In quale regione del cervello possono aver luogo questi eventi? Nell'ippocampo, per esempio: una piccola regione a forma di cavalluccio di mare, situata proprio sotto la corteccia cerebrale, attraverso cui passano i cogitata et visa per andare a formare memorie stabili o a perdersi per sempre; l'ippocampo è ricco di recettori cannabinoidi, la cui attivazione potrebbe essere la causa della smemoratezza tipica del fumatore di hashish. Oppure nell'ipotalamo, una struttura alla base del cervello, che regola molti di quei processi vitali che funzionano benis
simo da sé e sui quali la nostra coscienza normalmente non ha alcun controllo: la fame, la sete, la temperatura corporea. Anche l'ipotalamo, come l'ippocampo, contiene dei recettori cannabinoidi; anche lí dunque la loro attivazione può avere degli effetti importanti, per esempio quello di aumentare l'appetito (un classico effetto del consumo di cannabis).
Chiudiamo il "Libro de los seres imaginarios" e ritorniamo a noi. Se, da una parte, lo studio del meccanismo d'azione del delta-9-tetraidrocannabinolo ha portato alla scoperta dell'anandammide e del suo ruolo di sostanza cannabinoide endogena, dall'altra la ricerca farmacologica e tossicologica ha dimostrato in questi ultimi anni, oltre ogni ragionevole dubbio, l'innocuità della cannabis e dei suoi principi attivi.
Non è questo il luogo per riassumere i dati sperimentali, numerosissimi, a sostegno di tale innocuità: il lettore interessato potrà consultare con profitto la letteratura specializzata sull'argomento, a cui faccio riferimento nella nota bibliografica. Ricordo solo che, a differenza di altre sostanze psicoattive di largo consumo (tabacco e alcool, soprattutto), la cannabis non produce nell'uomo alcuna sindrome di dipendenza fisica. La dipendenza psicologica di cui parla talora la letteratura medica resta un concetto vago, dai contorni mal distinti; in mancanza di una sindrome vera e propria e di sintomi biologici oggettivi, come avviene invece per la cocaina, la sua unica definizione possibile è un truismo: l'hashish e la marjiuana si fumano, e si torna a fumarne, perché piacciono. Bella scoperta: anche il crack (che è cocaina base, non salificata) si fuma dapprincipio perché piace; ma se poi si torna a fumarne è perché, superata una certa variabile soglia di consumo, diventa sofferenza fisica l'astenersi, e non se ne può piú fare a meno.
Il fatto che, nonostante incontrovertibili dati farmacologici, il consumo di cannabis resti illegale e severamente punito in paesi scientificamente avanzati, non costituisce soltanto un esempio particolare della universale irrazionalità che governa gli affari umani. È anche un segnale, grave, dell'impotenza della scienza moderna di fronte a problemi sociali che pure essa sarebbe chiamata, se non a risolvere, almeno ad alleviare. Nel caso della cannabis, se considerazioni d'opportunismo accademico hanno un ruolo importante nel determinare un atteggiamento di "non-ingerenza" da parte del mondo della scienza, un ruolo piú sottile ma un peso forse maggiore ha la cartesianissima visione del mondo che spinge il ricercatore a preferire, come Ercole al bivio, il cammino "oggettivo" della res extensa a quello "soggettivo" della res cogitans. Ma ciò che piú vale la pena di sapere sull'attività superiore del sistema nervoso centrale (e la cannabis rientra, nel suo piccolo, in questa categoria) richiederebbe, anziché il divorzio, l'unione tra la conoscenza oggettiva del mondo naturale, il piú grande portato della rivoluzione galileiana, e quella lucida simpatia che chiunque voglia conoscere deve provare per l'oggetto della propria conoscenza (ma questa è un'altra storia, che Goethe aveva cominciato a scrivere e che scienziati e filosofi ricominciano ora a discutere).
Al mondo, comunque sia, non ci sono solo scienziati e filosofi. Tra gli altri, vi si trovano anche gli economisti: una categoria di gente pratica, che bada al sodo, soprattutto se educati nella City. Nell'articolo che segue, un ignoto redattore dell'Economist traccia degli inattesi prolegomeni a ogni futuro discorso sulla cannabis, e impartisce nello stesso tempo una lezione di creatività scientifica a tutta la Facoltà Neurofarmacologica.
"Portare le droghe all'interno della legge", The Economist, maggio 1993
Nel 1883, l'insigne medico britannico Benjamin Ward Richardson denunciò i mali del bere tè. Affermò che questa bevanda causava una "condizione estremamente nervosa, semi-isterica". Nel 1936, un articolo apparso sull'American Journal of Nursing sosteneva che il consumatore di marjiuana "si può rivolgere improvvisamente con violenza assassina su chiunque gli è piú vicino". Tè e marjiuana hanno tre cose in comune: alterano l'umore, sono considerati passabilmente innocui, e producono dipendenza fisica. [Come abbiamo visto, quest'affermazione non è del tutto esatta: bisogna perdonarla a un economista che scrive di farmacologia.]
Gli atteggiamenti nei confronti della dipendenza fisica sono complicati e spesso contraddittori. Il tè e la marjiuana sono, in sé, abbastanza inoffensivi, eppure il tè è generalmente legale, la marjiuana no. Il tabacco e la cocaina sono nocivi ma, ancora una volta, il tabacco è quasi universalmente permesso, mentre la maggioranza dei lettori di The Economist vive in paesi che puniscono con la prigione il possesso di cocaina. Aggiungete l'imprevisto di dipendenze fisiche che non provengono da siringhe o da sigarette, ma da casinò e da dischetti per il computer, e avrete una bella arena di combattimento fra libertari e puritani.
Questa battaglia, sempre vivace, è appena diventata piú accesa. Il 28 aprile [1993], Bill Clinton ha nominato nuovo "zar della droga" d'America, e perciò leader mondiale del piú duro programma di proibizione al mondo, l'ex-poliziotto Lee Brown. Dieci giorni prima, gli italiani avevano votato per muoversi in una direzione opposta, eliminando dalla loro legislazione sulla droga le misure piú severe.
Un tale coraggio è raro. L'atteggiamento della maggior parte degli elettorati e dei governi è quello di deplorare i problemi che il commercio illegale di droga porta con sé, di guardare alla cosa con avversione, e di sedere sullo status quo - cioè su una politica di proibizione indiscriminata. ... Eppure la maggioranza dell'opinione pubblica recalcitra di fronte alla possibilità di esplorare nuove strade legali per ridurre tali effetti. Questo rifiuto è dovuto in parte a un'avversione per la dipendenza fisica in sé stessa, un argomento tirato in ballo spesso con incoeren
za. La disapprovazione piú decisa viene da quelli che gridano di libertà civili se i loro piaceri favoriti - per esempio, i fucili da guerra - sono messi in pericolo. La dipendenza fisica da sigarette è riconosciuta come la principale causa evitabile di morte al mondo. L'alcool priva i beoni dei loro fegati e della loro memoria, e causa la morte di troppi innocenti che vengono uccisi sulla strada da guidatori ubriachi. Eppure, in questi casi l'idea di dissuadere all'interno della legge è largamente accettata. Una ragione piú fondata di dubbio è la preoccupazione che la legalizzazione potrebbe causare un aumento del consumo di droga, e che quest'ultimo potrebbe schiacciare ciò che si potrebbe guadagnare dal portare le droghe all'interno della legge. Eppure, legalizzazione non vuol dire libertà di consumo sfrenato, senza limiti sulla fornitura o l'uso di droghe. Messa in pratica con misura, essa permetterebbe ai governi di strappare dalle mani dei criminali il controllo della distribuzione e della qualità di queste sostanze. ll controllo di qualità è decisivo, perché molti dei danni prodotti da droghe acquistate per la strada sono causati da prodotti adulterati, come un alcolico mal distillato può produrre cecità ... Una legalizzazione di questo genere non permetterebbe, magicamente, di fare a meno dei poliziotti, ma renderebbe piú maneggevole il loro compito. In particolare nel campo delle droghe leggere, dove le tasse possono essere piú lievi e le restrizioni meno onerose, e dove i primi esperimenti di legalizzazione dovrebbero aver luogo, essa ridurrebbe quella "indennità di rischio" che assicura ai cartelli della droga il loro profitto. Le tasse riscosse su quella che è considerata oggi la maggiore industria al mondo esente da imposte potrebbero essere utilizzate dai governi per la cura della tossicomania e per l'educazione, impieghi molto piú redditizi degli attuali tentativi di soffocare ogni genere di rifornimento criminale.