatorio maggiormente favorevole per la persona inquisita.
    Medesimo obbligo è posto a carico del giudicante, il quale - munito di poteri espressi per sopperire a specifiche carenza investigative - ove non attivi queste sue prerogative, e non sia in possesso di prove risolutive, non può formulare valutazioni pregiudizievoli,

  8. #18
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    Ma quindi avvocato se in altri casi, non sia stato fatto nessun test tossicologico della sostanza sequestrata(nella fattispecie un paio di giovani piantine di 20giorni, quindi per niente mature dato che ancora le infiorescenze erano ben lontane dal comparire) e non ci siano prove che possano ricondurre a cessione a terzi? Si mette male per l'accusa,no?
    "Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
    e questa siepe, che da tanta parte
    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude..."Hidden Content

    We don't trouble your banana, we don't trouble your corn.
    We don't trouble your pimento, we don't trouble you at all.
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  9. #19
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    Il principio dell'onere della prova e' stato più volte calpestato e disatteso da una magistratura troppo impegnata ad imporsi giustizialisticamente, da un'avvocatura spesso impreparata e disattenta e da cittadini che pretendono la tutela dei loro diritti ed al dunque se la fanno sotto.
    Se i principi dunque non sono carta straccia, diciamo che - come acutamente lei dice - si mette male per l'accusa che non prova il reato.
    Ultima modifica di Avv. Zaina; 20-08-13 alle 22:08

  10. #20
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    Grazie delle informazioni che riporta sul forum
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