A volte gli scrittori ricorrono a qualche sostanza per stimolare la propria prosa e tenere desta la creatività. È una cosa logica: il cervello non sempre funziona al massimo livello e l’autore, che dell’ispirazione vive, deve trovare il modo che il suo cervello lavori sempre al top. Ci sono scrittori che sono stimolati dalla musica – in genere o da un tipo particolare –, altri che fumano, altri al caffè. Tutte situazioni ben note e che sono entrate anche nell’immaginario comune: basti pensare a quello spot televisivo di uno scrittore che ama scrivere di notte e fa ricorso a una nota marca di caffè decaffeinato.
Charles Bukowski alzava il gomito che era una bellezza (sua la frase: “Quando sei felice bevi per festeggiare. Quando sei triste bevi per dimenticare, quando non hai nulla per essere triste o essere felice, bevi per fare accadere qualcosa”); William Cuthbert Faulkner (premio Nobel per la letteratura 1949) amava il whisky; Raymond Chandler (1888-1959) preferiva il cocktail gimlet e Truman Capote era un fan del Martini. Grazie agli “aiutini” più di una volta questi – e altri – scrittori sono riusciti a innalzarsi sul banale che spesso si legge.
Certo non è sufficiente ricorrere a una qualche sostanza per stimolare la fantasia: come recita un detto dell’università di Salamanca, in Spagna: “Quod natura non dat Salmantica non praestat”. Insomma, se non c’è una base da stimolare, ci si può pure intossicare ma non si ottiene nulla.
Ci sono, poi, autori che sono andati molto più lontano, alterando la propria coscienza giungendo fino a una sorta di contaminazione tra lo stato alterato che vivevano e quello che scrivevano: Baudelaire assumeva hashish per scrivere I paradisi artificiali; William Seward Borrough fece ricordo all’eroina per scrivere La scimmia sulla schiena, così come la utilizzava Jim Carroll per scrivere Jim entra nel campo di basket (1978); Jack Kerouac usò anfetamine per scrivere Sulla strada.
Infine abbiamo autori che batterono sentieri più psichedelici: quasi psiconauti della scrittura che viaggiarono in altre dimensioni per poi raccontare al mondo quanto hanno visto. Tra questi annoveriamo Jean-Paul Sarte che nel 1935 provò la mescalina che poi ebbe un grande riflesso su La nausea; Ken Kesey che fece ricorso al peyote per scrivere Qualcuno volò sul nido del cuculo; Robert Louis Stevenson che scrisse – in soli sei giorni – Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde sotto l’influenza della cocaina.
Ecco una sorta di classifica di venti opere importanti scritte sotto l’effetto di una qualche sostanza (eccitante o tranquillante).
> benzedrina: Jack Kerouac, Sulla strada (1957) – Wystan Hugh Auden, 1 settembre 1939 (1958)
> caffè e corydrane (anfetamine con l’aspirina): Jean-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica (1960)
> caffè: Honoré de Balzac, La commedia umana (1829-1848)
> cocaina: Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886)
> eroina: William Seward Burroughs, La scimmia sulla schiena (1953) – Jim Carroll, Jim entra nel campo di basket (1978)
> gimlet e vitamine: Raymond Chandler, La dalia azzurra (1946)
> gin: Edna St Vincent Millay, articoli su Vanity Fair (1921)
> hashish: Charles Baudelaire, I paradisi artificiali (1860)
> laudano: Samuel Taylor Coleridge, Kubla Kahn (1797) – Elizabeth Barrett Browning, Aurora Leigh (1856)
> LSD: Timothy Leary, High Priest (1968) – Hunter Stockton Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas (1971)
> martini (doppio): Truman Capote, A sangue freddo (1965)
> mescalina: Aldous Huxley, Le porte della percezione (1954)
> peyote: Carlos Castaneda, Viaggio a Ixtlan (1972)
> peyote e LSD: Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo (1962)
> tè caldo e sherry: Carson McCullers, Il cuore è un cacciatore solitario (1940)
> whisky: William Cuthbert Faulkner, Road to glory (1936)
di Roberta Russo – fonte: booksblog.it / papelenblanco.com