Desidero ritornare sul confronto fra detenzione coltivazione, perché tra gli utenti ci sono ancora troppi dubbi e vorrei aiutare a risoverli.
E’ incontroversa la considerazione che si stia vivendo un momento di proliferazione del fenomeno della coltivazione della cannabis e dell’uso dei derivati di tale coltivazione (hashish e marjiuana).
Queste sostanze vengono, infatti, percepite come meno pericolose dell’eroina, della cocaina o di altre che rientrano nel novero delle droghe pesanti.
Siamo dinanzi ad una conseguenza, purtroppo, del tutto naturale, rispetto ad una legislazione “pasticciona”, (quella della L. 49 del 2006 che ha modificato il dpr 309/90), che, nel suo indubbio indirizzo proibizionista, presenta, però, gravi incongruenze e norme tra loro contraddittorie.
E’ bene dire subito che, nel sistema normativo vigente, “l’uso esclusivamente personale”, di qualsiasi tipo di sostanze stupefacenti, di regola, se dimostrato, non comporta l’applicazione di sanzioni penali.
E’ questo un principio giuridicamente e laicamente ineccepibile, perché il valore negativo, che si può ravvisare nella decisione di assumere stupefacenti, sia continuativamente, che episodicamente, investe e concerne, a mio avviso, un profilo di natura puramente etica.
Certo è, che la scelta della L. 49 del 2006 di non punire chi detenga droga, ove costui dimostri che la sostanza posseduta sia destinata per un uso personale ed, invece, quella di processare e punire, chi coltivi un limitato numero di piantine di cannabis al medesimo privato scopo, appaiono evidenti esempi di un ipocrita strabismo legislativo.
Due esempi possono aiutarci a comprendere l’assunto.
Si deve, infatti, in primo luogo, considerare l’ipotesi – nella quale ci imbattiamo quotidianamente nelle aule di giustizia - di una persona, che venga trovata nel materiale possesso di un quantitativo non elevato di hashish o di marijuana (ma il discorso potrebbe valere anche per le droghe pesanti), che egli abbia acquistato da un pusher (favorendo, così, il sostentamento finanziario di fenomeni palesemente illeciti di spaccio).
Il detentore può – verificatesi alcune elementari condizioni – non venire sottoposto a procedimento penale e può, dunque, evitare la sanzione penale.
La detenzione personale di stupefacenti configura, infatti, al più, un mero illecito amministrativo.
In secondo luogo, poniamo il caso in cui, invece, una persona venga colta nell’atto di coltivare una pianta (oppure un numero limitatissimo di piante) all’interno della propria abitazione, oppure in un’area privata cui egli solo possa avere accesso, pur in presenza di indici di destinazione dell’eventuale prodotto ad un fabbisogno esclusivamente personale.
Il coltivatore sarà certamente destinatario di una denunzia (quando addirittura non venga arrestato).
La univoca conclusione cui si perviene è, quindi, che appare evidente a chiunque, che un’attività coltivativa domestica (a scopo ludico-personale) inizia e si conclude in una sfera strettamente privata del coltivatore-assuntore e si propone come esempio fortemente antitetico rispetto a quelle condotte che diffondono il fenomeno delle droghe (anche quelle pesanti).
E’ notorio e pacifico che chi coltiva, infatti, non acquista nelle piazze da pushers, e, in tal modo non fornisce quelle fresche risorse economiche di cui le organizzazioni dedite allo spaccio necessitano costantemente, alimentandone – così - l’attività.
Il coltivatore domestico compera, infatti, i semi di cannabis, che metterà a dimora, presso rivendite autorizzate, con tanto di fattura o scontrino da parte del commerciante.
Credo, quindi, che i fenomeni di coltivazione domestica di cannabis debbano venire affrontati, in ambito giudiziario, attraverso l’uso dei medesimi paradigmi che governano il giudizio in ordine alla detenzione di stupefacenti, anche perché la destinazione ad un uso personale delle sostanze psicotrope costituisce un parametro costante e decisivo di non illiceità anche ad avviso della legislazione UE (dec. 757/GAI/2004).
Qualsiasi condotta che sia finalizzata a tale scopo, deve, quindi, andare esente da responsabilità penale.
Desidero, da ultimo precisare, però, che altro è affermare – come sostengo - la depenalizzazione o meglio la desanzionalizzazione (cioè decidere di non applicare alcun tipo di sanzione neppure amministrativa) di alcune condotte, soprattutto in relazione alle sole droghe leggere (omologate insipientemente dal legislatore a quelle pesanti, ad es. cocaina eroina etc), altro, è, invece, affermare la legalizzazione di queste sostanze, posizione che non condivido e che mi sempre visto contrario.
Depenalizzare o “desanzionalizzare” alcune condotte concernenti le droghe leggere, significa, infatti, a mio avviso, circoscrivere l’intervento al’importante fatto di non punire la scelta di fare uso di esse ed anche di porre in essere comportamenti strumentali all’utilizzo successivo.
Si tratta di scelte personali che possono essere condivise o meno, che possono essere criticate: esse, però, ad ogni buon conto, rientrano nella intima sfera della libertà assoluta di determinazione dell’individuo e non costituiscono atti penalmente rilevanti, o, comunque, illeciti, neppure amministrativamente.
Le posizioni di chi voglia fare uso di stupefacenti non possono e non devono, però, comportare conseguenze giudiziarie; si tratta, quindi, di rivisitare principi giuridici, i quali, peraltro, sono già contenuti geneticamente nella legge sugli stupefacenti (se è vero che il consumo non dovrebbe essere sanzionato).
Legalizzare, significherebbe, invece, riconoscere un vero e proprio diritto soggettivo del singolo ad usare sostanze stupefacenti (e vantare, quindi, pretese di tutela extragiuridica).
Si tratterebbe di una scelta grave e priva di responsabilità.
Si verrebbe ad equiparare, infatti, così, a prerogative, invece, socialmente, positive e fondamentali come l’accesso al lavoro o la possibilità dello studio, una scelta, che, comunque, la si pensi, appare, se non altro, gravemente nociva alla salute.
Si deve operare, invece, su di un doppio binario.
Da un lato clemenza, dunque, in sede giudiziaria (non è sanzionando l’uso personale che si risolverà il problema), dall’altro prevenzione ed informazione quali forme di lotta alla diffusione del fenomeno nel contesto sociale.