La pronunzia del Tribunale di Bolzano in commento interviene a chiarire come la detenzione da parte di un commerciante per la vendita al pubblico di semi di cannabis (non associata ad altri strumenti o prodotti destinati alla coltivazione) non costituisca affatto nè l’ipotesi di reato di cui all’art. 82 dpr 309/90 e – tanto meno – quella di concorso in coltivazione sanzionata dall’art. 73 dpr 309/90.
L’esclusione della sanzionabilità – a qualsiasi titolo – della condotta in questione, nei termini delineati, ricalca la pacifica posizione già recepita pienamente dalla giurisprudenza (V. ex plurimis in sede di legittimità Cass. pen. Sez. I Sent., 16-02-2007, n. 19056 , B.S.Riv. Pen., 2007, 9, 860 ), la quale ha fornito a nozione legale di stupefacente.
Questo assunto sta, quindi, a confermare l’assunto per cui i semi non possono venir considerati quali sostanze stupefacenti, giusto il disposto della L. 412 del 1974, art. 1, comma 1, lett. B; della Convenzione unica sugli stupefacenti di New York del 1961 e, da ultimo, della tabella I Decreto Ministero della Salute 11 aprile 2006.
In giurisprudenza si è, infatti, precisato che “…Il termine canapa è, infatti, riferibile unicamente alle sommità fiorite o fruttifere della pianta ad esclusione dei semi e delle foglie non accompagnate dalle relative sommità…” e si è, così, pervenuti alla conclusione in base alla quale “….la vendita di semi non è idonea, quindi, a ledere il bene giuridico protetto in linea generale dalla legislazione sugli stupefacenti, non potendo ai predetti essere attribuito il benché minimo effetto drogante…. ”.
Ergo, nonostante appaia indiscutibile la circostanza che la vendita di semi di cannabis concretizza un momento comportamentale antecedente che non si fonde, non può venire confuso, in alcun modo, con la attività di coltivazione, né, tanto meno può assumere profili di illiceità, permangono situazioni nella quali tale condotta viene richiamata quale paradigma di illiceità.
E’ di tutta evidenza che il caso in questione costituisce solo una delle possibili ipotesi di fatto che si vanno ad incontrare nel contesto del commercio di semi.
Le valutazioni che si andranno a formulare, quindi, tengono conto della prospettiva di fatti concreta offerta all’attenzione dl Collegio, perchè osservazioni certamente differenti devono venire svolte, ove alla vendita di semi si abbini il commercio di altri prodotti correlati alla coltivazione, attese implicazioni che, in questa sede, sarebbe fuorviante affrontare.
In un contesto del genere, il Tribunale di Bolzano, quale giudice del riesame cautelare reale, chiamato a giudicare la legittimità di sequestri di semi in capo a commercianti, evidenzia, infatti, quale siano gli elementi strutturali che connotano entrambe le fattispecie delittuose, che l’accusa – nel caso di specie – aveva, in alternativa tra loro, ipotizzato come commesse.
In buona sostanza, le due norme di cui la accusa aveva sostenuto la violazione, per potere manifestare la loro operatività, presuppongono condotte di maggior spessore e completezza rispetto a quella mera detenzione, che nel caso in parola, è stata accertata.
Il ragionamento del Tribunale del riesame reale, pur investendo precipuamente il profilo materiale della condotta, riverbera implicitamente effetti anche in relazione all’indagine che il giudice deve operare nel campo dell’elemento psicologico del reato.
Va, infatti, sottolineato come il perfezionamento del reato di istigazione, induzione o proselitismo all’uso di stupefacenti, (di cui all’art. 82 dpr 309/90) non possa prescindere all’esistenza di una precisa volontà dell’agente, che caratterizzi preliminarmente la condotta che lo stesso pone in essere.
La decisione del Collegio atesino, pur nella sua assoluta condivisibilità (e forse anche prevedibilità) in relazione al punto specifico della pura detenzione di semi di cannabis, lascia irrisolte, però, alcune tematiche che appaiono fondamentali per una disamina complessiva dei profili di corretta applicabilità delle fattispecie di reato che l’accusa aveva ipotizzato.
I) IN RELAZIONE ALLA CONTESTAZIONE DEL CONCORSO NELLA COLTIVAZIONE (ARTT. 110 C.P. E 73 DPR 309/90).
Il Tribunale di Bolzano individua come discrimen per la evocabilità concreta del reato di cui all’art. 73, come condotta di coltivazione, l’inizio del “relativo procedimento naturale e che cioè siano stati impiantati almeno i semi”.
Si tratta di un orientamento che – a parere di chi scrive – non convince appieno, perchè non considera la scansione temporale che si verifica nell’iter di vendita di semi, cui faccia seguito la coltivazione degli stessi.
Esaminando, dunque, l’insieme di quelle singole condotte, che possono venire assumere rilievo nella ricostruzione della progressione della vicenda, si deve, infatti, osservare come – usualmente – esista una vera e propria frattura temporale e fattuale fra l’azione di chi ponga in vendita – lecitamente – semi di canapa e quella di chi, una volta acquistati i semi, dia eventualmente corso alla coltivazione vietata dall’art. 73.
E’ questo esasme del collegamento eziologico fra le varie condotte, dunque, ad opinione dello scrivente, l’elemento di maggiore spessore sul quale si deve incentrare l’attenzione dell’esegeta e, soprattutto, del magistrato.
Risulta, infatti, assolutamente evidente che, in assenza di una prova in ordine ad un concorso di ordine morale (od ad un concorso materiale che, però, si estrinsechi in altre e differenti azioni) i comportamenti del commerciante, il quale pone in vendita e vende i semi di cannabis, rispetto al gesto di colui che coltivi
1) solo trovano attuazione in tempi e luoghi totalmente differenti,
2) non sono affatto posti – ed è ciò che maggiormente rileva in proposito – in quel rapporto di minimo collegamento vincolistico interpersonale, di carattere sia morale, che materiale, che costituisce il fondamento del concorso di persone nel reato di cui all’art. 110 c.p..
E’ approdo giurisprudenziale incontroverso, quello che afferma che si verifica concorso nel reato, ogni qualvolta ciascuno dei compartecipi si dimostri consapevole della confluenza della propria condotta con quella altrui in un unicum, e voglia espressamente raggiungere il risultato criminoso prefissato, quale esito della fusione dei singoli comportamenti tenuti.
Per potere ragionevolmente e realmente supporre come configurata la partecipazione concorsuale del commerciante (che venda abitualmente semi di canapa nella forma del diretto dettaglio con negozi propri) alla commissione del reato di coltivazione, deve essere dimostrato, in modo del tutto rigoroso, che la vendita si palesi come espressione di un consapevole apporto concausale, che trova esternazione esclusivamente sul piano strettamente morale.
Si deve osservare che una siffatta prospettata forma di concorso di persone nel reato risulta, però, assolutamente particolare e sui generis, posto che l’unico apparente momento di contatto fra il commerciante e gli acquirenti (che talora non si conoscono personalmente e, spesso, non si sono mai entrati in interazione diretta) verrebbe a consistere nell’esecuzione dell’ordine di spedizione dei semi o, al più, nella consegna degli semi, all’atto dell’acquisto.
Un concorso nel reato, che appare, quindi, definibile (in capo al commerciante) come anomalo, posto che l’unico elemento di configurazione astratta dell’istituto di cui all’art. 110 c.p., dovrebbe venire individuato in uno stato di consapevolezza originaria del commerciante di un successivo uso indebito (degli acquirenti) dei semi venduti.
Le osservazioni che precedono, quindi, conducono ad una unica conclusione.
Se, da un lato – sul piano eminentemente materiale – non è revocabile in dubbio la circostanza che la coltivazione suppone necessariamente l’inizio dell’azione di semina nel terreno (piccolo o grande che sia) destinato alla coltura, dall’altro, non può affatto venire trascurato l’esame ricostruttivo dei singoli apporti concausali, sia materiali, che morali.
In questo percorso di indagine non è ammessa alcuna deroga rispetto ai dettami ermeneutici stabiliti dall’art. 110 c.p. .
Quello testè richiamato deve essere, pertanto, a parere di chi scrive, il principio da assumere come indirizzo primario, ove si debba operare un’analisi di quella pluralità di rapporti e condotte scaglionate nel tempo – eventualmente tra loro connessi sul piano teleologicamente – che possono acquisire valenza di apporti causali nella verificazione dell’evento o commissione del fatto.
II) IN RELAZIONE ALLA CONTESTAZIONE DELLE CONDOTTE cd. ISTIGATORIE (ART. 82 DPR 309/90)
In alternativa alla ipotizzazione di reato sin qui valutata, la casistica giurisprudenziale ritiene ravvisabile nell’ambito del commercio dei semi di cannabis la violazione dell’art. 82 dpr 309/90.
Sul punto si impone una considerazione preliminare.
Le tesi di accusa che, usualmente, vengono prospettate nei procedimenti in corso, scontano a parere dello scrivente un grave vizio genetico, che deriva da un chiaro errore di diritto, che concerne la previsione dell’art. 82 dpr 309/90.
Allo scopo di precisare i termini del problema, è, assolutamente, fondamentale ricordare che tale norma recita testualmente al co. 1 che : “ Chiunque pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona all’uso medesimo, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.032 a euro 5.164”.
Stando, dunque, al tenore letterale della previsione in parola, il precetto, oggetto di tutela penale sancisce, dunque, il divieto di tenere tre condotte tassativamente previste (istigazione, induzione e proselitismo) ed attribuisce alle stesse rilevanza penale, a condizione che esse si pongano in relazione diretta ed immediata l’uso illecito di sostanze stupefacenti.
La chiarezza e la inequivocità del citato riferimento normativo costituiscono quelle caratteristiche che permettono di individuare e denunziare il duplice contemporaneo errore in cui ci si imbatte sistematicamente.
1) Da un lato si evoca ed utilizza impropriamente (attraverso un’inammissibile intepreptazione estensiva) l’art. 82 quale norma che sanzionerebbe “l’istigazione alla coltivazione”.
Emerge, prima facie, che, in realtà, la condotta, che in questo modo si assume configurata, non risulta per nulla presa in esame dalla disposizione in parola.
Si deve, infatti, sottolineare come il co. 1 dell’art. 82 cit. – nel corpo di tre righe – ripeta per ben tre volte la parola “uso”, ponendo solo tale condotta finale (e nessun altra) in correlazione con le tre azioni vietate ed, in pari tempo, sancendo una principio di tassatività dell’azione considerata illecita.
Ergo, nessun altra distinta forma di eccitazione morale di terzi, la quale si rivolga a condotte diverse dall’uso e penalmente rilevanti, viene prevista dalla disposizione di legge in questione, (neppure per implicito).
L’uso di sostanze stupefacenti (che costituisce comportamento penalmente irrilevante) non può, inoltre, formare oggetto di confusione ad alcun titolo e sotto alcun profilo con la coltivazione (che, invece, costituisce una delle oltre venti ipotesi punibili).
Ergo, la configurazione di reato, che procedimentalmente capita di fronteggiare, appare certamente infondata, in punto di fatto, ove venga posta in rapporto alla condotta tenuta dalla ricorrente, attesa l’assenza di elementi che la rendano plausibile quantomeno sotto il profilo psicologico.
La qualificazione giuridica adottata, inoltre, in punto di diritto, risulta del tutto infondata, perchè la norma invocata punisce, in realtà, comportamenti finalizzati alla illecita promozione di una condotta (nello specificol’uso), la quale risulta totalmente differente da quella ipotizzata in concreto della coltivazione.
In conclusione “l’istigazione, l’induzione od il proselitismo alla coltivazione”, ancorchè configurabili in linea di pura teoria,costituiscono, in verità, ipotesi che non rientrano nella previsione della tutela penalistica accordata dall’art. 82 dpr 309/90.
Tali condotte, se ravvisabili (ove si ritenesse, quindi, la presenza di attività dichiaratamente propedeutiche alla coltivazione) non possono, però, venire sanzionate penalmente, attraverso l’improprio utilizzo di detta norma, la quale presenta, senza incertezze di sorta, uno spettro applicativo orientato in altra e differente direzione.
2) Dall’altro ed in ordine a questo orientamento fa reale giustizia, come detto, l’ordinanza in commento, ci si imbatte spesso in un’operazione di indebita assimilazione dei semi alle vere e proprie sostanze stupefacenti.
Alla luce dell’intervento giurisprudenziale richiamato, non mette conto dire che si tratta dell’ennesima prova di una impostazione giuridico-fattuale errata, la quale ingiustamente criminalizza una condotta commerciale, altrimenti, del tutto lecita.
In difetto di una definizione farmacologica, la nozione di sostanza stupefacente ha natura legale, nel senso che rimangono sottoposte alla normativa del D.P.R. n. 309 del 1990, che ne vieta la cessione tutte e soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi predisposti e, quando si tratti di vegetali contenenti un principio attivo già inserito in tabella, solo se siano comprese nell’elenco anche le parti che li compongono, come le foglie o i semi; ne consegue che, nel caso di cessione di semi di rosa hawaiana, non sussiste il reato di cessione di stupefacenti, in quanto tale parte del vegetale non è inserito specificamente nella prima tabella delle sostanze stupefacenti, nonostante che contenga il principio attivo denominato LSA (Amide dell’Acido Lisergico), pure inserito nella medesima tabella.
Articolo dell’avv. Carlo Alberto Zaina
Fonte: Notiziario Aduc