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Discussione: La giurisprudenza sulla coltivazione come le montagne russe

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    Il dibattito sulla liceità o meno della coltivazione di piante che producano derivati della cannabis si arricchisce di un nuovo pronunziamento reso dal GUP presso il Tribunale di Avellino, (che si allega) relativo ad una vicenda che vedeva tre persone imputate in relazione ad una piantina di dimensioni assai limitate, che - stando al capo di imputazione - sembrerebbe essere stata addirittura priva di principio attivo.
    Volendo prescindere, quindi, dalla considerazione che una situazione di fatto, del tipo di quella descritta, comporterebbe a fortiori, il proscioglimento degli imputati, non essendo venutosi a realizzare l'evento illecito tipico, che rende la condotta penalmente rilevante e cioè la produzione di principio attivo (THC), la sentenza appare, però, interessante per alcune considerazioni sviluppate dal GUP sulla sempre viva questione della necessità di stabilire quali siano i limiti entro i quali la condotta di coltivazione risulti priva di offensività.
    Il GUP riconduce, infatti, il concetto di offensività a quei termini "ortodossi" che trovano la loro massima espressione nella nota sentenza delle SSUU n. 28605 (28 aprile - 10 luglio 2008) e che fanno coincidere la pericolosità della coltivazione (vale a dire l'idoneità di tale comportamento ad assumere rilevanza penale) esclusivamente o con il non completamento del ciclo di maturazione, oppure con una presenza di principio attivo inidoneo a produrre effetti droganti.
    La destinazione del prodotto ad uso personale, quindi, appare - purtroppo - esclusa dal novero degli elementi che il giudice è chiamato a considerare per valutare la attitudine della coltivazione a porre in pericolo il bene giuridico tutelato dalla legge sugli stupefacenti e che consiste sia in via primaria nella difesa della salute pubblica, sia in via sussidiaria nella preservazione della sicurezza e dell'ordine pubblico.
    Argomenti, che militerebbero nel senso di privare di valore esimente la coltivazione ad uso personale, si rinverrebbero sia nella struttura dell'art. 75 (che non ricomprende nell'elenco delle condotte che possono formare oggetto di sanzioni amministrative - siccome scriminate dall'uso personale - la coltivazione), sia nell'adesione incondizionata ai principi della sentenza delle SS.UU. del 2008 già citata, che ebbe a sostenere pervicacemente (attraverso il richiamo alla sentenza 360/1995 della Corte Costituzionale) la arbitrarietà della distinzione fra "coltivazione domestica" e "coltivazione agraria", e la peculiare differenza tra detenzione ad uso personale e coltivazione ad uso personale (sulla base di considerazioni astratte e piuttosto irrealistiche, quale ad esempio il convincimento che il detentore abbia una relazione più diretta con lo stupefacente di quanto non l'abbia il coltivatore con la pianta ed il prodotto ottenuto).
    Sia consentito rilevare che l'evocazione della sentenza delle SS.UU. del 2008 pare - in questo come in altri arresti giurisprudenziali - una sorta di foglia di fico, dietro la quale pudicamente nascondersi per reprimere preventivamente ogni spinta evolutiva del pensiero giuridico, che richieda un approccio differente al tema della offensività, basato sulla necessaria centralizzazione del tema del consumo personale.
    E' inutile e gravemente riduttivo ricondurre l'evoluzione del principio di legalità "nullum crimen sine iniuria" solamente alle risultanze eventualmente positive di un'analisi tecnica che accerti il livello qualitativo/quantitativo del THC che la pianta (o le piante) è in grado di produrrre all'atto del sequestro.
    Si deve, infatti, osservare che circoscrivere a tali termini l'inoffensività (o l'offensività) della condotta coltivativa, comporta la aprioristica esclusione esclusione della valutazione della volontà dell'agente e dello scopo che questi persegue con il proprio comportamento.
    Non si può continuare a navigare nell'equivoco.
    Se il bene giuridico presidiato dalle norme penali ed amministrative contenute nel dpr 309/90 - ed in modo speciale dall'art. 73 - è di carattere plurimo, desunto dalla combinato dato dalla salute pubblica, dalla sicurezza e dall'ordine pubblico appare necessario che questi tre scopi asseritamente tutelati dal compendio normativo vengano posti in correlazione paradigmatica anche (e soprattutto) con la volontà che induce il singolo cittadino alla coltivazione per il proprio esclusivo fabbisogno.
    La spinta motiva, il fine perseguito non possono, pertanto, rimanere confinati in un limbo, che impedisce loro di produrre concreti effetti positivi sul piano ermeneutico.
    Se, infatti, il dpr 309/90 è posto a contrastare la diffusione delle sostanze stupefacenti, la coltivazione domestica e privata del singolo costituisce espressione chiara e non equivocabile di una idea di produzione che esaurisce il proprio iter e raggiunge il proprio acme all'interno della sfera privatistica dell'agente e non deborda, nè esorbita dalla stessa.
    L'assenza di proiezione e di conseguenze ab externo - il prodotto della coltivazione, quindi, non viene posto sul mercato e non aumento il potenziale di sostanza illecita offerto ai terzi - rivestono caratteri decisivi in una prognosi di non offensività e, pertanto, di liceità della coltivazione.
    Per quanto riguarda l'argomento legislativo, cioè il testo dell'art. 75, corre l'obbligo di osservare che le modifiche introdotte dalla L. 79/2014 - che la sentenza non ha potuto richiamare perchè anteriore al provvedimento legislativo in questione - continuano a costituire un baluardo giuridico alla omologazione della coltivazione a tutte quelle condotte che geneticamente illecite, invece, trovano una loro giustificazione proprio per la loro strumentalità con il fine del consumo personale.
    Si tratta di una triste realtà che potrà essere superata solo con una vera volontà politica di modifica della vigente legislazione.
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