L’influenza esercitata sull’animo dalla visione famigliare e, direi, nativa di luoghi, di persone, di visi dissolti nella memoria di un’epoca lontana, pare riaffiori all’improvviso alla visione di una vecchia fotografia scovata per caso nel riordino delle mie carte. A ben soffermarsi sui volti di quegli amici di un tempo, la maggior parte dei quali è ormai scomparsa, si torna spontaneamente col pensiero al paese che, in un periodo travagliato della sua storia, riservò a noi giovani di allora, appena usciti da una vicenda disastrosa, quale fu la guerra, un “modus vivendi” che, a raccontarlo a quelli che oggi hanno venti/trent’anni, appare incredibile.
Già, ma come si viveva a quei tempi? Intendo riferirmi a quel periodo che va dal 1940 al 1948: otto anni, forse i peggiori nella storia dei nostri paesi, che incideranno profondamente sul carattere di quei ragazzi i quali, come me, si aprivano alla vita. Ma la strada da percorrere, oltre tutto, era irta di difficoltà: molte le incognite, nulle le prospettive, salvo l’ultima risorsa a portata di mano: l’emigrazione.
L’autarchia ereditata dal fascismo aveva costretto, noi italiani, ad impegnarci al massimo in quella cosiddetta “arte di arrangiarsi”, una virtù che è rimasta radicata nel gene della nostra gente e ha contribuito non poco, negli anni del dopoguerra, a tirarci fuori da situazioni difficili e di estremo disagio. Premetto che, a guerra ultimata, le condizioni economiche nella Marsica peggiorarono ulteriormente; troppo profonde erano state le ferite lasciate da una guerra devastante che non aveva mai, nella sua storia, toccato così da vicino i nostri paesi. Anche i costumi ne subirono le conseguenze: ognuno di noi si adattò necessariamente al nuovo metodo di vita fatto di rinunce e di sacrifici. Bisognò fare i conti con la fame, le malattie infettive, quali la tubercolosi, la scabbia, il tifo, questo terribile morbo, di triste memoria, che si portò via tanti ragazzi e, per ultimo, il freddo rigido dell’inverno. E quando parlo dell’inverno, il pensiero corre alla estrema difficoltà di procurarsi quegli indumenti che erano indispensabili a coprirsi dai rigori del gelo.
Chissà perché, in quella foto del ’46, quello che mi ha colpito maggiormente è stato l’abbigliamento; forse quegli abiti dimessi, “fatti in casa” – è il caso di dire – ma in particolare, quei capi d’abbigliamento “prodotti” con la canapa coltivata nel Fucino. Oggi la coltivazione di questa pianta erbacea è proibita, perché da essa si ricava un tipo di droga, ma allora serviva a coprirci alla meglio dai rigori dell’inverno. I metodi di lavorazione erano abbastanza rudimentali e sarà interessante seguirne le varie fasi. Le piante di canapa, a fasci, venivano immerse nelle pozze d’acqua che sorgevano qua e là nelle varie polle disseminate sulla riva del Fucino o nell’alveo di alcuni torrentelli rimasti all’asciutto per la stagione inoltrata e, perché le piante rimanessero totalmente immerse nel fondo, vi si poggiavano sopra delle pietre piuttosto pesanti. La macerazione durava dai quindici ai venti giorni, dopo si toglievano dall’acqua putrida e si allineavano sui prati ad asciugare sotto il solleone. Quindi la canapa veniva maciullata con un arnese costruito per l’occasione, poi, dopo accurata pettinatura, si confezionavano le matasse di stoppa. La fase successiva veniva affidata alle donne; di solito, alle più anziane, che si guadagnavano da vivere con la filatura. Bastava una rocca e… tanta saliva per arrotolare il fuso con le dita e ricavare così dei gomitoli di ruvido filo, l’accia. Non poche famiglie possedevano un telaio rudimentale e chi non aveva la fortuna di possedere una cantina, lo sistemava in cucina. Dal tessuto si ricavavano le pezze di panno destinate alla confezione di camicie, gonne, calzini e altri indumenti. La tinta delle pezze avveniva mediante l’immersione in una grossa pentola; qui venivano fatte bollire in una “mélange” di colori di varia natura; ad esempio, anche il “negrofumo” raschiato dai camini veniva buono per la tinta dei calzini. Ma un certo disagio si avvertiva quando gli indumenti di canapa venivano indossati per la prima volta! La ruvidezza del panno faceva arrossare la pelle e non di rado provocava fastidiose ferite nelle parti più delicate del corpo. Ma, bisogna pur dirlo, questi avevano il vantaggio di durare più a lungo delle stoffe acquistate nei negozi. Le donne, poi, erano abilissime nell’arte del rammendo. Le toppe variavano a seconda dell’indumento che veniva indossato. Per i pantaloni, ad esempio, le toppe erano quadrate sul sedere e triangolari sulle ginocchia. Spesso queste cosiddette “mappe a rilievo” erano ritagliate da altre stoffe di colore diverso!
Ma il vero problema erano le scarpe. Quelle di cuoio, lucide di copale, le calzavano i ragazzi più ricchi; di solito i figli del dottore, dell’ufficiale postale, della levatrice o del farmacista. Quelli poveri, ed erano i più, avevano gli zoccoli fatti con le tomaie di vecchie scarpe col fondo di legno, spesso rinforzati da lastrine di latta per durare più a lungo. Altri, più fortunati di questi, si facevano costruire gli scarponi su misura dallo “scarparo” di fiducia (ogni paese ne contava un buon numero). Di solito gli scarponcini venivano lastricati da uno strato di “chiovette” o “vitarelle” e a volte i bordi venivano corazzati con le cosiddette “zeppe”. Certo, gli scarponcini con le “chiovette” erano il sogno di ogni ragazzo, ma, in verità, questo privilegio era riservato ai figli dei benestanti. I figli dei braccianti andavano scalzi, almeno da maggio a settembre. Già, i braccianti, autentici paria della società contadina del dopoguerra, erano all’ultimo gradino della scala sociale. Uomini considerati proletari di infimo ordine e sottoposti all’arbitrio e alla prepotenza dei piccoli borghesi e dei pochi proprietari terrieri. Le scarpe si riparavano e più spesso si risuolavano. Ma non tutte quelle acquistate nei negozi erano di puro cuoio; spesso, quelle di minor prezzo, erano di cartone pressato. Purtroppo, alle prime piogge autunnali, il cartone si gonfiava lasciando che l’acqua filtrasse all’interno e inzuppasse i piedi.
Per far comprendere ad un giovane del nostro tempo quale importanza avessero le scarpe nella vita quotidiana di allora, riferirò quanto scrisse uno scrittore di cui mi sfugge il nome: «Se si escludono gli zoccoli dei contadini, che somigliavano alle scarpe come un sacco con tre fori a una camicia firmata, c’erano in circolazione meno scarpe ieri che automobili oggi. E una scarpa malmessa suscitava lo stesso sospetto di trascuratezza, di miseria mentale oltreché pratica, che oggi noi avvertiamo d’istinto, davanti a una macchina con le ammaccature mai riparate o arrugginite». Parole sacrosante che fanno riflettere. A me personalmente fa un certo effetto quel paragone tra scarpe e automobili.
Appena cinquant’anni ci separano da quei tempi grami, eppure sembrano secoli. Dopotutto i costumi cambiano e con essi anche i vecchi ricordi vanno nel ripostiglio della memoria. Se poi qualche giovane in particolare vorrà trarne un monito per l’avvenire, ben venga: in fin dei conti, non gli costerà nulla e avrà tutto da guadagnare.
Adelmo Polla – (fonte: terremarsicane.it)