Secondo il dibattito politico e non solo spesso l’uso della cannabis è considerato al pari delle droghe pesanti. Ora venendo alla sua esperienza, crede che sia veramente così, oppure il discorso necessita di essere sviluppato in modo meno ortodosso?
“Credo che non sia un ragionamento sulla sostanza, ma una discussione su come si vive la sostanza. Se la cannabis, come tante altre cose, diventa l’oggetto che determina la vita di una persona allora qualsiasi cosa è condannabile. E’ la dipendenza da condannare, non l’uso. La cannabis secondo me potrebbe essere uno strumento d’incontro, d’aiuto, per disinibire: come ad esempio l’uso terapeutico. In questo sono sulla linea d’altri miei colleghi come don Andrea Galli, don Luigi Ciotti, che invece pensano più ad un lavoro di riduzione del danno, quindi d’essere capaci di un lavoro fatto diversamente. La cannabis legalizzandola romperebbe questo mercato di morte che si è creato, e dall’altra parte verrebbe a creare una cultura diversa che prende coscienza della droga vera, quella pesante. Nello stesso tempo si verrebbe a lenire il pregiudizio generico che è alquanto deleterio, si stroncherebbe quest’uso demoniaco di certi usi e costumi”.