Ai coraggiosi autori delle testimonianze Il rifiuto di ogni fonte di evidenza Prefazione Quando cominciai a occuparmi della marijuana nel
1967, non dubitavo che si trattasse di una droga molto nociva che,
sfortunatamente, veniva usata da un numero sempre maggiore di giovani
incoscienti che non ascoltavano o non potevano capire i moniti sulla sua
pericolosità. La mia intenzione era di descrivere scientificamente la natura e
il grado di questa pericolosità. Nei tre anni successivi, mentre passavo in
rassegna la letteratura scientifica, medica e profana, il mio giudizio cominciò
a cambiare. Arrivai a capire che anch'io, come molte altre persone in questo
paese, ero stato sottoposto a un lavaggio del cervello. Le mie credenze circa la
pericolosità della marijuana avevano scarso fondamento empirico. Quando
completai quella ricerca, che ha rappresentato la base per un libro, mi ero
ormai convinto che la cannabis fosse considerevolmente meno nociva del tabacco e
dell'alcol, le droghe legali di uso più comune. Il libro fu pubblicato nel 1971;
il suo titolo, Marihuana Reconsidered, rifletteva il mio cambiamento di
vedute. [...] Nonostante l'illegalità della marijuana e i
pregiudizi contro di essa, un gran numero di americani continua a fare uso
regolare di Cannabis. Se una volta era considerato un divertimento dei giovani o
l'espressione di una ribellione giovanile, il consumo d marijuana è ormai una
pratica comune fra gli adulti. Milioni di persone hanno fumato marijuana per
anni e molti di loro continueranno a fumarne per il resto della loro vita.
Queste persone sono convinte di non fare del male né a se stessi né a nessun
altro, esattamente come ne sono convinti i fumatori e i
bevitori. [...] Nel nostro secolo l'utilità della cannabis come
rimedio contro molti sintomi e disturbi è stata ora ipotizzata, ora dimostrata.
Le possibilità di impiego della cannabis spaziano da quelle accertate a quelle
ipotetiche, ma tutte dovrebbero risultare interessanti a chiunque si occupi
della sofferenza umana. I racconti dei pazienti descrivono nel modo più colorito
non solo le proprietà terapeutiche della marijuana, ma anche le ulteriori pene e
ansie che vengono inutilmente inflitte ai malati, costretti a procurarsela
illegalmente. La chemioterapia è una delle più importanti cure del cancro sviluppate nei
decenni scorsi. Somministrati per via endovenosa una o due volte al mese, gli
agenti chemioterapici sono tra i prodotti chimici più potenti e tossici usati in
medicina. Nell'attaccare le cellule del cancro, uccidono anche le cellule sane
dell'organismo, generando effetti collaterali estremamente spiacevoli e
pericolosi. Tra gli agenti chemioterapici di uso più comune vanno annoverati il
cisplatino (Platinol@), la doxorubicina (Adriamycin@), il ciclofosfamide
(Cytoxan@), l'ifosfamide (Ifex@), nonché i farmaci derivati della mostarda
azotata, tra i quali il melfalan (Alkeran@) e il clorambucile
(Leukeran@). All'inizio del 1972, dopo la morte di Sidney Farber, l'oncologo di Harvard
al quale era stato intitolato il Centro per la Ricerca sul Cancro "Sidney
Farber", mia moglie e io fummo invitati a pranzo a casa di un collega, membro
del corpo docente della Harvard MedicaI School. Egli voleva che io incontrassi
Emil Frei, che era arrivato da Houston per entrare in servizio come successore
del dottor Farber. Arnold e Mae Nutt, ora settantenni, hanno cresciuto tre figli a Beaverton,
Michigan. N el1963 si scoprì che il secondo figlio Dana, che aveva da poco
compiuto cinque anni, aveva un tumore al midollo osseo. Dopo l'intervento
chirurgico fu sottoposto alla chemioterapia e all'esposizione a radiazioni per
tre mesi. Le cure lo fecero stare molto male ma non arrestarono la propagazione
del tumore, ed egli morì nel 1967. Per anni, la famiglia Nutt lottò per
riprendersi dalla disperazione e dalle difficoltà economiche causate dalla
malattia di loro figlio. Poi, nel 1978, il loro primogenito Keith, di ventidue
anni, contrasse un tumore ai testicoli. Mae Nutt racconta la sua storia: I chirurghi operarono Keith, rimuovendo il testicolo malato e un gran
numero di linfonodi. Credevano di aver estratto tutto il tumore. Keith fece
uno sforzo risoluto per mantenersi attivo. Riprese a lavorare, e sembrava che
tutto stesse andando bene quando, nove mesi più tardi, si accorse che l'altro
testicolo si era indurito e ingrossato. I chirurghi glielo rimossero
immediatamente e gli dissero che avrebbe avuto bisogno anche di una
chemioterapia intensiva. Gli diedero il cisplatino, un nuovo farmaco altamente
tossico che lo fece stare malissimo. Era solito vomitare violentemente per
otto-dieci ore, dopodiché era così profondamente nauseato che non riusciva a
sopportare la vista o l'odore del cibo. Compazine e altri farmaci antiemetici
non gli arrecavano alcun beneficio apprezzabile. Sei mesi dopo il matrimonio, celebrato nel 1969, il marito di Mona Taft,
Harris, si accorse di avere un gonfiore sul collo. Una biopsia effettuata al
Massachusetts GeneraI Hospital di Boston rivelò il morbo di Hodgkin, un
linfogranuloma maligno. Mona Taft racconta quanto accadde: Al momento della diagnosi, Harris era gravemente ammalato ma non mostrava
ancora i sintomi avanzati, più evidenti, del morbo di
Hodgkin. Un'ultima testimonianza sulle proprietà della cannabis come antiemetico
viene da Stephen Jay Gould, Professore Emerito di Geologia all'Università di
Harvard e autore di molti libri e saggi, di grande valore e risonanza,
sull'evoluzione biologica. Faccio parte di un gruppo molto piccolo, molto privilegiato e molto
selezionato: i primi sopravvissuti a una forma di cancro un tempo
incurabile, il mesotelioma addominale. La nostra cura prevedeva un insieme
accuratamente bilanciato di tutte e tre le terapie convenzionali, cioè
chirurgia, radiazioni e chemioterapia. Non molto piacevole, d'accordo, ma
considerate l'alternativa. Dal 1985 gli oncologi sono stati legalmente autorizzati a somministrare THC
sintetico per via orale sotto foffi1a di pillole (Marinol@); nel 1989 sono
state prescritte quasi 100.000 dosi. Ma fumare la cannabis può essere
preferibile per una serie di ragioni. Il THC assunto per via orale viene
assorbito dal sangue in modo irregolare e con lentezza. Inoltre un paziente
afflitto da forte nausea, che vomita costantemente, può trovare quasi
impossibile tenere la pillola giù, nello stomaco. Il glaucoma è un disturbo che si origina da uno squilibrio di pressione
all'interno dell'occhio. Il bulbo oculare deve essere quasi perfettamente
sferico per far convergere correttamente la luce sulla retina. La sua forma
viene stabilizzata dalla pressione di un fluido interno, l'umore acqueo. Se
l'occhio produce una quantità eccessiva di questo fluido, o se i condotti
attraverso i quali il fluido defluisce sono bloccati, la pressione crescente
può danneggiare il nervo ottico, che porta gli impulsi dall'occhio al
cervello. II glaucoma affligge l'1,5% della popolazione (statunitense,
N.d.T.)* al cinquantesimo anno di età, e circa il 5% al settantesimo. Se si
esclude la degenerazione della retina in età avanzata, il glaucoma è la
principale causa di cecità negli Stati Uniti e provoca ilIO% dei casi
manifestatisi in età adulta. La maggior parte dei casi di glaucoma rientra nel
tipo "cronico ad angolo aperto" o "cronico semplice", in cui i condotti si
restringono gradualmente e la pressione all'interno lentamente si innalza. La
conseguente perdita di visione periferica può passare inosservata fino a
quando la malattia non ha ormai raggiunto uno stadio avanzato. Una diagnosi
immediata e un'accurata osservazione che prevede frequenti controlli della
pressione intraoculare, sono condizioni necessarie per evitare danni
irreversibili. Nella fase nota come "glaucoma terminale" il paziente ha ormai perso gran
parte della vista, le sue condizioni peggiorano, i farmaci convenzionali non
hanno più effetto e la cecità è imminente. L'autore del seguente resoconto,
Robert Randall, aveva raggiunto questo stadio quando cominciò a fumare
marijuana regolarmente. Egli aveva fatto uso di tutti i farmaci disponibili
nelle massime dosi consentite, eppure la sua pressione intraoculare era
rimasta pericolosamente alta. Se non si fosse tentato qualcosa di nuovo,
sarebbe diventato cieco. Elvy Musikka è una donna sulla quarantina che vive
a Hollywood, Florida. Questa è la sua storia: Alla fine di febbraio del 1975 fui visitata dal dottor Rosenfeld, un
medico generico della zona di Fort Lauderdale. Egli mi sottopose a un esame
completo, dopodiché disse che i miei occhi erano stati colpiti da glaucoma.
La pressione [del fluido intraoculare] era ben sopra il 40 [una pressione
normale è attorno a 15], e il dottor Rosenfeld insistette perché andassi
immediatamente da un oftalmologo. I suoi sospetti furono confermati e io
cominciai la cura con un collirio a base di pilocarpina. Nella primavera del
1976 la pilocarpina era ormai diventata di per sé un problema. Cominciai a
vedere dei cerchi, ma supposi che fossero un sintomo del glaucoma. Portare
le lenti a contatto era fastidioso e la mia pressione intraoculare stava
salendo. Un altro dottore mi suggerì di provare la marijuana perché era
probabile che altrimenti sarei diventata cieca. Mi disse questo come amico,
non come medico; fu allora che cominciai a rendermi conto che alle volte
i dottori devono scegliere tra il giuramento di Ippocrate e delle leggi
ipocrite. Per mia grande fortuna, quell'uomo aveva un cuore. L'epilessia è una condizione in cui determinate
cellule cerebrali (il focolaio epilettogeno) diventano eccitabili in misura
anormale ed emettono spontaneamente impulsi incontrollati, provocando una
crisi. Nel grande male o epilessia generalizzata, le cellule anormali si
trovano su entrambi i lati del cervello e l'emissione degli impulsi nervosi
causa convulsioni (violenti spasmi muscolari). Nelle crisi di assenza o di
piccolo male, l'emissione generalizzata degli impulsi nel cervello provoca una
momentanea perdita di conoscenza senza convulsioni. Le crisi parziali sono il
risultato di un'emissione anomala di impulsi nervosi in una regione
localizzata dell'encefalo; possono avvenire con o senza un'alterazione dello
stato di coscienza. Un uomo di 24 anni è stato tenuto sotto controllo medico in una clinica
neurologica per un periodo di otto anni senza ricovero, allo scopo di
contrastare le sue crisi epilettiche. La sua storia comprendeva
convulsioni febbrili all'età di tre anni e crisi di epilessia a partire dai
16 anni. Da quel momento il paziente ha preso difenilidantoina sodica
(fenitoina), 100 mg quattro volte al giorno, e fenobarbitale, 30 mg quattro
volte al giorno. Anche a questo regime, il contenimento degli attacchi
epilettici era incompleto e il paziente accusava una crisi all'incirca ogni
due mesi. Dai 16 ai 22 anni la frequenza delle crisi era aumentata da una al
mese a una alla settimana. In uno studio successivo, a sedici pazienti affetti
da grande male che non stavano ottenendo buoni risultati dalle cure, furono
somministrati da 200 a 300 milligrammi di cannabidiolo di placebo in aggiunta
ai loro farmaci antiepilettici. Dopo cinque mesi, tre dei pazienti trattati
con cannabidiolo mostravano un recupero completo, due presentavano
miglioramenti parziali e due denotavano un miglioramento ridotto; uno era in
condizioni stazionarie. L'unico, leggero effetto collaterale fu sedativo. Tra
i pazienti cui era stato somministrato il placebo, solo uno era migliorato
sensibilmente mentre sette erano stazionari. .I ricercatori conclusero che per
alcuni pazienti il cannabidiolo, combinato con antiepilettici convenzionali,
può essere utile nel contenimento degli attacchi epilettici. Non si sa se il
cannabidiolo sia benefico, in forti dosi, anche da
solo. Nel 1972, all'età di trentasette anni, scoprii che la marijuana curava un
disturbo che mi aveva afflitto sin dagli anni dell'adolescenza e per il
quale sembrava non fosse disponibile alcun medicinale legale. Poco dopo
quella scoperta diventai un consumatore abituale. Oggi, siccome mi trovo a
disagio a causa dei rischi legali che si corrono facendo uso di marijuana,
sono deciso a trovare un altro modo per affrontare il mio
problema. Gordon Hanson è un uomo di cinquantatre anni che
soffre sia di grande male, sia di crisi di assenza. Questi sintomi venivano
parzialmente contenuti per mezzo di farmaci convenzionali, in particolare
fenitoina (Dilantin@), primidone (Mysoline@) fenobarbitale, che però
comportavano gravi effetti collaterali È molto più piacevole per me ricordare gli anni prima del conseguimento
del diploma superiore piuttosto che pensa re a quello che accadde in quel
freddo giorno di settembre del 1956. I venti da Nord sollevavano le foglie
secche mentre io mi affrettavo ad andare a riempire il mio secchio di
mirtilli colar rosso vivo, correndo verso il tramonto di un giorno più breve
di quello che l'aveva preceduto. Le mie emozioni erano contrastanti; era la
prima stagione in cui sarei stato libero dagli impegni scolastici, ma ero
incerto sul mio futuro. La sclerosi multipla (SM) è una malattia in cui
porzioni di mielina (la guaina protettiva delle fibre nervose) del cervello e
del midollo spinale vengono distrutte, così che il normale funzionamento delle
fibre nervose viene interrotto. Sembra che si tratti di una reazione
autoimmunitaria, nell'ambito della quale il sistema di difesa dell'organismo
tratta la mielina come una sostanza estranea. Di solito i sintomi compaiono
all'inizio dell'età adulta e da quel momento vanno e vengono imprevedibilmente
per anni. Gli attacchi durano da settimane a mesi e la temporanea guarigione è
spesso incompleta, con un deterioramento progressivo e con il risultato finale
di una grave infermità. Ferite, infezioni o sforzi possono provocare ricadute.
Il periodo medio di sopravvivenza è di trent'anni, ma alcuni pazienti
subiscono un deterioramento molto più rapido, mentre altri si stabilizzano
dopo pochi attacchi. L'uso della marijuana nella cura della sclerosi
multipla è descritto in questa testimonianza di Greg Paufler, un uomo di
trentasette anni che abita sulle colline alla periferia di New York: Nel 1973 avvertii una sensazione di torpore al pollice sinistro, che
cominciò a diffondersi al resto della mano. Parlai di questi sintomi a un
dottore, che mi diagnosticò Oggi, la maggior parte dei malati di SM negli Stati Uniti viene a sapere
degli effetti benefici della marijuana grazie ai gruppi di sostegno o al
passaparola. Molti aneddoti testimoniano la sua capacità di lenire i tremori e
la perdita di coordinazione muscolare. Spesso i neurologi ne vengono a
conoscenza dai loro pazienti. A tutt'oggi la letteratura medica comprende
soltanto pochi casi, come il seguente, riportato nel 1983: Un uomo di trent'anni soffriva di SM da dieci anni, con fasi alterne di
esacerbazione e remissione, che avevano causato paraparesi, diplopia,
atassia, torpore e pareste sia in tutti gli arti, ritenzione dell'urina,
incontinenza e impotenza. Le cure mediche avevano comportato l'uso di ACTH,
corticosteroidi e azatioprina. Un tremore disabilitante era stato un
problema costante per più di un anno. Il tremore più intenso era localizzato
nel capo e nel collo e arrecava particolari problemi alla nutrizione, poiché
aumentava di intensità quando ci si sforzava di introdurre del cibo in
bocca. Il tremore diminuiva, ma non cessava, quando il paziente stava supino
e la sua testa veniva sorretta; scompariva con il sonno. Le cure con
diazepam, alcol, propranololo e fisostigmina furono tutte senza successo.
Figura 1. Prove calligrafiche e rappresentazione grafica dei movimenti
della testa, Un altro rapporto recente è stato pubblicato da
alcuni neurologi dell'Università di Gottingen in Germania, che avevano notato
che uno dei loro pazienti, un uomo di trent' anni affetto da sclerosi
multipla, faceva uso di sigarette di marijuana per curare i suoi handicap
motori e sessuali. Essi lo misero alla prova con analisi cliniche, analisi
elettromiografiche dei riflessi delle gambe e registrazioni elettromagnetiche
dei suoi tremori alle mani (figura 2). La loro conclusione fu che la cannabis
meritava una maggiore considerazione come cura sia degli spasmi muscolari, sia
dell'atassia (perdita di coordinazione). Figura 2. Registrazione elettromagnetica del tremore da contrazione
muscolare che interessa le dita e la mano in un e,esercizio di indicazione
condotto alla mattina, prima di aver fumato una sigaretta di marijuana, e alla
sera, dopo averla fumata. Debbi Talshir è una donna divorziata di trentanove anni che per quattordici
anni ha curato la sua sclerosi multipla grazie alla La sclerosi multipla mi fu diagnosticata nel 1977. Uno dei suoi primi
sintomi fu la nevrite ottica. Il nervo ottico collega il cervello
all'occhio, e la nevrite ottica è una degenerazione di quel collegamento.
Può causare una parziale cecità. Dapprima una grande nuvola comparve nel mio
campo visivo e cominciai a non vederci più bene; poi la nuvola nell'occhio
destro diventò nera. Il caso di una paziente la cui perdita di coordinazione muscolare si era
rivelata un sintomo precoce della sclerosi multipla ci è stato sottoposto dal
suo psichiatra. Per diversi anni, questi aveva cercato di indurla ad
abbandonare l'abitudine di fumare la modica quantità di marijuana di cui lei
si serviva, all'ora di andare a letto, per scongiurare la sua insonnia
cronica. Dopo averla convinta a smettere, egli venne da noi a chiedere
consigli quando si rese conto che la cannabis aveva sempre tenuto nascosti i
sintomi della sclerosi multipla, che non le era mai stata diagnosticata in
precedenza; l'atassia si presentò quando lei smise di fumare e scomparve
quando lei riprese. Lo psichiatra era preoccupato perché pensava che la
marijuana fosse altamente tossica; gli assicurammo che non lo era, e questo lo
sollevò dai suoi timori. La sua paziente racconta la sua storia: Finalmente ero arrivata dove volevo. Alle carenze della mia istruzione
avevo sopperito con lunghe ore di duro lavoro e con l'aiuto del capo che
tutte le giovani donne d'affari sognano. A vendo cominciato a ventun anni
come l'impiegata peggio retribuita in una piccola società della mia città,
mi ritrovavo ora, a quarantacinque anni, a essere uno degli amministratori
finanziari di un 'impresa di elettronica con un fatturato da miliardi di
dollari. Da questo caso e da altri emergono allusioni al
fatto che la cannabis non solo attenui i sintomi della sclerosi multipla
spasmi muscolari, tremori, perdita di coordinazione muscolare (atassia) e
incontinenza urinaria, insonnia -ma ritardi anche la progressione della
malattia. La sclerosi multipla è un disturbo causato da un sistema immunitario
sovreccitato; le cure convenzionali prevedono l'uso di steroidi che sopprimono
le funzioni immunitarie. Sebbene la marijuana apparentemente non accresca la
suscettibilità alle malattie infettive, ci sono evidenze del fatto che il THC
abbia un effetto immunodepressivo. Tenendo in mente questo dato, un gruppo di
ricercatori ha messo alla prova la propria capacità di scongiurare
l'encefalomielite allergica sperimentale (EAE), una malattia che è stata usata
come modello di laboratorio della sclerosi multipla sui porcellini d'India.
Quando gli animali venivano esposti alla malattia e poi curati con un placebo,
tutti sviluppavano gravi forme di EAE e più del 98% moriva. Gli animali curati
con il THC avevano sintomi molto blandi o assenti, e più del 95% sopravviveva.
A un attento esame, il tessuto cerebrale degli animali curati con il THC si
era rivelato molto meno infiammato. La paraplegia è una forma di indebolimento o di
paralisi dei muscoli nella metà inferiore del corpo, provocata da affezioni o
lesioni nella parte mediana o inferiore del midollo spinale. Se la lesione è
localizzata vicino al collo, anche le braccia ne sono affette quanto le gambe,
e si manifesta la quadriplegia. Paraplegia e quadriplegia sono spesso
accompagnate da dolori e spasmi muscolari; le cure convenzionali sono a base
di oppiacei per i dolori, di baclofene e diazepam per gli spasmi muscolari.
Molti paraplegici e quadriplegici hanno ormai scoperto che la cannabis non
solo allevia i loro dolori in modo meno pericoloso di quanto non facciano gli
oppiacei, ma elimina con efficacia i loro tremori e tic muscolari. Nel giugno del 1989, avevo ventisette anni ed erano cinque anni e mezzo
che lavoravo, con successo, come tecnico del settore industriale: vendevo
apparecchiature pneumatiche e per l'automazione a fabbriche e industrie
manifatturiere. Per diversi anni, a fasi alterne, avevo fatto uso di mari
juana per distendermi. Dopo una lunga, faticosa giornata ero solito
rincasare, cenare con la mia ragazza, fumare marijuana e rilassarmi.
Abitualmente passavo la serata nel mio studio di casa, e trovavo che fumare
marijuana non solo mi distendeva ma mi aiutava anche a concentrarmi sul
lavoro. Chris Woiderski riferisce che la marijuana gli
permetteva di raggiungere un'erezione normale. Un rapporto tratto dalla
letteratura medica conferma questo effetto. In America l'epidemia di AIDS balzò all'attenzione
generale per la prima volta nel 1981, quando si scoprì che cinque omosessuali
di Los Angeles avevano sviluppato un'immunodeficienza misteriosa e profonda
che veniva sfruttata da infezioni opportuniste (microrganismi normalmente
innocui che però diventano pericolosi quando il sistema immunitario è
indebolito). Nel 1984 il virus dell'immunodeficienza umana (HIV) fu
riconosciuto come la causa dell'AIDS. Fino a oggi più di 150.000 americani
sono morti di questa malattia; circa 2 milioni sono infetti dal virus
("sieropositivi", N.d.T.) e forse 250000 sono malati conclamati. Sebbene la
diffusione dell'AIDS tra gli omosessuali sia rallentata, la riserva di malati
potenziali è così vasta che il numero dei casi sicuramente aumenterà. Donne e
bambini, tanto quanto uomini sia eterosessuali sia omosessuali, oggi ne sono
colpiti; la malattia si sta propagando con la massima rapidità tra i
tossicodipendenti che fanno uso di siringhe, e in particolare tra quelli di
colore e latino-americani delle aree urbane degradate, oltre ai partner con
cui hanno rapporti sessuali. Il 19 ottobre 1983 scoprii di avere l'epatite B.
Era già da un po' che notavo un'inserzione a tutta pagina sulla rivista Gay
Chicago, ma evitavo di leggerla perché sembrava troppo deprimente
(raffigurava un uomo in ospedale che veniva nutrito con la flebo). Quando
alla fine cedetti e la lessi, scoprii che si trattava di una lettera aperta
indirizzata alla comunità gay dalla Liver Foundation del New Jersey. Diceva
che due terzi dei maschi gay, che lo sapessero o no, avrebbero prima o poi
contratto l'epatite B (questo accadeva molto tempo prima del "sesso
sicuro"). Il cinquanta per cento delle persone contagiate dal virus
manifesta dei sintomi, alcuni leggeri, alcuni gravi. Il novanta per cento
sviluppa anticorpi dopo un'infezione e non è più soggetto a contagio; il 1O
per cento diventa portatore e il 2 per cento muore. L'inserzione diceva che
era disponibile un vaccino. Così, la prima volta che ebbi occasione di
andare alla clinica gay VD, chiesi all'impiegato dell'accettazione di fare
un esame degli anticorpi. Venne fuori che avevo proprio quell'infezione. Era
troppo tardi per la vaccinazione. In quel momento compresi perché mi sentivo
nauseato, vomitavo spesso e mi stancavo facilmente. Sebbene non avessi
appetito, il dottore mi disse che dovevo mangiare. Siccome avevo una
malattia al fegato, naturalmente smisi di bere (non avevo mai bevuto molto
comunque) e a quel punto cominciai a fumare marijuana più spesso. Mi accorsi
che il mio appetito aumentava enormemente dopo che avevo fumato. Cominciai a
fumare tutti i giorni e guadagnai peso con rapidità. Due anni dopo non avevo
ancora Prodotto gli anticorpi e fui ufficialmente classificato come
portatore di epatite. Un prodromo dell'AIDS è il complesso di sintomi
correlati all'AIDS, o ARC. I suoi sintomi comprendono rigonfiamento dei
linfonodi, febbre, nausea, diarrea, dolori ed esaurimento. l'ARC può durare
molto tempo, oppure evolvere rapidamente nell'AIDS. Quando il "dottor Z", un
medico che soffriva di ARC, cominciò una terapia con AZT circa due anni fa, il
suo CBC (conteggio completo delle cellule ematiche,N.d.T.), il conteggio dei
linfociti T, gli LFT (esami delle funzioni epatiche) e altri parametri
immunologici si stabilizzarono. Sfortunatamente, cominciò anche a soffrire di
gravi forme di nausea e diarrea (da otto a dodici attacchi di diarrea al
giorno). Il suo medico personale gli prescrisse prometazina e proclorperazina
contro la nausea; argilla caolinitica, difenossilato con atropina, loperamide
e ranitidina contro la diarrea e l'iperattività dell'apparato
gastrointestinale. Nessuno di questi medicinali ebbe un effetto adeguato. Poi
il dottor Z scoprì che piccole quantità di cannabis, fumate nell'arco di tutta
la giornata, eliminavano completamente la nausea e riducevano il numero degli
attacchi di diarrea a due o tre al giorno, senza bisogno di prendere nessun
altro farmaco. Egli aveva risentito anche di un grave esaurimento che
interferiva con molte attività quotidiane. La cannabis placò anche questo
stato di esaurimento. Di seguito riportiamo il suo resoconto: A causa dell'isterismo irragionevole che ha
contagiato gli Stati Uniti per quanto riguarda l'AIDS e la guerra alla
droga, ho scelto di rimanere anonimo. Sono un medico malato di ARC e
credo che la marijuana riesca ad alleviare meglio di ogni altra sostanza
molti dei disturbi associati all'AIDS. Alcune informazioni preliminari
sono necessarie per porre questa discussione in una prospettiva corretta.
Come molti altri, ho provato la marijuana per la prima volta in college.
Quell'esperienza mi era piaciuta, ma un laureando in medicina in un
rispettato college della Ivy League aveva poco tempo per simili distrazioni.
In tutto, avrò fumato probabilmente meno di una dozzina di volte in college.
La MedicaI School, l'internato e il tirocinio seguirono senza che io facessi
ulteriore uso di marijuana. Poi avviai un'attività nella piccola cittadina
dove vivo ancora oggi, anche se non sto più esercitando la
professione. Poiché la marijuana è illegale, il dottor Z ha
deciso di cercare di ottenere una prescrizione di dronabinolum (Marinol@). Si
rivolse al suo medico personale, che sapeva poco sul dronabinolum ed era
riluttante a prescriverlo per paura della "dipendenza" e della possibile
"euforia". Alla fine, compilò una prescrizione di 5 mg al giorno, metà della
dose raccomandata da un rappresentante dell'industria farmaceutica che produce
il Marinol. Ci sono voluti dieci anni perché l'opinione pubblica si rendesse
conto di quanto sia grave la pericolosità dell'epidemia da HIV.
Sfortunatamente, potrebbero volerci altri dieci anni perché i medici prendano
atto delle possibili cure. Nelle loro forme più gravi, i dolori cronici vengono curati con narcotici
derivati dall'oppio e con vari analgesici sintetici, ma queste sostanze
presentano numerose limitazioni. Gli oppiacei inducono dipendenza e
determinano l'insorgere del fenomeno della "tolleranza"; gli analgesici
sintetici che non inducono dipendenza spesso non sono abbastanza efficaci. Ci
si sarebbe potuti aspettare che gli specialisti di questi dolori dessero
un'altra chance alla cannabis, ma ancora una volta la letteratura medica
indica una scarsa riconsiderazione fino al 1975, quando all'Università dello
Iowa fu condotto uno dei pochi esperimenti moderni sull'impiego della cannabis
nella cura dei dolori. I ricercatori di quell'istituto somministrarono a caso
THC in pillole e placebo a malati di cancro ricoverati in ospedale, che
soffrivano di forti dolori. Il THC attenuava i dolori per diverse ore anche
con dosi modeste come 5+ lO mg, e per tempi anche più lunghi con dosi di 20
mg. In questa dose e in questo contesto, il THC dimostrò di avere anche un
effetto sedativo. Inoltre, comportava effetti collaterali sul fisico minori
rispetto ad altri analgesici di uso comune. Ho goduto di un'infanzia normale fino all'età di dieci anni. Poi, un
giorno, mentre stavo giocando a baseball nella Little League, mi capitò di
eliminare un avversario nella prima parte della partita, per poi rimanere
col braccio paralizzato per un po' di tempo. L'incidente preoccupò i miei
genitori, così ci rivolgemmo al nostro medico di famiglia, che mi fece una
radiografia al braccio. La radiografia sembrava mostrare una frattura che
fosse guarita lasciando dei frammenti scheggiosi di osso. Non aveva senso;
non mi ero mai rotto il braccio. Il dottore mi mandò da un ortopedico, che
rimase altrettanto perplesso e mi affidò all'Ospedale dei Bambini di Boston.
Dopo una lunga serie di analisi, i medici di quell'ospedale conclusero che
soffrivo di esostosi multiple cartilaginee: una malattia rara, a causa della
quale le ossa sviluppano piccole protuberanze o speroni che crescono o
all'esterno, nelle fibre muscolari e nervose circostanti, o all'interno,
dentro l'osso stesso. Nel 1988 mi sono sottoposta a un intervento
chirurgico a causa di un tumore maligno al cervello, un oligodendroglioma.
Il nome è altrettanto opprimente quanto ciò che comporta. L'ironia più grande, per chi condanna l'uso della
cannabis nell'attenuazione del dolore, è che le migliori alternative sono
oppiacei capaci di indurre dipendenza e talora debilitanti. Una donna che ci
ha descritto il suo caso soffre di meloreostosi, una malattia rara e
incurabile che comporta forti dolori alle articolazioni. Quando ebbe i primi
sintomi di questo male, il suo medico le prescrisse dosi massicce di Darvocet,
una combinazione di propossifene (un oppiaceo sintetico) e Tylenol #3 (codeina
e acetamminofene). La donna aveva bisogno anche di quindici Darvocet al giorno
per alleviare i suoi dolori, finché non cominciò a fumare marijuana. Ha così
scoperto che "fumando marijuana, non appena i dolori si presentano, riesco a
farli cessare. Altrimenti aumentano di intensità molto in fretta; comincio a
sentirmi nauseata e ho sudori caldi e freddi, dovuti semplicemente al dolore".
Normalmente, riesce a contenere i dolori con uno o due spinelli al giorno. "Ma
è un articolo da mercato nero, e quando paghi una media di 75 $ per un quarto
di oncia e hai un'entrata di soli 444 $ al mese, non ne compri molta. Sento
che non dovrei vivere come una delinquente a causa dell'ignoranza dei
politici. Sono nella condizione di dover essere terrorizzata all'idea che la
polizia venga a perquisire la mia casa. Andrò a perdere la mia casa e i miei
bambini solo perché ho trovato qualcosa che mi rende capace di affrontare il
mio male?" L'emicrania è un forte mal di testa che dura per
ore o per giorni ed è accompagnato da disturbi alla vista o da nausea e vomito
o da entrambi. Ho avuto il mio primo attacco di emicrania a scuola, quando avevo
quattordici anni. Gli effetti ottici di scintillio e tremolio, che
inizialmente mi parvero curiosi, mi logorarono la vista al punto che non
riuscivo a leggere cosa c'era scritto sulla lavagna. Chiesi il permesso di
uscire dall'aula, entrai in infermeria e vomitai per diverse ore finché mia
madre non venne a prendermi. Il sollievo dall'emicrania potrebbe essere
semplicemente un altro effetto analgesico della cannabis, ma uno studio
suggerisce che ci sia di mezzo qualcosa di più. Si è scoperto che il THC
inibisce il rilascio di serotonina dal sangue dei malati di emicrania durante
un attacco (ma non in altre occasioni). Questa conclusione necessita di
conferme e il suo significato rimane oscuro, ma potrebbe essere un indizio
utile per ulteriori ricerche. Don Spear è un uomo di cinquantadue anni di Flint, Michigan, che soffre di
dermatite atopica, una malattia infiammatoria della pelle che rappresenta
probabilmente una reazione allergica di origine sconosciuta. I sintomi sono
prurigine (forte prurito) e comparsa di chiazze di pelle infiammata,
specialmente su mani, faccia, collo, gambe e genitali. In genere la dermatite
atopica viene curata con corticosteroidi e pomate applicate sulla pelle. Gli
steroidi sono efficaci solo in parte e in ogni caso possono essere usati solo
occasionalmente durante le crisi, dal momento che il loro uso prolungato
comporta seri effetti collaterali. Gli antistaminici aiutano a contenere il
prurito, ma anche loro hanno un'efficacia limitata. Grattarsi porta a
infezioni sulle quali bisogna intervenire con antibiotici. Sono affetto da una malattia cutanea debilitante e
potenzialmente letale chiamata neurodermite atopica. Nel 1954, quando avevo
diciotto anni ed ero di guarnigione presso una base dell'esercito in Texas, mi
accorsi che la pelle attorno ai miei occhi era irritata e squamosa. Dapprima
pensai che dipendesse dal clima arido del Texas, ma poi vidi che il disturbo
si aggravava e si diffondeva ad altre parti del corpo. Nelle zone interessate
la pelle si irritava fortemente, prendeva un colore rosso cupo e cominciava a
spaccarsi. Un anno più tardi, quando l'esercito mi trasferì in Germania
occidentale, buona parte del mio corpo era coperta da aree di pelle pustolosa
di colore rosso acceso, che continuavano a spaccarsi, ricoprirsi di croste e
spaccarsi di nuovo. Queste aree diventarono infette a causa del mio continuo
grattarmi. Due applicazioni abituali della cannabis nel XIX secolo erano la cura dei
dolori mestruali e l'attenuazione delle doglie. Sebbene non esista alcuno
studio sull'argomento nella letteratura medica del XX secolo, molte donne
hanno provato la cannabis e per alcune di loro è la medicina preferita,
specialmente per il sollievo dai dolori mestruali. Sono una casalinga di trentasette anni. Gestisco una piccola attività,
faccio volontariato nella scuola di mia figlia e mi presto come
accompagnatrice nelle gite di classe. Ho l'aria di una "regolare" e molti
dei miei vicini e conoscenti non sospettano minimamente che io fumi
marijuana. Per molti anni ho sofferto di forti dolori mestruali. Nel 1976
una laparoscopia rivelò la presenza di cisti alle ovaie e endometriosi. Mi
dissero che l'endometriosi sarebbe ritornata anche dopo un'operazione, così
decisi di non fame neanche una. Feci iniezioni di ormoni per diversi mesi,
ma poi le interruppi perché avevo paura di un possibile cancro. I calmanti
che mi erano stati prescritti mi facevano sentire troppo drogata perché
potessi essere efficiente come madre. In quel periodo usavo la marijuana a
scopo ricreativo, la fumavo in gruppo con gli amici e, casualmente, scoprii
anche che attenuava i miei dolori mestruali. Oggi la maggior parte dei miei
amici non sa nemmeno che fumo; invece, non appena inizia il mio ciclo
mestruale, io mi accendo uno spinello.
raccolte in questo
libro
è sempre un tradimento verso quel
razionalismo di fondo
che sospinge in avanti la scienza al pari della
filosofia.
Alfred North WhiteheadIndice
1
Storia della cannabis
2
La cannabis come medicina
2.1
Chemioterapia neoplastica
2.1.1
1a Testimonianza - leucemia linfatica
2.1.2
2a Testimonianza - tumore al midollo osseo
2.1.3
3a Testimonianza - morbo di Hodgki
2.1.3
4a Testimonianza - mesotelioma addominale
2.2
Glaucoma
2.2.1
1a Testimonianza - glaucoma terminale Robert Randal
2.2.2
2a Testimonianza - glaucoma terminale Elvy Musikka
2.3
Epilessia
2.3.1
1a Testimonianza - crisi parziali complesse Carl Oglesby
2.3.2
2a Testimonianza - grande male e crisi di assenza Gordon Hanson
2.4
Sclerosi multipla
2.4.1
1a Testimonianza - Greg Paufler
2.4.2
2a Testimonianza - Letteratura Medica D.B. Clifford, Annals of
Neurology
2.4.3
3a Testimonianza - Letteratura Medica H.M. Meinck, P.W. Schijnle e B.
Conrad, Journal of Neurology
2.4.4
4a Testimonianza - Debbie Talshir
2.4.5
5a Testimonianza - Testimonianza Anonima di uno Psichiatra
2.5
Paraplegia e quadriplegia
2.5.1
1a Testimonianza - Chris Woiderski
2.6
AIDS
2.6.1
1a Testimonianza - Ron Mason
2.6.2
2a Testimonianza - Dottor Z (Anonimo)
2.7
Dolori cronici
2.7.1
1a Testimonianza - Irvin Rosenfeld
2.7.2 2a
Testimonianza - Karen Ross
2.8
Emicrania
2.8.1
1a Testimonianza - Carol Miller
2.9
Prurigine
2.9.1
1a Testimonianza - Don Spear
2.10
Dolori mestruali e doglie
2.10.1
1a Testimonianza - Casalinga (Anonima)
2.11 Depressione e altri disturbi
emotivi
2.12 Altri impieghi medici
2.13 In difesa delle evidenze
aneddotiche 155
3 Valutare i rischi
4 La medicina di un tempo e
del futuroPrefazione
Allora io credevo ingenuamente che, una
volta che la gente avesse capito che la marijuana era molto meno pericolosa di
altre droghe già legalizzate, avrebbe favorito la sua legalizzazione. Nel 1971
io prevedevo fiduciosamente che la cannabis sarebbe stata legalizzata per gli
adulti entro il decennio. Non avevo ancora imparato che le droghe illecite hanno
una proprietà molto strana: non sempre chi ne fa uso si comporta
irrazionalmente, mentre ciò accade sicuramente a molti non-consumatori. Invece
di rendere la marijuana legalmente disponibile agli adulti, abbiamo continuato a
criminalizzare molti milioni di americani. Circa 300.000 persone, per lo più
giovani, vengono arrestate a causa della marijuana ogni anno, e il clima
politico si è ormai deteriorato così gravemente che è diventato difficile
discutere sulla marijuana in modo aperto e libero.
Tra coloro che ne fanno uso, anzi, sono in
molti a credere che la marijuana migliori la loro vita -un argomento di cui si
sente parlare raramente su carta stampata. In più di vent'anni di ricerche ho
letto una grande quantità di materiale sui potenziali effetti nocivi della
cannabis (in gran parte assurdità) e molto poco sulle sue proprietà benefiche.
Sebbene queste proprietà presentino diversi aspetti, l'impiego medico è uno dei
più importanti ed è stato gravemente ignorato. Sono giunto alla
conclusione che se qualunque altra droga avesse rivelato simili potenzialità
terapeutiche abbinate a un simile primato di innocuità, gli specialisti e
l'opinione pubblica avrebbero dimostrato per essa un interesse molto maggiore.
La reputazione largamente immeritata della cannabis come droga nociva nell'uso
ricreativo e le conseguenti restrizioni legali hanno ostacolato il suo impiego
medico e la ricerca scientifica. Come risultato, la comunità medica è diventata
ignorante in fatto di cannabis ed è stata sia un agente, sia una vittima, nella
diffusione di informazioni sbagliate e di miti
terrificanti.
Quello che segue è per lo più
un libro di storie: questo perché la maggior parte delle testimonianze sulle
proprietà mediche della marijuana è di natura aneddotica. Un giorno si porrà
rimedio alla sistematica negligenza della comunità scientifica e gli autori di
un libro sugli impieghi medici della marijuana avranno la possibilità di
esaminare una vasta letteratura clinica. James Bakalar e io speriamo di
abbattere pregiudizi, porre rimedio all'ignoranza e contribuire a spianare la
strada per la ricerca futura esplorando gli usi terapeutici noti e potenziali di
questa notevole sostanza.
Questo libro ha due
autori e numerosi collaboratori. Molte delle persone che hanno dato il loro
contributo sono state reclutate per passaparola o perché si sono rivolte
direttamente a noi per sottoporci il loro problema, ma alcune sono giunte alla
nostra attenzione tramite le testimonianze che hanno deposto davanti a Francis
Young, Giudice Amministrativo della Drug Enforcement Administration, nel corso
delle udienze che si tennero nel 1986 per riconsiderare la classificazione della
marijuana. Robert Randall e Alice O'Leary della Alliance for Cannabis
Therapeutics ci hanno aiutato a individuare alcuni di quei pazienti. Siamo in
debito con Kevin Zeese della Drug Policy Foundation per averci fornito una
trascrizione delle udienze, e non solo per questo. Il nostro manoscritto ha
beneficiato immensamente delle letture critiche di Kenneth Arndt (dottore in
Medicina), Ann Druyan, John Gehring (dottore in Medicina), David e Betsy
Grinspoon, Norman Jaffe (dottore in Medicina), Simeon Locke (dottore in
Medicina), Susan Milmoe, CarI Sagan, Richard Schultes e Arnold S. Trebach. Nel
nostro progetto siamo stati anche aiutati in diversi modi da Peggy S. Alcorn,
Beth Banov , Del Cogswell Brebner, Elizabeth Case, Leslie Druyan, Paul Geissler,
J ames J ohnson, JeffMoore, June Riedlinger, Alexander Shulgin, Lewis L. Van
Hoosear (dottore in Medicina) e Lennice Werth. Siamo particolarmente grati a
Heather L. Erskine, che ci ha assistito con tanta competenza in ogni fase dello
sviluppo del manoscritto e il cui amorevole contegno non è mai stato messo in
crisi dal numero, apparentemente infinito, di revisioni.
Lester
Grinspoon,
dottore in Medicina1. Storia della cannabis
2 La cannabis come medicina
2.1 Chemioterapia neoplastica
Il cisplatino può causare la sordità
o forme anche mortali di insufficienza renale. L 'ifosfamide può procurare
emorragie ed ematomi; il ciclofosfamide indebolisce il sistema immunitario, la
doxorubicina può distruggere il tessuto muscolare cardiaco. I derivati della
mostarda azotata sono così tossici che corrodono la pelle o qualunque altro
tessuto incontrino. Se l'ago per iniezione endovenosa attraverso il quale
vengono inoculati perde o scivola fuori dalla vena, la ferita che ne consegue
può far sì che il paziente perda l'uso di un braccio. La maggior parte di questi
prodotti provoca anche la caduta dei capelli e ciascuno di loro può causare la
crescita di un secondo tipo di tumore mentre sopprime quello originario. Le dosi
devono essere calcolate con cura per evitare il manifestarsi di insufficienza
renale, cardiaca o respiratoria.
Tuttavia
l'effetto collaterale più comune, e per molti pazienti più fastidioso, di queste
sostanze sta nel profondo senso di nausea e nel vomito che esse provocano. Le
crisi di vomito (conati a secco), possono durare ore o addirittura giorni dopo
ogni seduta, seguiti da giorni o addirittura settimane di nausea. Nel vomitare,
i pazienti possono fratturarsi un osso o spezzarsi l'esofago. Il senso di
perdita di controllo può essere devastante sul piano emotivo. Inoltre, molti
pazienti non mangiano quasi niente perché non sopportano la vista o l'odore del
cibo. Perdendo peso ed energie, essi trovano sempre più difficile sostenere la
propria volontà di vivere.
I pazienti diventano
più apprensivi a ogni successivo trattamento. Alcuni sviluppano un riflesso
condizionato che li porta a vomitare appena entrano nella stanza dove ha luogo
la cura, o addirittura prima di raggiungere l'ospedale. Si è sentito dire che
qualche paziente abbia vomitato per riflesso incontrando per strada un membro
del suo staff medico. Se non si riesce ad arrestare la nausea e il vomito, le
reazioni dei pazienti possono indurre i dottori a ridurre le dosi e a mettere a
repentaglio l'efficacia della terapia. A molti pazienti gli effetti collaterali
della chemioterapia sembrano peggiori del cancro stesso, e così essi
interrompono la cura, non solo per eliminare il malessere ma anche per
riacquistare il controllo della propria vita. Alcuni insistono per smettere pur
sapendo che ciò significherà morte sicura. Nel caso di pazienti curabili che
rifiutano la terapia,
nausea e vomito dovrebbero essere considerati una forma
potenzialmente letale di tossicità.
Molti
pazienti, fortunatamente, traggono sufficiente sollievo da farmaci antiemetici
convenzionali come la proclorperazina(Compazine@) o il nuovo ondansetron
cloridrato (Zofran@). Ma in alcuni casi questi farmaci non hanno effetto o
cessano di averlo in breve tempo. Oggi lo Zofran è considerato il più efficace
degli antiemetici ordinari, ma deve essere somministrato per alcune ore tramite
fleboclisi mentre il paziente è ricoverato in un letto d'ospedale, a costo di
centinaia di dollari per somministrazione. Come chiaramente indicato dai
risultati dei programmi di ricerca dei singoli stati citati precedentemente, la
marijuana può supplire in modo assai efficace ai farmaci convenzionali. In uno
studio condotto su 56 pazienti che non avevano tratto benefici dagli agenti
antiemetici convenzionali, il 78% risultò libero da sintomi dopo aver fumato
marijuana.
Uno di noi (L.O.) ha avuto esperienza diretta di questo
effetto
terapeutico:2.1.1 1a Testimonianza - leucemia linfatica
A pranzo, il dottor Frei mi raccontò di un diciottenne
di Houston, malato di leucemia, che era diventato sempre più recalcitrante a
sottoporsi alla chemioterapia perché non riusciva più a sopportare la nausea e
il vomito. I suoi dottori e la sua famiglia trovavano sempre più difficile
persuaderlo a prendere il farmaco dal quale dipendeva la sua vita.
Un
giorno, con sorpresa del dottor Frei, il giovane aveva accettato volentieri di
prendere il farmaco e da quel momento in poi non aveva più fatto obiezioni
alla chemioterapia. Alla fine aveva rivelato di aver preso l'abitudine di
fumare marijuana venti minuti prima di ogni seduta. Ciò gli risparmiava non
solo le crisi di vomito, ma anche il più lieve accenno di nausea. Il dottor
Frei mi chiese se questa proprietà della cannabis fosse menzionata nella
letteratura medica del XIX secolo, e io gli risposi che lo era. Sulla via di
casa mia moglie, Betsy, che aveva ascoltato con grande interesse, suggerì che
ci procurassimo un po' di cannabis per nostro figlio, Danny.
A Danny
era stata diagnosticata per la prima volta una leucemia linfatica acuta nel
luglio del 1967, quando aveva 1O anni. Sulle prime aveva accettato di buon
grado la sua terapia all'ospedale dei bambini di Boston, e perfino le
necessità occasionali di ricovero in ospedale. Ma nel 1971 aveva cominciato a
prendere il primo di una serie di farmaci che avevano suscitato in lui forti
nausee e vomito.
Danny era uno di quei pazienti per i quali queste
reazioni sono incontrollabili e non vengono attenuate a sufficienza dagli
antiemetici ordinari. Era solito cominciare a vomitare poco dopo il
trattamento e continuava ad avere conati di vomito anche per otto ore.
Vomitava in macchina mentre lo riportavamo a casa e, una volta arrivati,
doveva stare sdraiato a letto con la testa sopra un secchio appoggiato sul
pavimento. Tuttavia, rimasi sbalordito quando Betsy suggerì di cercare della
cannabis per Danny. Feci obiezioni perché era una cosa illegale e perché
avrebbe potuto creare imbarazzo al personale dell'ospedale, che era stato così
encomiabile per il suo impegno nella cura di Danny. Scartai l'idea.
La
seduta successiva fu due settimane dopo. Quando arrivai Betsy e Danny si
trovavano già nella camera della terapia. Non dimenticherò mai la sorpresa che
provai. Normalmente mia moglie e mio figlio erano in uno stato di grande ansia
prima che la terapia cominciasse, ma stavolta erano del tutto rilassati e,
quel che più conta, sembravano quasi prendersi gioco di me.
Alla
fine mi rivelarono il segreto. Mentre erano diretti alla clinica quella
mattina, si erano fermati vicino alla Scuola Superiore Wellesley, e Betsy
aveva chiesto a uno degli amici di Danny di procurarle un po' di marijuana.
Una volta riavutosi dallo sbalordimento, l'amico era corso via ed era
riapparso pochi minuti più tardi con una piccola quantità di mari juana. Betsy
e Danny l'avevano fumata nel parcheggio dell'ospedale subito prima di entrare
in clinica.
La mia sorpresa lasciò posto al sollievo nel vedere quanto
Danny fosse a suo agio. Non protestò quando gli diedero la medicina, e tutti
fummo felicissimi quando nessun tipo di nausea o vomito seguì. Sulla via di
casa chiese a sua madrese potevamo fermarci a prendere uno di quei grossi
panini imbottiti con carne e verdura, e quando fu a casa cominciò a fare le
sue solite cose invece di filare dritto a letto. Credevamo a malapena ai
nostri occhi.
Il giorno seguente telefonai al dottor Norman Jaffe,
il medico incaricato della terapia di Danny. Gli spiegai che cosa era successo
e dissi che, nonostante non volessi creare imbarazzo a lui o al resto del suo
staff medico, non avrei potuto proibire a Danny di fumare marijuana prima
della seduta successiva. Il dottor Jaffe rispose suggerendo che Danny
fumasse la marijuana in sua presenza nella camera di terapia. La volta
seguente, Danny lo accontentò. Quando gli fu dato l'agente chemioterapico, il
dottor Jaffe poté constatare con i suoi occhi che mio figlio era completamente
rilassato. Dopo, chiese di poter mangiare ancora un panino imbottito. Dal quel
momento in poi, Danny ha fatto uso di marijuana prima di ogni seduta, e noi
siamo stati tutti molto più sereni durante l'anno che gli è rimasto da
vivere.Il dottor Jaffe mi chiese di unirmi a lui nel riferire le nostre
osservazioni al dottor Frei, che fu sufficientemente interessato da effettuare
il primo esperimento clinico sull'uso della cannabis nella chemioterapia [S.E.
Sallan, N.E. Zimberg & E. Frei III, "Antiemetic effect of
Delta-9tetrahydracannabinol in Patients Receiving Cancer Chemotherapy", in New
Eng. J. Med. 293 (1975): 795-797].2.1.2 2a Testimonianza - tumore al midollo osseo
In meno di due mesi
nostro figlio perse almeno tredici chili. Cominciò a vomitare la bile. Quando
non c'era niente da vomitare, si limitava ad avere conati e convulsioni. Era
orribile per noi vedere che nostro figlio soffriva simili tormenti a causa
della malattia e della sua cura. A un certo punto Keith mi disse che non
voleva diventare come suo fratello Dana -così malato da non potersi prendere
cura di se stesso, completamente disabile, un peso per il resto della
famiglia. Mi disse che qualora le cose avessero preso una piega così brutta,
avrebbe voluto essere capace di uccidersi. Mi fece promettere che quando non
ci fossero state più speranze, l'avrei aiutato a mettere fine alla sua
vita.
Una sera lessi un articolo di giornale su un malato di cancro che
aveva trovato sulla soglia di casa un sacchetto marrone contenente marijuana.
L'articolo sottolineava che era l'evidenza medica a suggerire che la marijuana
potesse ridurre il grave senso di nausea e il vomito provocati da molte
terapie anticancro. L'idea che la marijuana avesse un impiego in medicina
giungeva nuova a mio marito e a me. Dapprima risi di questa storia. Sembrava
improbabile che la marijuana semplicemente comparisse d'improvviso sulla porta
di casa di qualcuno.
Come genitore, ero decisamente contraria all'uso
della marijuana come di altre droghe illegali. Mio marito e io ci assicurammo
che i nostri figli sapessero esattamente come la pensavamo. Non dubitiamo che
possano aver provato la marijuana nell'adolescenza, ma siamo anche sicuri che
non hanno mai avuto problemi di droga, né illusioni rispetto alla nostra
rigida opposizione all'uso di droghe. Era difficile credere che una droga
illegale potesse avere qualche utilità. Pensavamo che, se la marijuana avesse
avuto proprietà medicinali, il governo l'avrebbe saputo e l'avrebbe resa
legalmente disponibile sotto prescrizione.
Ma eravamo disperati, così
raccontammo a Keith quello che avevamo letto. Egli replicò che altri pazienti
dell'ospedale che stavano sostenendo la chemioterapia fumavano marijuana per
ridurre gli effetti collaterali e dicevano che funzionava. Ci mettemmo
all'opera per contattare il deputato del nostro stato, Robert Young, e gli
chiedemmo se era possibile procurare la mari juana per Keith in modo
legale.
Fummo sorpresi nell'apprendere che un disegno di legge per
legalizzare l'uso della marijuana nella cura del glaucoma e del cancro era in
attesa di essere esaminato dal corpo legislativo dello Stato del Michigan. Il
deputato Young ci mise anche in contatto con il Sig. Roger Winthrop, un tale
che stava lavorando all'elaborazione della legge assieme a deputati e
senatori. Egli ci fornì informazioni sugli impieghi medici della marijuana e
ci disse che medici e pazienti in diversi stati erano già riusciti a far
approvare delle leggi che la rendessero disponibile a pazienti gravemente
malati, come Keith.
Mio marito e io avevamo letto quel materiale da
poco tempo quando Keith ebbe un altro turno di chemioterapia che, come sempre,
lo fece stare terribilmente male. Non potevamo starcene lì a guardarlo
soffrire ma, poiché eravamo una coppia di un'altra generazione, non avevamo la
più pallida idea di dove si potesse trovare della marijuana. Disperati,
chiedemmo aiuto a un amico intimo, un superiore presbiteriano, che lavorava
con i gruppi giovanili locali. Diversi giorni dopo, comparve alla nostra porta
con un po' di marijuana. Era la prima volta che la
vedevamo.
L'indomani portammo la marijuana a Keith in ospedale. Dopo
che ebbe fumato, il vomito si interruppe bruscamente. Fu sconcertante vedere
quell'improvviso cambiamento. La marijuana mise fine anche alla sua nausea.
Quando fumava era costantemente affamato, e cominciò addirittura a mettere su
peso. Anche la sua disposizione d'animo andò incontro da un miglioramento
sorprendente. Prima che iniziasse a fumare marijuana, Keith era solito tornare
a casa dalla chemioterapia, chiudersi nella sua camera da letto infilando
degli asciugamani sotto la porta in modo da tener lontani gli odori di cucina,
e rimanere in camera sua o in bagno a vomitare per tutta la sera. Il cancro e
la chemioterapia lo portavano a comportasi come un animale ferito, timido e
riservato. Avvertiva intensi sbalzi di temperatura, da caldo a freddo. Le sue
articolazioni erano diventate gonfie e doloranti. Gli cadevano i capelli e si
sentiva male in tutto il corpo. Grandi porzioni di pelle si staccavano dal
punto in cui venivano fatte le iniezioni.
Fumare marijuana gli cambiò
drasticamente la vita. Subito prima della terapia fumava una sigaretta di
marijuana, dopodiché, se si sentiva nauseato, non era che per pochissimo
tempo. Quando arrivavamo a casa, rimaneva in soggiorno a parlare con suo
fratello e suo padre. Si univa alla famiglia per cena e mangiava più della sua
razione. Diventò brillante e loquace, nuovamente parte della nostra famiglia.
Non sperimentò mai, neanche una volta, un inconveniente. La marijuana era la
sostanza più innocua e benefica che avesse ricevuto nel corso della sua
battaglia contro il cancro.
Ci assicurammo che tutti i suoi dottori
e le sue infermiere fossero al corrente della sua situazione; nessuno fece
obiezioni e qualcuno, anzi, approvò apertamente. Ci mettemmo addirittura
d'accordo perché Keith potesse fumare marijuana nella sua stanza d'ospedale.
Di fatto, le persone ragionevoli che si preoccupavano per lui avevano deciso
che la legge non andava incontro alla realtà dei suoi bisogni. Venimmo a
sapere che molti malati di cancro fumavano marijuana e la maggior parte
l'aveva detto al proprio medico, che approvava ma non voleva ripetere
pubblicamente ciò che aveva detto ai suoi pazienti nel suo studio.
Mio
marito e io finimmo per risentire dell'illegalità della terapia di Keith. Ci
sentivamo dei criminali. Siamo persone oneste e semplici, che detestano
doversi muovere furtivamente. Eravamo a disagio quando chiedevamo ai nostri
amici più intimi, al nostro superiore e all'altro nostro figlio Marc, di
rischiare l'arresto perché Keith potesse avere la medicina della quale era
così evidentemente bisognoso. Eravamo preoccupati anche per tutti gli altri
genitori che avrebbero potuto non sapere che la marijuana poteva contribuire a
metter fine alla sofferenza di loro figlio. Chiedemmo a Keith se potevamo
raccontare la sua storia a un giornale locale, il Bay City Times, per aiutare
gli altri malati di cancro. Accettò, a condizione che non fornissimo dettagli
sulla natura del suo tumore e sull'asportazione chirurgica dei suoi testicoli.
Come giovane maschio sulla ventina, voleva che almeno quella parte della sua
vita rimanesse privata.
Il giorno in cui l'articolo su Keith uscì sul
giornale, andammo a Lansing per testimoniare davanti alla commissione
giudiziaria del Senato del Michigan in merito alla legislazione sull'impiego
medico della marijuana. Le udienze suscitarono una notevole attenzione nel l
'opinione pubblica, così cominciammo a ricevere telefonate da altri malati di
cancro dal Michigan e da ogni parte degli Stati Uniti. Più volte Keith rimase
a parlare con loro fino a notte inoltrata. I malati di cancro e i loro parenti
gli chiedevano aiuto e consiglio su come bisognasse fumare correttamente,
quanta marijuana usare e quanto spesso. Egli rispose addirittura a delle
chiamate a domicilio e andò diverse volte a mostrare ai pazienti come
arrotolare le sigarette o aspirare il fumo. Questa opportunità di aiutare
altre persone diede a Keith una grande gioia.
Un giorno, poco dopo le
udienze, trovammo nella nostra cassetta per le lettere un sacchettino marrone
contenente della marijuana. Non c'era nessun biglietto, nessun nominativo,
soltanto un'oncia di marijuana. Mi tornò alla mente quell'articolo di giornale
di cui avevo riso, con la marijuana che compariva sulla porta di casa di un
tale. Ben presto ricevemmo altra marijuana con la posta. I donatori di solito
rimanevano nell'anonimato, ma non sempre. Un pastore episcopale, per esempio,
ci portò la marijuana a casa e disse che pensava che noi conoscessimo chi
poteva fame buon uso. Al diffondersi a macchia d'olio della notizia, fummo
contattati da alcuni conoscenti. Un giorno ricevemmo una telefonata da una
donna che aveva fatto le scuole elementari con Arnold, mio marito. Ci invitò a
casa sua e ci offrì una scatola da sigari piena di marijuana. Ci spiegò che
suo marito, morto da poco tempo, fumava marijuana per lenire il dolore di un
cancro terminale. Ormai a lei non serviva, ma non voleva buttarla
via.
Quando mio marito e io ritornammo a Lansing per ulteriori udienze
legislative, Keith era nuovamente in ospedale e il suo tumore aveva ripreso a
propagarsi. Questa volta si unì a noi un'altra famiglia: i Negen di Grand
Rapids, che avevano testimoniato alle udienze precedenti senza rilasciare il
loro nome. La loro figlia Deborah, di ventun anni, stava sostenendo la
chemioterapia contro la leucemia, e la marijuana era l'unica sostanza che
alleviava i debilitanti effetti collaterali. Il Reverendo Negen è pastore
della Chiesa Olandese della Riforma Cristiana di Grand Rapids, una
congregazione assai conservatrice. Sotto giuramento, egli dichiarò di aver
pregato per ricevere consiglio e di essersi reso conto che, se il fatto di
ricorrere alla marijuana per aiutare sua figlia scandalizzava la sua
congregazione, avrebbe dovuto abbandonare la chiesa. Parlò in modo commovente
della necessità di mandare i suoi figli per le strade di Grand Rapids a
comprare marijuana per sua figlia. Per noi era facile comprendere l'angoscia
del Reverendo Negen. Come noi, veniva forzato a violare la legge per andare
incontro alle necessità mediche di sua figlia. La stessa Deborah Negen fu
persino più eloquente e commovente quando, davanti alla commissione, perorò la
causa degli altri malati gravi che soffrivano inutilmente.
Il 10
ottobre 1979, la Camera del Michigan si pronunciò all'unanimità affinché la
marijuana fosse resa disponibile per i pazienti come Keith. Cinque giorni più
tardi, il 15 ottobre, il Senato si espresse analogamente, con trentatré voti
favorevoli e uno contrario. La sera di domenica 21 ottobre, mio marito e io
riferimmo a Keith che il disegno di legge dello Stato del Michigan "Marihuana
as Medicine" sarebbe stato convertito in legge l'indomani. Sorrise e ci diede
la buonanotte. Il giorno dopo, di prima mattina, morì; più tardi, quello
stesso giorno, il disegno di legge fu convertito in legge.2.1.3 3a Testimonianza - morbo di Hodgkin
Immediatamente si sottopose al primo di una lunga serie di
interventi chirurgici: la milza e i linfonodi colpiti furono asportati
attraverso un 'incisione che correva dal bacino al torace. Non appena la
ferita guarì ed egli recuperò parte delle sue forze, cominciò a sostenere i
primi trattamenti in quello che si sarebbe rivelato un decennio di cure
anticancro. Malgrado gli avvertimenti dei dottori, eravamo del tutto
impreparati agli effetti devastanti della chemioterapia. Un'ora e mezza dopo
aver sostenuto la sua prima seduta di chemioterapia mio marito cominciò a
vomitare, e il vomito persistette per ore interminabili. Quando non ci fu
più niente da rigettare, continuò ad avere conati a secco. Dopo un giorno il
vomito andò calando, ma gli rimase un tale senso di nausea da non riuscire a
mangiare e nemmeno a sopportare la vista o l'odore del cibo. I dottori gli
prescrissero una serie di farmaci antiemetici come il Compazine. Neanche uno
si rivelò efficace. Harris fu sottoposto a chemioterapia almeno una volta al
mese per circa un anno. Sembrava che la terapia contribuisse a sopprimere il
suo tumore, ma certamente si prendeva anche una terribile contropartita
sulla qualità della sua vita.
Nei sette anni seguenti Harris sembrò
rimettersi più volte.
Ogni volta che il cancro ritornava era più
esteso, i farmaci usati per combatterlo erano più tossici e le reazioni
d'intolleranza diventavano più gravi. Nel frattempo, Harris si sottopose a
molti altri interventi chirurgici, tra i quali l'asportazione di un tessuto
canceroso che si era propagato fino al cervello. In seguito cominciò ad
avere difficoltà a camminare a causa della presenza, nella sua spina
dorsale, di un tessuto canceroso che stava premendo sui nervi dai quali
dipende l'uso delle gambe. Anche questi tumori furono asportati
chirurgicamente.
Siccome la malattia continuava a progredire, Harris
fu sottoposto a una chirurgia esplorativa dell'addome; i dottori trovarono
troppo tessuto canceroso da rimuovere. Fu prescritta una chemioterapia più
intensiva, cui si aggiunsero trattamenti per mezzo di radiazioni, che gli
procurarono
ulteriore nausea. Ogni giorno diventava sempre più penoso per
lui.
Un giorno del 1977, quando arrivammo alla stanza dove Harris
doveva ricevere l'iniezione, lui se la svignò e si lanciò di corsa per il
corridoio. Poco più tardi lo trovai che vagava per le sale dell'ospedale. Mi
disse che non ce la faceva più a continuare la chemioterapia. Non sapeva più
cosa fare, era spossato dalla malattia e terrorizzato dagli effetti dei
farmaci che avrebbero dovuto prolungare la sua vita.
Non avevo mai
visto prima, e non ho più visto da allora, un uomo così sinceramente e
profondamente atterrito. Harris era arrivato a temere le cure più del cancro
e, come lui stesso ammise, più della morte. Mi disse che avrebbe preferito
morire piuttosto che continuare la chemioterapia. Una delle infermiere
sentì per caso la nostra conversazione e ci interruppe; disse che capiva il
nostro problema e suggerì ad Harris di fumare marijuana per alleviare la
nausea e il vomito. Trasalimmo. Sebbene Harris avesse fumato marijuana in
gruppo di tanto in tanto, non poteva credere che gli sarebbe stata di aiuto.
Ci informammo sulla marijuana dal dottore di Harris, e lui disse che non
poteva incoraggiarci a fare qualcosa di illegale, ma che molti dei suoi
pazienti più giovani fumavano marijuana e sembrava che questo riducesse i
loro problemi di nausea e vomito. Il messaggio era piuttosto chiaro: prova
la marijuana e vedi se funziona. Harris aveva una gran voglia di vivere
e, come era solito dire, niente da perdere, così decise di dare ancora una
possibilità alla chemioterapia e fumare un po' di marijuana prima della
seduta. Non avevo molte speranze.
Quando Harris andò alla seduta
successiva, era così spaventato che dimenticò di portare la marijuana con
sé; gliela dovetti portare io dopo che lui mi aveva chiamato dalla sua
stanza d'ospedale. I dottori, le infermiere e gli inservienti dovevano
averlo visto fumare, ma nessuno disse niente. Era come se tutti noi avessimo
raggiunto un tacito accordo. Dopo la chemioterapia decisi di rimanere con
Harris per tutta la notte, se mai avesse avuto bisogno del mio aiuto. Ma
questa volta non ci fu vomito; dormì come un bambino. Fu la sua prima notte
intera di sonno ristoratore in quasi sette anni di cure anticancro. La
mattina seguente fece una buona colazione, una vera conquista. Niente
vomito. Niente nausea. E voleva veramente mangiare! Non posso descrivere
quanto fossimo sollevati ed eccitati. Perché nessuno ce lo aveva detto
prima? Perché mio marito aveva passato tutti quegli anni soffrendo
inutilmente?
Di solito Harris stava male per settimane dopo
aver sostenuto la chemioterapia; questa volta fu in grado di tornare al
lavoro dopo quarantotto ore. Da allora in poi prese l'abitudine di fumare
marijuana ogni volta che aveva la chemioterapia. I risultati furono
impressionanti. Cominciò a recuperare il peso perduto e il suo morale
migliorò notevolmente. Divenne più attivo e brillante, e noi cominciammo a
fare insieme delle cose che io non pensavo saremmo stati capaci di fare
ancora. Era chiaro che i suoi medici erano al corrente di quello che lui
stava facendo e lo approvavano; non poterono fare a meno di accorgersi
dell'improvviso miglioramento delle sue condizioni.
È
impossibile per me descrivere in modo adeguato quanto profondamente la
marijuana cambiò le cose. Prima di cominciare a usare la marijuana, Harris
stava male tutto il tempo, non era in grado di mangiare, non poteva nemmeno
sopportare gli odori di cucina. Dopo riusciva a mantenersi attivo, mangiava
regolarmente e poteva essere se stesso. Il suo umore, le sue maniere e il
suo modo di vedere le cose si erano trasformati. E, naturalmente, la
marijuana prolungò la sua vita permettendogli di continuare la
chemioterapia. Nei due anni in cui fumò marijuana non ebbe mai inconvenienti
spiacevoli. La marijuana è stata la sostanza meno
pericolosa che mio
marito abbia ricevuto in nove anni di cure contro il
cancro.
Durante questo periodo (1977-1979) Harris e io venimmo a
sapere che molti altri malati di cancro fumavano marijuana per lo stesso
motivo. La maggior parte di loro aveva imparato a farlo dal proprio medico,
che poteva dare soltanto cenni e suggerimenti e raramente era dIsposto a
discutere l'argomento in modo aperto ed esauriente. I medici non potevano
prescrivere legalmente la droga ai loro pazienti, né controllare l'uso che
essi ne facevano, tuttavia potevano prescrivere farmaci chemioterapici
altamente tossici, narcotici che provocano pericolose assuefazioni e
trattamenti con radiazioni. Ricordo di aver pensato quanto tutto ciò fosse
pazzesco. Dal 1979, quando Harris è morto, ho avuto tempo di riflettere
sulla grettezza di una legge che lo ha privato del suo diritto di ottenere
l'unica sostanza che effettivamente gli dava sollievo dalla nausea e dal
vomito. lo mi turbo, poi mi arrabbio quando mi accorgo che ad altri
malati di cancro si sta negando questo sollievo. Penso alle persone più
anziane che potrebbero non sapere dove trovare la marijuana o potrebbero
essere troppo spaventate all'idea di fumare una droga illegale senza stretta
supervisione medica. E penso ai bambini e agli adolescenti i cui genitori
devono affrontare una scelta straziante: violare la legge o assistere alla
sofferenza di loro figlio.2.1.3 4a Testimonianza - mesotelioma addominale
Ogni malato di cancro sopravvissuto a
simili cure intensive (a dire il vero, chiunque abbia sostenuto accanite
battaglie mediche contro qualsiasi malattia) conosce in prima persona
l'enorme importanza del "fattore psicologico". Si dà il caso che io sia un
razionali sta di vecchio stampo, come oggi non se ne trovano più. Non
sopporto il misticismo né le sciocchezze romantiche californiane sul potere
della mente e dello spirito. Presumo che un atteggiamento positivo e
l'ottimismo abbiano effetti salutari in quanto gli stati d'animo possono
alimentare il corpo attraverso il sistema immunitario. In ogni caso penso
che chiunque riconoscerebbe un ruolo importante alla resistenza dello
spirito attraverso le avversità; quando la mente viene meno, troppo spesso
il corpo la segue. (E se il risultato finale non è la guarigione, la qualità
della vita che rimane da vivere diventa, se mai, ancora più
importante.)
Niente è più scoraggiante e più distruttivo verso la
possibilità di un simile atteggiamento positivo -e qui parlo veramente per
esperienza personale -dei gravi effetti collaterali prodotti da una terapia
così articolata. Radiazioni e chemioterapia sono spesso accompagnate da
lunghi periodi di nausea intensa e incontrollabile. La mente comincia ad
associare l'agente della possibile cura con gli aspetti di gran lunga
peggiori della malattia, dato che il dolore e la sofferenza dovuti agli
effetti collaterali sono spesso peggiori del disagio causato dal tumore
stesso. Quando ciò accade, l'indispensabile carica psicologica e la fiducia
possono venir meno, in quanto la cura sembra peggiore della malattia stessa.
In altre parole, sto cercando di dire che il controllo dei gravi e duraturi
effetti collaterali nella cura del cancro non è semplicemente una questione
di benessere (anche se Dio solo sa che il conforto alla sofferenza è già di
per sé una buona ragione), ma un ingrediente assolutamente essenziale per la
possibilità di una guarigione.
Ho cominciato con la chirurgia,
seguita da un mese di radiazioni, chemioterapia, ancora chirurgia, e poi un
anno di chemioterapia addizionale. Mi accorgevo di essere in grado di
contenere le formee meno gravi di nausea da radiazioni per mezzo dei farmaci
convenzionali. Ma quando cominciai la chemioterapia endovenosa
(Adriamycin@), assolutamente nulla nell'arsenale degli antiemetici
disponibili aveva alcun effetto. Ero molto a terra e arrivai a temere le
frequenti cure con un'intensità quasi perversa.
Avevo sentito dire
che la marijuana spesso funzionava bene contro la nausea. Ero riluttante a
provarla perché non ho mai avuto l'abitudine di fumare alcuna sostanza (e
non sapevo nemmeno come fare ad aspirare). Oltretutto avevo provato la
marijuana due volte (nel solito contesto adolescenziale degli anni '60) e
l'avevo detestata. (Sono in un certo senso un puritano in materia di
sostanze che, in qualunque modo, offuschino o alterino gli stati mentali, in
quanto valuto la mia mente razionale con una presuntuosa arroganza da
accademico. Non bevo mai alcolici e non ho mai fatto uso di droghe a scopo
"ricreativo".) Ma avrei fatto qualunque cosa pur di evitare la nausea e il
perverso desiderio di mettere fine alla cura che la nausea suscitava. Il
resto della storia è breve e dolce. La marijuana agì come un
incantesimo. Non mi piaceva l'effetto "collaterale" dell'offuscamento
mentale (l'effetto "principale" per chi ne fa uso ricreativo), ma la pura
beatitudine di non provare nausea -e quindi di non doveri a temere per tutti
i giorni tra una seduta e l'altra -è stata la più grande iniezione di
ottimismo che abbia ricevuto in tutto un anno di cure, e sicuramente ha
avuto un effetto di primaria importanza sulla mia guarigione finale. Va al
di là della mia comprensione (e immagino di essere in grado di comprendere
un sacco di cose, tra le quali molte sciocchezze) che un essere umano possa
negare una sostanza così benefica alle persone che ne hanno un così grande
bisogno solo perché altre persone la usano per scopi diversi.
Nel 1979, Alfred
Chang dell'istituto nazionale dei tumori studiò quindici pazienti con cancro
al midollo osseo, paragonando gli effetti antiemetici del delta-9-THC in
pillole e in sigarette e dei corrispondenti placebo. Furono i pazienti stessi
ad assumere il ruolo di soggetti di controllo. L'efficacia del THC nel
contenere nausea e vomito risultò evidente. Il 72% dei pazienti accusò nausea
e vomito dopo aver preso un placebo. Quando la concentrazione di THC nel
sangue era bassa, il 44% soffri"ra di nausea e vomito; per concentrazioni
moderate, solo il 21 % era nauseato e vomitava; per concentrazioni piuttosto
alte, questo succedeva solo a un 6%. Quindi l'efficacia del THC risultò
dipendere da quanto ne viene assorbito dal sangue, e gli autori dell 'indagine
furono in grado di dimostrare che il THC da
fumare viene assimilato in modo
più regolare.
La maggior parte dei pazienti preferisce le sigarette di
marijuana al THC in pillole, che li rende ansiosi e li mette a disagio. Una
ragione sta nella difficoltà nel valutare la dose di THC da assumere per via
orale in modo da dosare la quantità che raggiunge il sangue e il cervello.
Un'altra possibilità, suggerita da un gruppo di ricercatori peruviani, è che
il cannabidiolo, una delle molte sostanze contenute nel fumo della marijuana,
riduca gli stati ansiosi provocati dal delta-9-THC.4 Perciò la marijuana può
essere sia più efficace, sia più tranquillizzante del THC in pillole. Abbiamo
già osservato che i pazienti inclusi nei programmi statali dei primi anni '80
la preferivano in modo quasiplebiscitario.
Nella primavera del 1990
due ricercatori hanno scelto a caso i nomi di più di duemila membri della
società americana di oncologia clinica (un terzo degli iscritti), cui hanno
inviato un questionario anonimo per conoscere le loro opinioni sull
'uso della cannabis nella chemioterapia delle neoplasie. Quasi metà dei
destinatari ha risposto. Nonostante gli autori dell'indagine riconoscano
che questo gruppo si è auto selezionato e che l'attendibilità statistica dei
dati può risentire di questo fatto, i loro risultati rappresentano una
stima approssimativa delle opinioni degli specialisti sull'uso del Marinol e
delle sigarette di marijuana.
Tra gli oncologi che hanno rispedito il
questionario compilato, solo 43% ha dichiarato che i farmaci antiemetici
legalmente disponibili (tra i quali il THC sintetico da assumere per via
orale) offrono un sollievo adeguato a tutti o alla maggior parte dei loro
pazienti, e meno del 46% ha affermato che gli effetti collaterali di questi
farmaci sono un problema serio solo per pochi. Il 44% ha raccomandato l'uso
illegale di marijuana ad almeno un paziente; il 50% la prescriverebbe ad
alcuni pazienti se fosse legale. In media, considerano la marijuana più
efficace del THC sintetico e, in linea di massima, altrettanto poco
pericolosa.
Un effetto nefasto dell'illegalità della marijuana è
che i pazienti sottoposti alla chemioterapia spesso devono imparare a fame uso
per conto loro. Non è semplice come prendere una pillola; può richiedere una
certa preparazione, sia per ottenere gli effetti desiderati, sia per evitare
quelli indesiderati. Persino gli oncologi che prescrivono la marijuana con
tranquillità generalmente ignorano la questione. I pazienti possono provare
ansia o addirittura qualche forma di paranoia, pecialmente se non sanno cosa
aspettarsi o non sono in grado di valutare le dosi. Gli effetti psicoattivi
dovrebbero essere descritti con cura, in modo che i pazienti non vengano presi
di sorpresa. Molti avranno bisogno anche di qualche spiegazione sugli aspetti
pratici del fumare. Quando la marijuana diventerà una cura medica accettata
contro la nausea e il vomito, pochi pazienti incontreranno difficoltà o disagi
nel farne uso.2.2 Glaucoma
Oggi sul glaucoma si interviene
principalmente con colliri contenenti beta-bloccanti, che inibiscono
l'attività della epinefrina (adrenalina). Sono farmaci molto efficaci ma
possono comportare seri problemi collaterali; possono indurre depressione,
aggravare l'asma, ridurre la frequenza del battito cardiaco e far aumentare il
rischio di infarto. Paradossalmente, anche i colliri a base di epinefrina
possono essere efficaci nella cura del glaucoma, ma possono irritare la cornea
e aggravare ipertensione e disturbi cardiaci. I miotici (farmaci che provocano
la contrazione della pupilla), come la pilocarpina, vengono anch'essi
prescritti per la cura del glaucoma, sebbene più raramente che in passato.
Sono generalmente innocui per l'apparato circolatorio, il sistema respiratorio
e l'apparato digerente, ma possono causare offuscamento della vista,
indebolimento della visione notturna e cataratta. Ai pazienti possono essere
sommil1istrate anche delle pillole che contengono un inibitore dell'anidrasi
carbonica, che riduce la produzione di umore acqueo. Gli inibitori
dell'anidrasi carbonica possono indurre perdita di appetito, nausea, diarrea,
mal di testa, torpore e formicolio, depressione ed esaurimento, calcoli renali
e, raramente, una malattia del sangue che può condurre alla morte. II 50% dei
malati di glaucoma non riesce a sopportare gli effetti collaterali di questi
farmaci.
La proprietà della marijuana di
ridurre la pressione intraoculare è stata scoperta casualmente durante un
esperimento condotto all'Università della California di Los Angeles per
stabilire se la cannabis inducesse dilatazione della pupilla, come credevano
al Dipartimento di Polizia di Los Angeles. La polizia sosteneva che questa
presunta dilatazione (assieme ad altri indizi, tra i quali il pallore delle
labbra e la presenza di una patina verde sulla lingua) fosse un segno di
ebbrezza da marijuana e pertanto un buon motivo perché un cittadino venisse
arrestato o ricercato. Le persone che si sottoposero all'esperimento erano
normali volontari che fumavano marijuana coltivata dal governo. I loro occhi
vennero fotografati mentre fumavano e si osservò che le pupille si
restringevano leggermente anziché dilatarsi. Un esame oculistico dimostrò che
la cannabis riduceva anche la lacrimazione (i consumatori di marijuana hanno
spesso affermato di poter affettare le cipolle tranquillamente sotto l'effetto
della droga) e la pressione intraoculare. Esperimenti successivi hanno
evidenziato un effetto analogo sui malati di glaucoma. La marijuana riduce la
pressione intraoculare per un periodo, in media, dalle quattro alle cinque
ore, senza "alcuna indicazione di effetti deleteri... sulla funzione visiva o
sulla struttura oculare". Sotto l'effetto della marijuana, le pupille
rispondono normalmente alla luce; l'acutezza visiva, la rifrazione e la
visione periferica, binoculare e dei colori non vengono alterate. I
ricercatori hanno concluso che la marijuana può essere più utile dei farmaci
convenzionali e probabilmente agisce in modo diverso. Questa conclusione è
stata dimostrata da esperimenti successivi su uomini e
animali.
L'effetto sulla pressione intraoculare
si manifesta quando la marijuana viene fumata o il THC viene assunto per via
orale. In un esperimento, diciannove pazienti hanno fumato marijuana per
trentacinque giorni e altri ventinove l'hanno fumata per novantaquattro giorni
senza sviluppare né tolleranza verso l'effetto della marijuana sulla pressione
intraoculare, né deterioramento della vista. Diversi studi su animali hanno
dimostrato che la cannabis agisce anche quando viene applicata localmente
(cioè in gocce sull'occhio). Questo è importante, in quanto l'applicazione
locale ha effetti psicologici molto minori ed è più accettabile per gli
oftalmologi. Sfortunatamente, i preparati della cannabis adatti
all'applicazione locale sugli esseri umani non sono stati ancora messi a
punto.2.2.1 1a Testimonianza - glaucoma terminale Robert Randal
Ho fumato la mia prima sigaretta di marijuana il giorno in cui
Richard Nixon fu eletto Presidente. Jerry Ford era Presidente quando fumai
il mio primo spinello legale, "a scopo di ricerca". Jimmy Carter fu eletto
parecchi giorni prima che io uscissi da un ospedale di Washington, D.C.,
portando con me la prima, moderna prescrizione di marijuana per uso medico
degli Stati Uniti. Ho continuato a fumare nella legalità durante gli anni di
Reagan, uscendo indenne dalla demenziale "guerra alla droga". Ora il
Presidente è George Bush. lo fumo ancora legalmente la marijuana a scopo
medico e, come conseguenza, godo ancora della mia vista.
I miei
trampolini di lancio verso l'erba matta sono stati l'alcol e il tabacco. Ho
cominciato a fumare tabacco perché volevo fumare le canne e avevo bisogno di
impratichirmi ad aspirare. Una scelta puramente economica; il tabacco allora
costava due centesimi a sigaretta. La mari juana, al confronto, era
tremendamente costosa: dai quindici ai venti dollari l'oncia per della roba
veramente buona. Sono rimasto agganciato alla dolce nicotina fin dalla mia
prima siga
retta - un'attrazione dalla quale devo ancora svincolarmi. La
marijuana, naturalmente, era profondamente diversa. Era di gran lunga meno
pericolosa, non dava dipendenza, ed era illegale. A differenza di molti
fumatori alla loro prima esperienza, rimasi fulminato. Quando chiusi gli
occhi vidi luminose instantanee Kodachrome, diapositive mentali ViewMaster,
nelle quali i buoni amici che avevo intorno sembravano veramente molto
felici. L'erba mi stava dicendo che io avevo bisogno dei benefici che essa
poteva offrirmi: così, in un'altra cultura, si sarebbe potuto interpretare
questo fatto. Mi piaceva molto, la marijuana.
Era uno spasso.
La
mia vita subiva cambiamenti sottili, ma pervasivi. Per prima cosa,
un'alternanza di stimoli sensoriali. Sbronza party frenetici e
mostruosamente rumorosi che coinvolgevano moltitudini di persone ubriache
fradice venivano sostituiti da tranquille serate durante le quali sedevo
nella penombra all'interno di un piccolo cerchio di amici intimi -tutti
quanti cospiratori contro l'Impero -ad ascoltare rock duro suonato a un
volume abbastanza basso da non destare sospetti, con un asciugamano cacciato
sotto la porta per evitare di stare in apprensione.
Ho attraversato
gli anni del college su nuvole di cannabis, mi sono laureato presto e ho
intrapreso un master. Nessun problema in ambiente accademico. La maggior
parte dei miei amici fumava. Mi piaceva fumare marijuana in gruppo o da
solo, imparavo a prendere gusto alle caratteristiche tutto d'un tratto
plastiche del pensiero. Il salto che la marijuana fa compiere, dalla
consequenzialità iper-lineare all'universo dei pensieri interconnessi in
modo casuale e delle associazioni ottuse, mi incantava. McLuhan diventa va
comprensibile. Infine, quando fumavo marijuana vedevo più chiaramente. Non
sto parlando di illuminazioni. Sto parlando della vista. Del vedere. Fin da
quando avevo circa sedici anni le mie serate erano state infestate da
apparizioni: aloni tricolori che andavano e venivano, un piccolo problema di
vista. Alcune sere mi capitava di diventare cieco di una cecità bianca, con
la vista intrappolata in un vortice di illuminazione assoluta -il vuoto
bianco. Mi risultava che questi problemi fossero trascurabili in quanto i
miei medici, quando ne avevo parlato con loro, mi avevano detto che la cosa
avrebbe potuto essere grave se fossi stato più vecchio. Ma, siccome ero
troppo giovane perché la cosa fosse grave, doveva trattarsi di
"astenopia".
Tutta un'accurata analisi. Se loro non erano
preoccupati, perché avrei dovuto esserlo io? Tanto più che la marijuana
rilassava la mia "astenopia ". Niente di strano. La marijuana rilassa quasi
ogni cosa: la mente, il corpo, l'anima. Quel tic cronico nel collo. E allora
perché non anche l'astenopia?
Senza la marijuana, che leniva la mia
"astenopia", probabilmente non sarei riuscito a completare il mio
master.
Dopo aver ricevuto il titolo nel 1971, mi trasferii a
Washington per scrivere discorsi appassionanti per gli uomini politici, e
finii per lavorare come tassista. Mi piaceva guidare il taxi. Molto
istruttivo. Niente capi. Decidi tu quante ore fare. Avevo anche smesso di
fumare marijuana. Siccome mi trovavo in una città nuova, circondato da gente
nuova, avevo pochi amici e nessun accesso... nessuno spacciatore.
Una
sera d'estate del 1972, chiusi l'occhio sinistro e scoprii che non riuscivo
a leggere dall'occhio destro. Anziché lettere chiaramente definite, vedevo
un guazzabuglio di inchiostro nero spruzzato sulla pagina bianca. Non
importava quanto mi avvicinassi al testo, che rimaneva indecifrabile,
incoerente, alieno. Qualcuno mi diede il nome di un buon oftalmologo. Mi
visitò il pomeriggio seguente. Avevo ventiquattro anni.
Benjamin
Fine, dottore in Medicina, uno dei migliori patologi oculari della nazione,
effettuò una serie di analisi.
Gli raccontai dei miei aloni e della
cecità bianca. Il suo assistente mi sottopose al mio primo esame del campo
visivo. Alla fine il dottore mi chiamò nel suo studio privato. C'era
qualcosa di sinistro nei suoi modi. Chiaramente, non c'erano buone
notizie.
Il dottor Fine disse "Ragazzo, tu hai un male molto grave che si
chiama glaucoma. La tua vista ha già subito una quantità di danni e.. ."
.
"Quanto?"
Colpito dalla mia immediatezza, rispose a tono: "Nella
migliore delle ipotesi, potrai vedere ancora per tre, magari cinque anni.
Hai perso la maggior parte delle capacità visive da entrambi gli occhi. Il
tuo occhio destro non ha visione centrale, visione per la lettura, niente.
Nell'occhio sinistro hai solo una piccola isola di tessuto sano. È per
questo che riesci a leggere. La pressione in entrambi gli occhi è sopra il
quaranta. Dovrebbe essere sotto il venti. Sei in un guaio molto, molto
serio. Diventerai cieco".
La chirurgia era pericolosa, specialmente
per qualcuno che, come me, avesse subito un danno già tanto avanzato.
C'erano buone probabilità che la chirurgia avrebbe distrutto i piccoli
frammenti di tessuto ottico sano che ancora mi rimanevano.
"Mi
dispiace, ragazzo. Faremo del nostro meglio, ma non possiamo fare molto.
Diventerai cieco." Sembrava logorato. Il dottor Fine mi somministrò
della pilocarpina in entrambi gli occhi, mi prese per le spalle, mi chiese
se stavo bene, mi diede una pacca sulla schiena e mi fece uscire
accompagnato dalle fatidiche parole: "Vivi la tua vita come hai sempre
fatto... ". I pazienti sanno bene come finisce questa temuta frase, "perché
non potrai farlo ancora per molto tempo".
Complessivamente scosso da
quell'incontro ricco di cattivi auspici per il futuro della mia vita, scesi
vagando fino al pianoterra, salii sul mio taxi e mi accorsi che non riuscivo
a vedere al di là del cruscotto. La pilocarpina, un miotico, provoca una
forte miopia momentanea. Guidai nel traffico cittadino dell'ora di punta
basandomi sulla memoria e sul riverbero della luce del sole sulle auto
davanti a me.
Non tenni conto di quell'invito esplicito a cadere in
una depressione che mi avrebbe debilitato. Riuscivo ancora a vedere, a
leggere, a godermi dolcemente tutte le tinte e le tonalità della natura.
Finché, naturalmente, non mi mettevo negli occhi la mia Pilo [pilocarpina],
che mi era stata prescritta di recente e che riduceva in breve tempo la mia
visuale a rimasugli di forma mal definita. Il mio primo contatto con il
mondo straordinariamente contorto della farmacologia contro il
glaucoma.
Il tentativo di preservare la vista per via medica,
impiegando farmaci che inducono una cecità funzionale, origina quella che i
medici chiamano sdegnosamente "mancanza di collaborazione da parte del
paziente". Vale a dire che, se ci tenevo molto a vedere un film, smettevo di
prendere la Pilo, mi scrollavo di dosso la miopia causata dal farmaco e mi
godevo il film. Perderai pure un po' della tua vista, ma almeno sei al
cinema.
Il glaucoma e la sua terapia mi introdussero in realtà di un
altro ordine di grandezza e ben più drammatiche. La Pilo e la guida non
vanno d'accordo. Entro una settimana dalla diagnosi avevo perso il mio taxi
e il mio lavoro. Giudicato "disabile", approdai all'assistenza sociale, una
tutela inattesa da parte dello Stato. Stava diventando una cosa molto
seria.
A distanza di settimane dalla diagnosi la mia prescrizione di
Pilo raddoppiò, raddoppiò ancora, triplicò, quadruplicò.
A distanza di
mesi si aggiunse l'epinefrina. L'Epi mi faceva battere forte il cuore e
faceva dilatare le pupille, lasciando entrare un tale flusso di fotoni che
avevo la sensazione di annegare nella luce. Poi venne il Diamox [un
inibitore della anidrasi carbonica], una pillola, un diuretico.
Una pena
tremenda. Tutti i sapori ne venivano alterati. Alla fine, vista la
situazione disperata, anche lo ioduro di fosfolina, un collirio ricavato da
un gas nervino della Seconda guerra mondiale, fu aggiunto al miscuglio.
Questo bombardamento farmaceutico mi lasciò con gli occhi offuscati,
disfunzionalmente miope, fotofobico, estremamente fiacco e con un dolore
cronico alla schiena (per la calcificazione dei reni). I rigorosi controlli
medici sulla mia elevata pressione intraoculare (IoP), tuttavia, rimane vano
ambigui. La pur rapida escalation del mio consumo di farmaci tossici fu
sorpassata dal carattere dinamico del mio glaucoma. I campi visivi
continuavano a restringersi. Nonostante usassi tutti gli agenti farmaceutici
disponibili, le mie serate erano sistematicamente visitate dagli aloni
tricolori, il segnale di una pressione oculare al di sopra dei 35 mm Hg
[millimetri di mercurio]. Alle volte gli aloni si presentavano in sordina.
Altre sere apparivano come duri anelli di cristallo che si sprigionavano da
ogni sorgente luminosa. E poi c'erano notti, neanche tanto rare, di cecità
bianca -il mondo reso invisibile dalla sua luminosità. Traduzione clinica:
pressione oculare al di sopra dei 40 mm Hg. Per riassumere, le cose non
stavano andando molto bene.
Poi qualcuno mi offrì un paio di
spinelli. Dolce erba!
Quella sera mi preparai la cena e mangiai, poi mi
misi a guardare la televisione. Arrivarono i miei aloni tricolori, che
rendevano meno interessante guardare la TV. Allora misi su un po' di buona
musica, smorzai le luci troppo forti, che mi urtavano, e mi misi a fumare
con un certo impegno. Mi capitò di guardare, fuori dalla finestra, un
lampione lontano e mi accorsi che mancava qualcosa. Niente aloni. È stato
allora che ho avuto, in tutto il suo splendore, l'esperienza
omnidimensionale della lampadina da cartone animato in technicolor. In un
istante trascendente le sfere celesti parlavano! Era così semplice. I vecchi
messaggi in un nuovo contesto. Fumi una canna e l'astenopia ti passa. La
ganja è la cosa giusta per te.
Di sicuro fu divertente, ma nello
stordimento da medicinali della mattina miotica seguente mi rimproverai quel
trasporto precipitoso e ricominciai da zero ad analizzare la mia situazione.
Il mio intelletto ben educato e acutamente spassionato non era tenero.
"Siamo analitici", disse il mio emisfero sinistro. Fatti forza, la
situazione non è piacevole. Questa povera anima sovraffaticata che non vuole
accettare l'ammasso di orrori di quella che è diventata la "vita reale",
mette mano a della marijuana veramente buona. Si fuma un paio di spinelli e
si sconvolge un po'. OK, abbiamo accertato che non ci sta più con la testa.
Nella disperazione e in assenza di speranze, si immagina che la marijuana
gli potrà "salvare la vista".
Ma siamo matti? La risposta è ovvia,
no? Date queste premesse, chi non vorrebbe credere che qualcosa di mistico,
di magico, di misterioso e di proibito lo salverà dal pozzo delle tenebre
eterne? L'idea che un 'erba proibita dalla legge e non disponibile come
medicina -una pianta che si fuma per puro piacere, per divertimento
-"salverà la tua vista" è strampalata e avventata; una teoria tirata per i
capelli, improbabile e patetica, che solo un pazzo potrebbe concepire. Così
cominciarono sei mesi di osservazione cinica. Sei mesi di semplici prove e
controprove. Alla fine, la conclusione è stata ineludibile. Senza la
marijuana c'erano gli aloni e le notti di cecità bianca. Quando fumavo
marijuana, non c'erano aloni. Ne emerge un modello? Potete scommetterci.
Se guardavo molto attentamente, in effetti riuscivo a osservare gli aloni
che se ne andavano.
Non si poteva sfuggire alle numerose evidenze di un
beneficio riproducibile.
Così accettai l'idea che un'erba illegale e
proibita come medicina potesse aiutarmi a non diventare cieco. E adesso?
Magari corro a raccontare la rivelazione che ho avuto grazie alla marijuana,
e che naturalmente è di potenziale beneficio per milioni di esseri umani con
lo stesso tipo di afflizione, al simpatico dottor Ben Fine, prestigioso
patologo oculare, veramente una bravissima persona ammodo di mezza età? Sì,
come no? Ma neanche per idea! È un bravo dottore. Mi piace. È onesto. Ma non
apprezzerebbe le mie notizie. Ci sono di mezzo questioni mediche. E,
naturalmente, problemi legali. Di pratiche illecite, o peggio. Se il dottor
Fine ne viene a conoscenza ma non va a parlarne con la polizia, diventa un
complice del mio crimine? Un co-cospiratore?
"Dottor Canna arrestato!" La
sua carriera rovinata.
Ma se non il mio dottore di fiducia, chi
allora? Potrei raccontarlo ai burocrati della droga? Ma certo! "La marijuana
può essere la cosa giusta per te!" È proprio il genere di buona notizia che
quegli ostinati fanatici antidroga muoiono dalla voglia di sentire. In
questo modo ben poco sottile, la paura -la paura causata dalla proibizione
pervade ogni dialogo sull'impiego medico della marijuana, dividendo i
pazienti dai medici, dagli altri pazienti, dal governo. Sei isolato. È una
cosa da non augurarsi neanche nel momento migliore, nella migliore delle
situazioni.
Quando poi sei giovane e stai per diventare cieco,
l'impossibilità di condividere delle informazioni così vitali con il medico
che ti ha in cura o con altre persone che potrebbero trame vantaggio diventa
assolutamente tremenda. Così iniziò un periodo di obiettivi minimi. Continua
a fumare, tieni la bocca chiusa, e continua a vederci. La vista è
reale.
Tutto il resto è politica.
Il dottor Fine, benché
disorientato dall'improvviso miglioramento delle mie condizioni, fu molto
contento dei risultati. I miei campi visivi in continua erosione si
stabilizzarono. La mia lenta discesa nelle tenebre rallentò, poi si arrestò.
Mentre il mio glaucoma diventava gestibile dal punto di vista medico, altri
aspetti della vita cominciavano ad andare a posto. Mi svincolai
dall'assistenza sociale e intrapresi un lavoro part-time come insegnante in
un college della zona.
Anche lasciando da parte gli incontri spiacevoli
con personaggi della malavita, la marijuana illegale è spaventosamente
costosa, assolutamente deregolamentata e non sempre disponibile. Per far
fronte all'incertezza di un rifornimento adeguato, feci quello che molti
malati tuttora fanno.
Cominciai a coltivare un po' di
marijuana.
Nel 1974 provai a far crescere la cannabis in casa, solo
per vedere voraci squadroni di acari che consumavano con euforia tutto il
mio raccolto. La primavera seguente due piccole piante di marijuana -nate da
semi fatti cadere involontariamente l'anno prima -spuntarono tra le tavole
della mia veranda. Ripiantammo i semi in vaso, ne piantammo qualcun altro in
più, e poi rimanemmo a guardare la
natura che faceva il resto, Entro
la metà dell'estate ricevemmo la benedizione di splendide piante di
marijuana alte un metro e ottanta. Le cose mi stavano andando di lusso. La
mia vista era stabile. Avevo un lavoro. Avevo riscoperto il piacere delle
piccole cose. Alice era venuta a vivere da me. Di lusso. Quelli furono gli
ultimi giorni tranquilli della mia vita.
Mentre eravamo in vacanza
nell'Indiana, gli sbirri della narcotici della zona fecero una perquisizione
in casa mia e sequestrarono le mie piante di marijuana alte un metro e
ottanta. Al ritorno trovai sul tavolo della cucina un certificato con un
messaggio scarabocchiato sul retro che mi sollecitava ad andare a
costituirmi. Allora non potevo saperlo, ma essere arrestato fu quasi la cosa
migliore che avrebbe potuto succedermi. Il mio arresto mi "salvò la vista
".
Quando dissi ai miei avvocati che fumavo marijuana per curare il
mio glaucoma, pensarono che fosse un'affermazione demenziale. Quando si
accorsero che non stavo scherzando, smisero di ridere solo per il tempo
strettamente necessario a chiedermi di dimostrarglielo. Parlai con Keith
Stroup, capo della National Organization for the Reform of Marihuana Laws.
Keith non si mise a ridere.
Invece, mi spiegò in modo dettagliato che non
avevo speranze. Comunque, mi diede qualche numero di telefono e mi suggerì
di provare a chiamare. Così telefonai a vari uffici della burocrazia
federale. Inutile dire che rimasi allibito quando almeno tre funzionari
mi dissero senza esitazioni: "Sì, sappiamo che con la marijuana si cura il
glaucoma. Abbiamo un sacco di dati che dimostrano... ". Lo sapevano! Lo
sapevano e non si erano presi la briga di dirmelo. Lo sapevano, ma non
volevano che nessun altro lo sapesse. Ricordate, tutto questo nel 1975,
non ieri.
Di fronte alla scelta tra esercitare un proibizionismo
cinico, radicato e assoluto, di stampo cattolico, o rispondere onestamente
all'urgente bisogno di cure da parte di numerosi cittadini malati e in
condizioni disperate, i burocrati della droga avevano scelto, naturalmente,
la via dell'inganno per tenere in piedi la truffa istituzionale del cui
segreto erano gelosi custodi. Questa è la ragione per cui i burocrati di
tutto il mondo sono così amati dai cittadini per cui
lavorano.
Dimostrare chela marijuana riduce la pressione intraoculare
non è difficile. Il governo, il mio governo, era perfettamente consapevole
degli effetti benefici della marijuana sul glaucoma fin dall'inizio del
1971. La marijuana è un problema politico, non una semplice questione
medica. D'altronde, non si fanno grossi profitti coltivando erbe medicinali.
I mandarini della medicina che controllano il National Eye Institute (NEI)
non volevano essere coinvolti. Anche loro avevano paura. Finanziare una
ricerca poteva nuocere. Quando chiesi aiuto, il NEI rifiutò di condurre
qualsiasi esperimento con la marijuana perché avrei potuto voler usare quei
dati in tribunale. I più importanti specialisti del paese erano
politicamente ortodossi e molto contrari alla marijuana. Del resto, dicevano
i dottori con aria pensierosa, non potresti comunque fare uso di marijuana.
La marijuana fa "andar fuori" la gente. E noi tutti sappiamo quale minaccia
per la vita possa essere l'euforia.
Alla fine fui sottoposto a due
esperimenti medici altamente controllati. Il primo, condotto all'istituto
oculistico Jules Stein della UCLA, richiese la mia incarcerazione in un
reparto psichiatrico per tredici giorni di osservazione ininterrotta.
Capitai nel bel mezzo di un progetto di ricerca già in corso, che
coinvolgeva sei soggetti sottoposti a ricerche "di routine"; a costoro
veniva somministrato del puro THC sintetico -una copia artificiale del
principio chimico della marijuana che maggiormente altera lo stato mentale.
I ricercatori della UCLA non si limitarono semplicemente a confermare che la
marijuana riduceva la mia pressione intraoculare. Scoprirono che la mia
malattia non poteva essere curata usando le medicine convenzionali contro il
glaucoma. Ridotto a poter usare solo quei farmaci sarei diventato cieco,
proprio come il dottor Fine aveva predetto. Provarono su di me il THC
sintetico [Marinol]. Che farmaco scadente, risibile! Lo stato di euforia
provoca ansia. Gli effetti terapeutici, quando ce ne sono, sono minimi,
transitori, imprevedibili. Ma il THC viene somministrato in pillole. I
burocrati, i ricercatori e i dottori sanno come rapportarsi alle pillole.
Inoltre, sappiamo tutti che così non dovresti fumare. Alla fine, la UCLA
stabilì che la marijuana non era soltanto benefica; era cruciale affinché io
potessi continuare a vedere.
OK. È dimostrato. Andiamo in tribunale.
Ero pronto, ma i miei ansiosi avvocati cospirarono con un dottor Fine
oppresso dall'ansia ancor più di loro per costringermi a un secondo esame di
verifica. Alle Idi di marzo del 1976, un secondo esperimento molto meno
divertente fu condotto all'istituto oculistico Wilmer, della Johns Hopkins
University, dove passai sei dei giorni più penosi della mia esistenza. I
medici del Wilmer avevano ricevuto dal dottor Fine precise istruzioni perché
si trovasse una soluzione convenzionale. Lui non voleva testimoniare in
tribunale.
Allora riversarono su di me ogni farmaco per il glaucoma che
figurasse nel catalogo. Aggirandomi per la biblioteca medica, fui allarmato
dalla quantità di effetti collaterali che risultano comunissimi tra i
consumatori cronici di medicinali contro il glaucoma. Un breve elenco
includeva cataratta, calcoli renali, ulcera gastrica, esantema, febbre,
stati confusionali, improvvisi sbalzi di umore, ipertensione, insufficienza
renale, respiratoria o cardiaca, e infine la morte. I medici dell'istituto
oculistico Wilmer, nonostante la loro gioia apparentemente perversa
nell'espormi agli effetti di farmaci altamente tossici, non erano in grado
di fare una valutazione sulla marijuana. Non c'erano permessi da parte del
governo. Nessuna concessione. In mezzo a tanta meschinità, accadde un fatto
curiosissimo. Feci conoscenza con il mio compagno di stanza, un operaio di
cinquantatre anni della West Virginia che si chiamava Vince. Ci eravamo
appena incontrati, ci eravamo a malapena scambiati i saluti, che Vince
chiese "Hai mai provato della buona marijuana?". Se sono rimasto
sbalordito? Potete scommetterci. Pare che il vecchio Vince si fosse preso un
momento di pausa con un paio di suoi compagni del turno di notte e avesse
fumato erba per la prima volta in vita sua. Tombola! Vince si era accorto
che i suoi aloni andavano via. "Se mi potessi procurare abbastanza
marijuana, quant'è vero Iddio. non sarei qui",. disse Vince in tono
convincente. Due gIorni dopo vidi gli infermieri che portavano Vince, su un
lettino a rotelle, alla criochirurgia: un procedimento spaventoso, doloroso,
in cui si fa congelare, si uccide una parte dell'occhio nello sforzo di
ridurre la pressione oculare. Quella notte Vince gemette, in agonia; le dita
dei piedi gli si torcevano per il tormento. Dopo aver lasciato il Wilmer mi
tenni informato sulle condizioni di Vince per un bel po' di tempo.
L'intervento chirurgico che l'aveva mutilato non gli aveva giovato. Alla
fine, impossibilitato a "procurarsi abbastanza marijuana", Vince diventò
cieco.
Avevo fatto quasi quattro anni di terapia contro il glaucoma,
e Vince era il primo malato di glaucoma che avessi mai incontrato. E Vince
sapeva! Quanti altri sapevano? Alla fine del loro tormento farmaceutico, i
dottori del Wilmer ammisero con riluttanza il loro insuccesso. La diagnosi
della UCLA era corretta: in assenza di marijuana, la mia pressione oculare
era al di là della possibilità di controllo medico. Ignorando i dati del
UCLA sulla marijuana, i chirurghi del Wilmer raccomandarono un immediato
intervento chirurgico.
Che novità! Senza marijuana sarei diventato
cieco. Tutti erano d'accordo su questo. I medici del Wilmer, nel loro zelo
di eludere questo fatto, avevano raccomandato un procedimento chirurgico che
- il dottor Fine lo sapeva - mi avrebbe portato alla cecità. Alla fine
acconsentì a testimoniare in mia difesa. Chiamò in causa l'argomento più
importante: date le premesse, sarebbe stato contrario all'etica di un medico
proibirmi l'uso della marijuana. Il resto, come si suol dire, è storia.
Riassumendo in breve:
- nel maggio del 1976 feci richiesta agli
uffici federali competenti per ottenere immediata disponibilità di marijuana
dal governo;
- in luglio, al mio processo, invocammo l'attenuante legale
-mai sperimentata prima -della "necessità medica".Essenzialmente, un
semplice ragionamento per cui qualsiasi cristiano sano di mente che sta per
diventare cieco violerebbe la legge pur di salvare la propria vista;
-
nel novembre del 1976 i burocrati cedettero. Consegnarono un barattolo con
trecento sigarette di marijuana già rollate al mio nuovo dottore, John
Merritt della Howard University. In questo modo diventai il primo americano
ad aver ottenuto l'autorizzazione a fare uso di marijuana legale, sotto
supervisione medica;
- nello stesso mese, la Corte Suprema del District
of Columbia sentenziò che l'uso di marijuana da parte mia non era un
crimine, ma un fatto di "necessità medica".
Fu il primo caso in cui
l'enunciazione dell'attenuante della "necessità medica" ebbe buon esito
nella storia del diritto consuetudinario inglese.
Per tutto il primo anno
non potei fumare tranquillamente. Anzi, quel primo anno si trasformò in uno
scontro continuo. Parlo sul serio. I burocrati cercarono di dare un giro di
vite. Molto sgradevole. Il diffondersi della notizia aveva sconvolto i
burocrati: altri pazienti ora aspettavano aiuto.
All'inizio del 1978, i
funzionari federali si trovarono con le spalle al muro, presero di petto la
questione e troncarono i miei rifornimenti legali. Controbattei citandoli in
giudizio. Ventiquattro ore dopo che la causa era stata registrata,
pervenimmo a un accordo informale che è tuttora in vigore. Questo accordo mi
assicura una disponibilità di marijuana adeguata dal punto di vista medico
(e non per ricerca) per soddisfare le mie legittime necessità
terapeutiche.2.2.2 1a Testimonianza - glaucoma terminale Elvy Musikka
La
cecità non era una novità per me. Ero nata cieca a causa di una cataratta
congenita e avevo fatto il mio primo intervento chirurgico agli occhi quando
avevo cinque anni. La chirurgia di allora era molto diversa dalla chirurgia
al laser di oggi, ed ero rimasta con parecchio tessuto cicatriziale. Ho
portato degli occhiali molto spessi fino a quattordici anni circa, quando ho
fatto un intervento chirurgico all'occhio sinistro. Qualcosa andò storto e
da allora ho perso gran parte della vista da quell'occhio. Ma con 1/10 di
vista dall'occhio destro e con l'aiuto delle lenti a contatto ero andata
avanti abbastanza bene, fino a quella più recente scoperta.
Ero a
disagio al pensiero di fare uso di marijuana, una droga che, a causa delle
informazioni sbagliate che avevo ricevuto, ritenevo altrettanto pericolosa e
in grado di dare dipendenza quanto l'eroina. Per via della mia ansia, la
prima volta che la provai mi venne la nausea allo stomaco.
Oggi,
ripensando a quella situazione, la trovo particolarmente divertente poiché
ho scoperto che la marijuana è molto efficace nel prevenire e alleviare la
nausea. Ho scoperto anche che alcune persone, come del resto anch'io sulle
prime, cadono in uno stato di paranoia dopo aver consumato marijuana, ma
oggi mi chiedo se questo sia un effetto della pianta in sé o sia dovuto ai
miti di vecchia data sulla sua pericolosità. Non mi capita più di andare in
paranoia quando ne faccio uso -è forse possibile che questo sia un
indizio?
Quell'estate scoprii qualcosa di curioso. Un giorno mi
presentai dal dottore spaventata a morte, dato che il mio amico Jerry e io
avevamo passato la maggior parte della notte precedente a bere champagne.
Immaginavo che ciò avrebbe fatto aumentare la pressione nei miei occhi, e
fui molto sorpresa trovandola atte stata su valori tra 12 e 13. Il medico
mi spiegò che i sedativi come l'alcol, la marijuana e il Demerol riducono la
pressione intraoculare. Lui aveva la sensazione che la marijuana fosse il
meno pericoloso dei tre.
Fumare marijuana mi disgustava
terribilmente, così il mio dottore e io decidemmo che sarebbe stato meglio
per me prenderla sotto forma di biscotti. Mi avvertì che me ne sarebbe
servita di più rispetto a quando la fumavo. Mi diede una ricetta che
richiedeva un'oncia di marijuana per ricavare un 'infornata di ventiquattro
biscotti: una scorta per dodici giorni.
Non sapevo dove andare a
prendere la marijuana e non sempre avevo la possibilità di procurarmela. Una
volta che la mia pressione intraoculare era diventata troppo alta, il mio
medico se ne procurò un po' per me. Mi fu consegnata a mano dalla sua
segretaria. Povera donna, come tremava!
Le sue mani erano fredde come il
ghiaccio quando mi porse il sacchetto. Ringraziai Dio per la compassione di
quelle persone. Sapevo che il prezzo corrente di un'oncia andava dai trenta
ai quaranta dollari, ma la segretaria mi chiese soltanto quindici dollari.
Una cosa del genere non
poteva continuare, naturalmente, così cercai di
ottenere la marijuana legalmente.
Non riuscivo a trovarne a
sufficienza, così dovevo continuare a prendere la pilocarpina. Quando la
pilocarpina ricominciò a farmi vedere i cerchi, il mio medico era fuori
città e dovetti andare in un'altra clinica. Quando il medico ospedaliero
preposto all'assistenza si rese conto che stavo facendo uso di marijuana per
curare il mio glaucoma, sembrò molto disgustato. Mi sbatté in faccia due
prescrizioni e mi mandò a casa senza avermi dato istruzioni o avvertimenti.
Quei due farmaci sono stati i più orribili in cui mi sia mai imbattuta in
vita mia. Il Diamox mi consumò tutto il potassio che avevo in corpo e mi
lasciò completamente apatica. I miei bambini dovevano arrangiarsi da soli
perché, quando tornavo a casa, potevo soltanto andare a letto. In quel
periodo non avevo abbastanza denaro per comprare il secondo farmaco, lo
ioduro di fosfolina, che alla fine provai, trovandolo insopportabilmente
doloroso.
Mi rivolsi al giornale della mia città e raccontai a un
giornalista del mio uso della marijuana nel corso di un 'intervista
telefonica. Parlai senza dare il mio nome o una fotografia, perché temevo di
perdere il mio posto di lavoro e l'affidamento dei miei figli. Tuttavia
molte persone capirono che quella storia era la mia e vennero allo scoperto,
confessandomi che fumavano marijuana regolarmente e promettendo che mi
avrebbero aiutato a trovare la marijuana quando fosse stato possibile.
Potete immaginare la mia sorpresa! Alcune di queste persone erano colleghi
di lavoro, altri erano membri rispettabili della comunità. Nessuno di loro,
neanche uno, era un balordo, come io ero stata indotta a pensare che ogni
fumatore di marijuana dovesse essere.
Nel gennaio del1977, il mio
dottore mi mandò a un centro di ricerca dell'Università di Miami. Pensava
che avrebbero potuto aiutarmi a ottenere la marijuana legalmente. Ma gli
zelanti scienziati del centro non volevano neanche sentire la parola "m".
Anzi, là trascorsi uno dei giorni più estenuanti della mia vita. Quando
arrivai la mia pressione intraoculare era ben sopra il 50 dall'occhio destro
e superava di molto il 40 dall'occhio sinistro. Mi fecero prendere tutto
quello che gli veniva in mente. Le gocce non fecero molto, e nemmeno mi
giovò l'uso di una piccola pompa per lavare gli occhi. Fui anche costretta a
bere un grosso bicchiere di un liquido disgustosamente dolce, che comunque
non mi fu d'aiuto. Alla fine della giornata la mia pressione si era a
malapena ridotta a valori attorno al 40, perciò mi misero in lista per un
intervento chirurgico di emergenza.
A casa, quella sera, usai quel
po' di marijuana che mi rimaneva per preparare alcuni biscotti, e ne mangiai
uno ogni dodici ore. Il lunedì mattina seguente, quando mi presentai per
l'intervento chirurgico, i dottori mi misurarono la pressione e rimasero
stupefatti: perfettamente normale, tra 14 e 161 Ciononostante mi prepararono
per la chirurgia, anche se l'intervento aveva al massimo il 30% delle
probabilità di arrecarmi beneficio. La mattina seguente effettuarono sui
miei condotti lacrimali un intervento che si rivelò inutile. A causa di
quell'intervento, oggi devo portare quelle grosse lenti d'ingrandimento che
ero riuscita a evitare fin dall'infanzia. Dopo tutta la trafila, mi
ritrovavo con la vista più debole, un tessuto cicatriziale più esteso, la
pressione più alta, e non ero in grado di tornare a lavorare.
Ora
dovevo affrontare non solo il glaucoma, ma anche la depressione e la
povertà. Ci sarebbero voluti almeno nove mesi prima che la previdenza
sociale potesse emettere un certificato di invalidità. Mi sentivo umiliata
per il fatto di dover ricorrere ai buoni pasto, ma ero contenta che fossero
disponibili. Mi venne l'insonnia. La marijuana era più difficile da
ottenere, ora che non avevo soldi per comprarla. Alle volte qualche persona
compassionevole me ne dava un po' e la mia insonnia scompariva. Era
certamente il miglior antidepressivo in cui mi fossi mai
imbattuta.
Nel 1980 avevo ancora pochi soldi e il prezzo della
marijuana era aumentato, così cominciai a coltivarmela in casa. Usavo i semi
più fini, dai quali nascono piante piccole, difficili da individuare ma
produttive. Mi bastavano tre o quattro spinelli al giorno. La mia pressione
si attestò su valori così vicini a quelli normali che i miei medici
stabilirono che un trapianto di cornea non sarebbe stato pericoloso.
Funzionò! Non avevo mai avuto una vista così buona, era meraviglioso! Ero
felicissima... prima che i vicini scavalcassero lo steccato del mio giardino
e rubassero le mie piante di marijuana.
La mia pressione intraoculare
andò alle stelle e io presi a rifugiarmi nell'alcol per la maggior parte del
tempo. Quando cominciai ad avere dei leggeri black-out compresi che l'alcol
non era una soluzione. Così, con riluttanza e piena di paura, mi sottoposi
ancora a un intervento chirurgico.
Questa volta insorse una emorragia, e
prima ancora che me ne potessi accorgere il mio occhio destro era diventato
cieco. A quel punto avevo soltanto 1/20 di vista dall'occhio sinistro;
avreste potuto illuminare la mia camera da letto con delle forti lampade
mentre dormivo e io non mi sarei svegliata. Ero molto depressa. La cosa più
dolorosa erano i sogni felici nei quali io ci vedevo da entrambi gli occhi
ed ero quella di una volta. Poi mi risvegliavo per trovarmi priva dell'uso
dell'occhio destro.
Avevo bisogno di soldi e avevo una stanza in più
in casa mia, così misi un annuncio sul giornale e mi trovai un pensionante.
Mi assicurò che non faceva uso di droghe illegali e che non avrebbe detto a
nessuno che io coltivavo marijuana. Ma presto il suo comportamento
eccentrico mi convinse che doveva esserci qualche problema e,
effettivamente, trovai della cocaina sotto il lavandino del bagno. Sulle
prime negò di fare uso di droghe, ma pochi giorni dopo lo ammise. Disse che
aveva bisogno della cocaina perché nella sua posizione di venditore di auto
era tenuto a lavorare sette giorni alla settimana, dieci ore al giorno. Gli
risposi che non mi interessavano le sue ragioni; se ne sarebbe dovuto
andare. Acconsentì ad andarsene, ma man mano che si avvicinava il momento
diventava sempre più riluttante. Discutemmo animatamente, e lui mi denunciò
alla polizia.
Mi arrestarono la sera del 4 marzo 1988, e questo fatto
cambiò la mia vita per sempre. Informai i mass media, e stavolta il giornale
della mia città mi fotografò e pubblicò per intero il seguito della mia
storia. Fui contattata da persone che erano riuscite a ottenere la marijuana
legalmente, e così il mio medico e la sua segretaria passarono almeno
cinquanta ore sugli incartamenti da sottoporre alla DEA, alla FDA e alla
NIDA nello sforzo di procurarmi della marijuana legale. Partecipai a
parecchie trasmissioni radiofoniche, e fu sempre un'esperienza straziante
perché quasi sempre c'era qualcuno che aveva perso la vista inutilmente.
C'erano anche cittadini sinceramente in apprensione, che si preoccupavano
per la mia dipendenza da una droga orribile e che si auguravano di cuore che
ci fosse un'altra soluzione per me. Naturalmente, queste persone non erano
nei miei panni e non lo erano state negli ultimi dodici anni, per cui non si
rendevano conto che non c'erano effetti collaterali che io dovessi temere.
Cominciai a ricevere notizie da persone di tutta la nazione, alcune persino
dal Canada. Fu sconcertante: molti di loro erano malati di glaucoma e
avevano conservato la vista per venti, venticinque anni grazie alla
marijuana; ancora oggi continuano a consumarla illegalmente. Li invidiai
perché avevano preso una posizione coraggiosa in difesa della propria
salute, perché sapevano quello che facevano e si erano presi cura di se
stessi.
Ma ormai non c'era più rimedio per me. Dovevo affrontare i
miei capi d'accusa. In Florida, il possesso di più di venti grammi di droga
è un reato, e a me ne avevano sequestrata un'oncia e mezza che avevo appena
tagliato da una pianta il lunedì precedente.
Il mio processo cominciò e
finì il15 agosto 1988. Una cosa la sapevo: se stavo andando in tribunale io,
ci stava andando anche quella legge ingiusta. Non avevo paura. Sentivo che
Dio e suoi angeli erano con me. Non mi sbagliavo: l'unica persona che
trovarono che potesse testimoniare contro di me era l'ufficiale che mi aveva
arrestata, e non direi che lui ce l'avesse con me. I malati di glaucoma
testimoniarono a mio favore, e il mio medico dichiarò che la marijuana era
l'unica sostanza che mi avesse mai arrecato sollievo in modo sistematico. Mi
fu chiesto se avessi fumato marijuana, dopo il giorno del mio arresto e io
risposi di sì. "Avete fumato marijuana oggi?" "Naturalmente", replicai. Il
giudice ascoltò con attenzione e stabilì che non tentare di salvare quel po'
di vista che mi rimaneva sarebbe stato, da parte mia, un atto di follia
pura. Disse che da parte mia non c'era nessun proposito di attività
criminosa, e fui assolta. Avevo fatto richiesta di "Compassionate IND" nel
marzo del 1988 e mi fu concesso l'uso legale di marijuana fornita dal
governo a partire dal 21 ottobre 1988.
Nel mio occhio destro la
vista sta tornando. Ora ho percezioni di luci, colori e forme. Nel mio
occhio sinistro, che prima era a 1/20 ma adesso è a 2/10, il nervo ottico è
in ottime condizioni e non ho avuto perdite di visione periferica. È un dato
di fatto che ci sia stato un miglioramento. È un miracolo: è la
cannabis.2.3 Epilessia
Le crisi parziali
accompagnate da un'alterazione dello stato di coscienza, note come crisi
parziali complesse, sono causate da una lesione ai lobi frontali o temporali
della corteccia cerebrale. In passato erano note come crisi psicomotorie, in
quanto i sintomi interessano anche l'attività motoria (smorfie e movimenti
ripetuti della bocca o delle mani sono particolarmente comuni). Quando la
sovraeccitazione è confinata a un'area molto piccola, il malato di epilessia
può avere una strana sensazione di déja vu, vertigine, paura, o può sentire
uno strano odore senza capire da dove venga. Questa sensazione, nota come
aura, può essere seguita o meno da una vera e propria crisi parziale
complessa.
L'epilessia viene curata
principalmente con farmaci anticonvulsivanti, che però sono efficaci solo nel
75% dei casi. Le crisi focali e l'epilessia del lobo temporale, in
particolare, sono difficili da curare con gli anticonvulsivanti convenzionali.
Oltretutto, i farmaci anticonvulsivanti hanno effetti collaterali
potenzialmente gravi, tra i quali osteomalacìa, anemia perniciosa (legata a
una produzione insufficiente di globuli rossi), gonfiore gengivale e turbe
emotive. Le dosi eccessive o le reazioni idiosincratiche possono causare
ristagno (movimenti rapidi e incontrollabili degli occhi), perdita di
coordinazione motoria, coma, e persino la morte.
Sebbene le proprietà anticonvulsivanti della
cannabis siano note fin dall'antichità e siano state studiate a fondo nel XIX
secolo, questa possibilità di impiego terapeutico della marijuana è stata
ampiamente ignorata negli ultimi cent'anni. Una rara eccezione è rappresentata
da un breve articolo di J.P. Davis e H.H. Ramsey pubblicato nel 1949. Questi
due ricercatori studiarono gli effetti di due congeneri del
tetraidrocannabinolo su cinque bambini che ricevevano assistenza in un
istituto per le loro gravi forme epilettiche di grande male, che non era
possibile curare adeguatamente con i farmaci anticonvulsivanti convenzionali,
il fenobarbitale e la fenitoina (Dilantin@). Tre di loro non peggiorarono; al
quarto le crisi cessarono quasi completamente, e al quinto completamente.
La letteratura medica continuò a tacere su questo argomento fino al
1975, quando fu descritto il seguente caso di grande male:
A 22 anni il paziente cominciò a fumare
marijuana (dai due ai cinque spinelli per sera), proseguendo comunque nella
terapia con i farmaci anticonvulsivanti che gli erano stati prescritti.
Durante questo periodo, le crisi non si manifestavano fintantoché il
paziente continuava ad assumere la combinazione di tutt'e tre le sostanze.
Questa condizione non poteva essere mantenuta grazie alla sola marijuana,
dato che in due occasioni egli sperimentò una crisi tre o quattro giorni
dopo aver interrotto la cura prescritta.
Malgrado le istituzioni mediche continuino a
mostrare scarso interesse, un numero sempre maggiore di persone affette da
epilessia sta scoprendo l'utilità della cannabis. Carl Oglesby soffre di
crisi parziali complesse; la crisi si origina a partire dal lobo temporale e
si propaga, rimanendo comunque relativamente focale:2.3.1 1a Testimonianza - crisi parziali complesse Carl Oglesby
Il mio disturbo si è manifestato per la prima volta quando
avevo quindici o sedici anni e ha continuato a manifestarsi fino alla mia
attuale età di cinquantaquattro anni, con una frequenza variabile da una
mezza dozzina a due dozzine di attacchi epilettici al giorno. Gli attacchi
variano nella durata (da mezzo minuto a un minuto) e nell'intensità, ma mai
nella forma. Ci sono sempre due stadi. Il primo è uno stadio iniziale o di
aura, il secondo è caratterizzato dallo spasmo facciale che rappresenta il
momento cruciale della Crisi.
Il primo avvertimento giunge sotto
forma di una sensazione sottile eppure ineffabilmente corporea, un senso di
sorpresa, chiaramente sgradevole, di leggerezza e perdita di fisicità, una
sorta di palpitante solletico interiore e vertigine. Dapprima è concentrato
nel torace, ma si propaga alla testa nel giro di pochi secondi e abbraccia
l'intero contesto dell'attività mentale. Vale a dire che sono ancora in
grado di parlare e di sostenere una linea di ragionamento, ma ciò richiede
uno sforzo particolare a causa di un senso di agitazione generale anche se
intima.
Sono consapevole di alcune manifestazioni fisiche che non
riesco a controllare durante la crisi. Le narici si mettono a tremare, gli
occhi ballano e scintillano, la voce mi si strozza e il suo timbro diventa
irregolare, il diaframma si contrae, il respiro si fa discontinuo e mi sento
vagamente disorientato. E come se il mio corpo si eccitasse, quasi
piacevolmente da questo punto di vista, ma in assenza di qualunque
referente, contesto o movente sociale o mentale. Dal momento che la perdita
del controllo fisico di se stessi provoca sempre sconcerto, un'esperienza
che presenta una specie di grossolana somiglianza con l'euforia diventa
fonte di impotenza e timore.
La crisi propriamente detta sorge come
un crescendo a partire dallo stato di aura ed è in parte un
'intensificazione dell'aura. La sua componente dominante consiste in un
ghigno fisicamente irrefrenabile che prende tutto il lato destro del viso
senza interessare minimamente il lato sinistro. Tutte le altre
manifestazioni del disturbo, per quanto ne so, sono bilaterali. Tutti e due
gli occhi brillano, entrambi i lati del diaframma si contraggono, tutte e
due le narici tremano. Il rictus, che invece è uniformemente localizzato sul
lato destro, è il punto d'arrivo della crisi, il culmine verso il quale la
fase di aura cresce. Lo stadio di aura è essenzialmente privato ed è facile
da nascondere, ma il rictus mi espone a delle conseguenze sul piano sociale.
Posso celarlo solo nascondendo il viso o distogliendo l'attenzione da
me.
Le prime volte in cui il disturbo si manifestò, non riuscivo a
capirlo o a spiegarlo e provavo troppa vergogna per chiedere aiuto. I miei
genitori, persone poco raffinate, mi rimproveravano per quello che mio padre
chiamava il mio "ghigno ebete" (con frasi come "togliti quel ghigno ebete
dalla faccia"). Quando cercai di spiegarlo ai miei amici, replicarono che
avrei dovuto ridere se mi veniva da ridere. Non riuscii a fargli capire che
non mi veniva da ridere: o che, forse, sì, mi veniva, ma la sensazione mi
prendeva come se provenisse da qualche altra parte e non avesse connessioni
con qualunque pensiero o percezione o motivazione comune. Non riuscivo a
dare l'idea di questo senso di estraneità, dell'essere posseduti da qualcosa
al di là della coscienza.
Così lasciai perdere, decisi che questa
cosa vergognosa, il mio ghigno ebete, me la sarei tenuta per me il più
possibile, e misi a punto un repertorio di tecniche di dissimulazione. Mi
riconosco il merito di non essere diventato un asociale. Mi sono impegnato
nei dibattiti alla scuola superiore e al college, ho intrapreso un lavoro
che mi ha costantemente tenuto a contatto con la gente, e in seguito,
passati da poco i trentanni, ho giocato un ruolo chiave (come presidente
dell'associazione "Studenti per una Società Democratica ", SDS) nel
contrastare la Guerra del Vietnam. Ho addirittura recitato sulla scena per
diversi anni durante il college e l'ho fatto con grande piacere, benché alla
fine abbia dovuto ammettere che il mio disturbo mi rendeva impossibile
recitare.
Se l'attacco epilettico minacciava di manifestarsi in un
momento inopportuno - il che accadeva sistematicamente - avevo una vasta
gamma di possibili contromisure. Se stavo tenendo banco in una
conversazione, ero solito sviare l'attenzione da me in qualunque modo,
spesso semplicemente ponendo una domanda a qualcuno. Se necessario inscenavo
un piccolo accesso di tosse, prendevo un bicchiere d'acqua e lo tenevo
davanti al viso per mascherare il rictus. In altre situazioni potevo
accorgermi opportunamente di un pezzetto di mela che si era infilato in un
molare superiore sul lato destro della bocca. Informai solo i miei amici più
intimi del problema che avevo.
Col passare degli anni diventai
provvisoriamente più raffinato e mi imbattei in teorie che sembravano
offrire una spiegazione o perlomeno un 'interpretazione del mio disturbo, in
particolare la celeberrima psicanalisi freudiana che era così
imprescindibile negli anni '50 e '60. Per un lungo periodo feci mia la
convinzione che il mio ghigno ebete fosse di origine psicosomatica e che
sarei riuscito ad andare alla radice del problema, e magari a risolverlo,
soltanto grazie alla psicoanalisi. Prima che potessi esplorare questa
possibilità, comunque, un dottore in medicina del quale mi fidavo mi
persuase che (a) il mio disturbo probabilmente rappresentava una forma di
epilessia, e (b) i mezzi di cui disponevo per affrontarlo erano
probabilmente altrettanto validi quanto qualunque altra cosa che la medicina
ufficiale avrebbe potuto offrirmi.
Come molte persone negli anni '60,
avevo avuto a che fare con la marijuana in numerose occasioni, ma per
diversi anni avevo resistito alla tentazione di fumarla. Ero molto in vista
nella mia qualità di funzionario nazionale della SDS e mi sentivo obbligato
a evitare di gettare discredito sull'organizzazione; tra l'altro, la SDS
aveva preso una posizione netta contro la marijuana proprio a seguito della
mia insistenza. Inoltre, a differenza della maggior parte dei militanti del
movimento, ero un uomo di famiglia, padre di tre bambini, verso i quali
sentivo la normale responsabilità di genitore come la si intendeva
nell'America degli anni '50.
Ma nel 1970 o giù di lì, con la SDS
distrutta, la guida del movimento antimilitarista in altre mani e le mie
pretese di padre vittime di un divorzio e di una separazione, la curiosità
prese il sopravvento e cominciai a provare la marijuana in situazioni di
gruppo. Scoprii presto che i miei disturbi svanivano quando ero sotto
l'effetto della droga. Dopo pochi tiri, l'aura e la sua ascesa al temuto
rictus semplicemente non si manifestavano per due o tre ore.
lo
apprezzavo anche i piaceri dello stato di euforia in sé. A differenza
dell'alcol, la marijuana non rappresentava una minaccia per l'autocontrollo,
anzi migliorava la mia capacità di parlare in modo estemporaneo. Tutto
questo non sarebbe comunque bastato a fare di me un consumatore abituale,
poiché ero sempre un po' dispiaciuto all'idea di fumare. Ma il potere che la
marijuana aveva di eliminare i miei disturbi mi indusse ad adottarla come un
vero e proprio medicinale. Diversi mesi fa ho deciso di abbandonare questa
forma di automedicazione e di subirne semplicemente le conseguenze: più
tollerabili per me oggi che non nel 1970, dato che mi capita molto meno
spesso di essere invitato a parlare in pubblico (faccio ancora magari una
dozzina di conferenze pubbliche all'anno). Ciononostante, il ritorno dei
miei disturbi mi rattrista e in una certa misura mi deprime, così sono
andato in cerca di assistenza medica qualificata nella speranza di trovare
un'alternativa legale, sicura e praticabile.2.3.2 2a Testimonianza - grande male e crisi di assenza Gordon Hanson
Ecco la sua testimonianza:
Arrivare a casa per cena era un'esperienza
piacevole sia per me, sia per il mio fedele fox terrier. Vivere in Minnesota
era poco meno che una benedizione. Ero nato nel 1938, il più piccolo di otto
fratelli in una famiglia di immigrati di origine scandinava sbarcati in
America all'inizio del secolo. Quando ero nato io mia madre aveva
quarantanove anni, e il più giovane dei miei fratelli ne aveva nove.
Numerose immagini d'amore riempivano la mia vita, sebbene le cose materiali
non fossero altrettanto abbondanti.
Mio padre, come i nostri vicini,
ricavava una modesta rendita dalla sua piccola fattoria con cascina. Quella
sera di settembre mi sentivo molto assonnato e mi ritirai prima delle dieci
di sera. Il risveglio fu un turbine di confusione e depressione, seguito da
nausea, mal di testa e un indolenzimento muscolare che sembrava interessare
tutto il corpo. I miei familiari erano tutti intorno alletto, con i volti
pieni di preoccupazione. Non appena si fece giorno mi spronarono perché
andassi a farmi visitare dal nostro medico di famiglia a Baudette. La sua
diagnosi mi fece sentire ancor più spaventato e depresso. Come potevo avere
l'epilessia?
La mia malattia fu tenuta segreta il più possibile. Col
passare degli anni, imprevedibili attacchi di piccolo male cominciarono a
manifestarsi, mentre il grande male - seppure meno frequente - continuava a
lanciare incalzanti segnali del suo avvicinamento; suoni privi di
significato o di una sorgente riconoscibile, incapacità di parlare, e infine
la paralisi strisciante che lentamente inghiottiva il mio corpo.
L'incoscienza occultava ogni sintomo fino a quando non riacquistavo i sensi.
Ustioni e ossa rotte non erano cosa rara, e tuttavia non erano così funeste
come la profonda depressione in cui mi maceravo.
Le combinazioni di
farmaci come Dilantin, Mysoline e fenobarbitale fecero diminuire il numero
degli attacchi epilettici ma chiaramente non risolsero i miei
problemi.
Accadeva spesso che una profonda tristezza opprimesse la mia
vita per giorni interi. Naturalmente si riteneva che l'epilessia ne fosse la
causa: nessuno mi aveva mai detto che i farmaci che si usano per evitare le
crisi hanno anche dei brutti effetti collaterali. Per qualche anno andai
avanti a bere alcol, che però offriva evasioni troppo effimere. Alla fine
incontrai una ragazza che volevo sposare, ma siccome avevo paura che mi
avrebbe rifiutato, non le dissi nulla dei miei disturbi epilettici prima del
nostro matrimonio.
La nostra giovane età e il dono di una figlia ci
protessero dal dolore per breve tempo. Ma le cose necessarie alla
sopravvivenza diventavano sempre più difficili da ottenere, e gli attacchi
di epilessia diventavano più frequenti. Mia moglie cominciò a bere per
nascondersi da una persona che ora aveva cominciato a temere, a causa degli
strani disturbi e dei successivi stati di apatia che creavano una sindrome
da dottor Jekyll e Mr Hyde. La sua dedizione all'alcol e la mia reazione a
essa accrebbero la nostra infelicità, che fu alleviata solo per breve tempo
dalla nascita di un'altra figlia e di un figlio all'inizio degli anni '60. I
miei disturbi e i miei problemi finanziari aumentavano.
Alla fine
degli anni '60 ebbi a che fare con la legge in più occasioni. All'inizio
degli anni '70 i bambini furono temporaneamente allontanati da casa nostra.
La corte mi ingiunse di rivolgermi a un consulente matrimoniale; questi
suggerì che avrei potuto provare la marijuana per ridurre gli effetti
depressivi del fenobarbitale e al tempo stesso contenere gli attacchi
epilettici. Quel suggerimento mi sembrò assurdo, dato che il mio
atteggiamento era lo stesso della maggioranza: la marijuana era una droga il
cui nome si poteva a malapena sussurrare, indiscutibilmente malefica! Grazie
a Dio, cominciai a documentarmi sulla pianta e feci anche ricerche presso
altre fonti, tra le quali l'Università del Minnesota. Scoprii che era stata
usata a scopo medico nei secoli passati, e cominciai a fumarla
regolarmente.
Nel 1976 avevo ormai ridotto la mia dose di
fenobarbitale, Dilantin e Mysoline del 50% circa. Le crisi erano diventate
meno frequenti e gli sbalzi d'umore erano andati scemando, almeno quando la
marijuana era disponibile. Nel 1976 fui arrestato per il possesso di una
piccola quantità, e da allora trovai più difficile acquistarla. Il giudice
mi disse di consultare un dottore. Il dottore non negò l'utilità della
marijuana a scopo medico, ma siccome era illegale mi suggerì di prendere il
Valium. Per quasi due anni presi due compresse di Valium al giorno, ma
questo fece di me uno zombie ambulante, e comunque avevo ancora i
blackout.
Nel 1978 mia moglie fu ricoverata in ospedale per tre
giorni perché aveva scambiato il fenobarbitale per aspirina mentre era
ubriaca. Quel fatto mi convinse a buttar via tutto il fenobarbitale e il
Valium che mi rimanevano. Grazie a quella rinuncia ritrovai la lucidità
mentale. Decisi, quella primavera stessa, di provare a far crescere delle
piante da
semi che avevo accumulato. Ebbi un discreto successo. Di anno
in anno vennero nuovi metodi per migliorare la qualità, lasciando i ricordi
spiacevoli alle spalle. Nel 1982, ormai coltivavo in giardino abbastanza
marijuana da poter ridurre ulteriormente il mio consumo di farmaci. Gli
attacchi di grande male erano svaniti e gli attacchi di piccolo male
ammontavano a meno di dieci all'anno. Sfortunatamente, quell'estate
trovai la polizia che guardava in cagnesco il mio raccolto di erba, e così
fui arrestato per il possesso di quello che loro chiamavano un grosso
quantitativo. Continuai a coltivare le mie piante mentre aspettavo l'esito
di un lungo contenzioso legale che si concluse nel 1985 con una condanna a
due mesi di prigione. Mi diedero più compresse, ma in carcere gli attacchi
epilettici mi vennero ancora. Mi fu prescritto un altro farmaco, il Tranxene
[clorazepato, un farmaco che combatte gli stati ansiosi e rilassa i muscoli
in modo simile al Valium], ma lo usai pochissimo perché mi accorsi che i
suoi effetti erano simili a quelli del Valium.
Quando mi rilasciarono
ricominciai a fare uso di marijuana per alleviare sia i blackout, sia gli
effetti collaterali delle pillole. La nostra vita familiare diventò
piacevole mentre gli anni scivolavano via dolcemente. Un raccolto medio di
quaranta piante di canapa offerte dalla natura riduceva il mio fabbisogno di
prodotti chimici fatti dall'uomo a una dose di Dilantin e una di Mysoline al
giorno. Ormai gli attacchi di piccolo male capitavano cinque volte all'anno
o meno, per lo più in inverno, quando finivo la marijuana. La vita diventò
molto più armoniosa.
Nel 1988 ci fu siccità, la mia marijuana crebbe
a stento e così fui costretto a comprarne per strada solo quattro mesi dopo
il raccolto. Il prezzo corrente era aumentato così tanto che potevo a
malapena affrontare la spesa. Gli amici mi aiutarono fino alla successiva
stagione di raccolto, ma avevo ancora molti disturbi quando la marijuana
veniva a mancare. Deciso a non farmi trovare a corto di marijuana per una
seconda volta, nel 1989 ne piantai il triplo, cimando ogni pianta in modo
che assomigliasse a una pianta di pomodoro, bassa e cespugliosa.
Alla
fine di luglio ne raccolsi un paio e le lasciai nel nostro vecchio granaio
perché si essiccassero. Il resto della storia è una tragedia: cinque agenti
di polizia che bussano alla mia porta quando non sono ancora le sei del
mattino e che tengono mia moglie, mio figlio e me sotto tiro. Mio figlio
perse il suo impiego perché quella mattina non gli fu consentito di andare
al lavoro. Inutile dirlo, tutto la marijuana fu sequestrata. Dopo aver
pagato una cauzione fui rilasciato, solo per rivivere quell'esperienza nei
miei sogni, ogni notte per settimane. Da quel giorno la mia vita è stata un
esperimento che ha fugato tutti i miei dubbi sulle proprietà medicinali
della marijuana. A causa dell'impossibilità di procurarmene ho subito quasi
duecento attacchi di epilessia, tra i quali parecchi di grande
male.
Il 22 giugno 1991, quello che avevo temuto accadde. Una
telefonata dal mio avvocato di Minneapolis mi informò che dovevo presentarmi
alla prigione della Contea di Roseau per una condanna a sei mesi. La Corte
Suprema del Minnesota aveva respinto il mio ricorso in appello. Ora sono
seduto in una cella, senza che siano stati presi provvedimenti per la mia
sicurezza personale. La cella è isolata. Non ho modo di comunicare con
l'ufficio del secondino e ai due detenuti con i quali divido la cella non è
stato detto cosa fare nel caso di un mio attacco epilettico.
Fa uno
strano effetto ricordare i primi anni '70, quando mi era stato detto di
rivolgermi a un consulente matrimoniale che mi aveva consigliato di usare la
marijuana anziché i farmaci. Ora la legge mi ha allontanato da mia moglie
per aver dato ascolto a quel suggerimento, che aveva centrato l'obiettivo di
contenere i miei disturbi e di riportare l'amore fra noi. Ora la legge mi
obbliga ancora una volta a prendere farmaci. Temo che i numerosi, terribili
effetti collaterali torneranno e mi faranno ridiventare quella crea tura da
incubo che ha causato tanta angoscia a mia moglie e alla mia famiglia. Non
posso aspettarmi che mia moglie
accetti una situazione del genere ancora
una volta, dopo che avevamo trovato una soluzione scoprendo la creazione
divina di un'erba così meravigliosa e benefica. Apparentemente la mia unica
alternativa è non usare affatto farmaci o droghe, quando sarò rilasciato.
Ciò causerà molte tribolazioni inutili non solo a me ma anche a mia moglie,
che dovrà convivere con i miei disturbi e con gli stati depressivi che ne
conseguono. Posso solo pregare che il nostro governo riconosca gli
impieghi edici della marijuana prima della mia scarcerazione. Altrimenti,
non posso aspettarmi che Connie mi accetti a casa.
Sclerosi multipla
I sintomi variano a
seconda della parte del sistema nervoso centrale affetta da demielinizzazione.
Siccome il cervello e la spina dorsale controllano tutto il corpo, gli effetti
possono manifestarsi pressoché in qualsiasi punto di esso. Alcuni sinto mi
comuni sono rappresentati da formicolio, torpore, indebolimento della vista,
difficoltà nel parlare, spasmi muscolari dolorosi, perdita di coordinazione e
di equilibrio (atassia), esaurimento, debolezza o paralisi, tremori,
incontinenza urinaria, infezioni delle vie urinarie, stitichezza, ulcerazioni
della pelle e grave depressione.
Non si conosce
nessuna cura efficace. I corticosteroidi, in particolare l'ormone
adrenocorticotropo (ACTH) e il prednisone alleviano in una certa misura i
sintomi acuti, ma inducono anche un aumento di peso e alle volte causano
confusione mentale. I farmaci più comunemente usati per curare gli spasmi
muscolari sono il diazepam (Valium@), il baclofene (Lioresal@) e il dantrolene
(Dalltrium@). Il diazepam e altri farmaci del gruppo della benziazepina, che
devono essere somministrati in dosi massicce, causano sonnolenza e possono
indurre dipendenza. Sia il dantrolene, sia il baclofene hanno scarsa utilità
medica. Il baclofene è un sedativo che talora causa capogiri, debolezza o
stati confusionali. Il dantrolene è una risorsa estrema a causa dei danni
potenzialmente letali che arreca al fegato; anch'esso ha svariati altri
effetti collaterali, tra i quali sonnolenza, capogiri, debolezza, malessere
generale, crampi addominali, diarrea, disturbi alle funzioni visive e del
linguaggio, colpi apoplettici, mal di testa, impotenza, tachicardia,
fluttuazioni della pressione sanguigna, depressione clinica, mialgia, senso di
soffocamento e confusione mentale. Comprensibilmente, molti pazienti non
riescono a sopportare gli effetti collaterali dei farmaci convenzionali
nell'immediato o si preoccupano per gli effetti a lungo termine.2.4.1 1a Testimonianza - Greg Paufler
una nevrite, disse che il mio problema si
sarebbe risolto in pochi giorni e mi prescrisse un supplemento di vitamine.
Nel giro di una settimana il torpore era passato, ma cominciavo ad avere
difficoltà a mantenere l'equilibrio e alle volte avevo problemi a
camminare.
All'inizio della primavera del 1974, la mia salute era
molto peggiorata, nonostante continuassi a prendere le vitamine.
Il mio
frequente inciampare e cadere divenne motivo di ilarità per i colleghi della
compagnia di assicurazioni dove lavoravo come venditore. Altri impiegati
erano soliti chiedermi ridendo se avevo bevuto. Il mio capoufficio si
lamentava del fatto che visitassi meno clienti e che compilassi meno ordini.
Gli dissi che il torpore che avevo alle gambe mi rendeva difficile guidare e
che trovavo sempre più faticoso scrivere (non gli confessai che non ero
quasi più in grado di scrivere). Lui non sembrò soddisfatto di queste
spiegazioni. Poco tempo dopo un collega, mio amico intimo, mi convinse a
rivolgermi a un altro medico. Entrando nella sala d'attesa del dottore caddi
lungo e disteso a faccia in giù, ferendo mi un ginocchio. L'infermiera mi
aiutò a entrare nello studio. Cercai di stare sulle mie gambe e caddi
ancora. Spiegai al dottore che avevo acuti spasmi e torpore alle gambe, e
che non riuscivo a capire dove fossero i miei piedi se non guardando li. Il
dottore, un medico generico, insistette per un ricovero ospedaliero
immediato, nonostante le mie proteste; disse che potevo avere un tumore al
cervello.
Rimasi in ospedale per sette giorni di osservazioni e
analisi mediche, condotte da una squadra di medici capeggiata da un
neurologo. Durante quel periodo persi ogni controllo sulle mie membra e
provai spasmi gravi e dolorosi. Le braccia e le gambe divennero insensibili.
Non ero più in grado di camminare. Mi fecero delle iniezioni endovenose di
ACTH, un potènte steroide che non mi fece nulla; mi teneva soltanto sveglio
e faceva aumentare enormemente il mio appetito. Il giorno in cui fui
dimesso, il neurologo soprintendente mi disse che soffrivo di sclerosi
multipla.
Mi disse che non esistevano cure, ma che farmaci
come l'ACTH potevano rallentarne il corso della malattia. Poi mi disse
di andare a casa e prendermi un bel riposo. Mi fissò un appuntamento perché
ci vedessimo nel suo studio: appuntamento che, di fatto, non riuscii a
rispettare perché ero troppo debole per muovermi. Allora il dottore fece
venire a casa nostra un 'infermiera perché mostrasse a mia moglie come farmi
le iniezioni di ACTH.
Poco tempo dopo che ero tornato a casa, mentre
ero costretto a letto, alcuni amici vennero a farmi visita e fumammo
qualche sigaretta di marijuana. Dopo mi sentii meglio, ma attribuii
quell'effetto al leggero stato di euforia. Anche i miei spasmi divennero
meno acuti, ma di questo riconobbi il merito alle quotidiane iniezioni di
ACTH. Malgrado qualche miglioramento, fui costretto a rimanere a letto e
presto cominciai a risentire degli effetti di una terapia continuativa a
base di forti dosi di steroidi. Ritenendo i liquidi mi gonfiai; misi su
quarantacinque chili in sei settimane in quanto l'ACTH mi rendeva
voracemente affamato. Passavo intere notti insonni. Cominciai a perdere
concentrazione. Il mio atteggiamento mentale era tetro e diventai depresso.
Dopo tre mesi di terapia intensiva le mie condizioni erano a malapena
migliorate. Riuscivo a camminare soltanto se venivo sorretto da mia moglie e
da un bastone o da un girello.
Il dottore mi disse che dovevo
prendere l'ACTH ancora per tre mesi, ma naturalmente era preoccupato per gli
effetti collaterali. Mi avvertì del pericolo di un improvviso attacco
cardiaco o di un'insufficienza respiratoria. Per ridurre la ritenzione dei
liquidi mi prescrisse un potente diuretico riconoscendo tuttavia che poteva
causare calcoli renali o persino la morte per insufficienza renale. La
terapia con gli steroidi continuava a essere inefficace, e gli effetti
collaterali
peggioravano. Il mio peso, che era di settantasei chili prima
che cominciassi a prendere l'ACTH, era salito a centotrentacinque chili nel
giro di alcune settimane dall'inizio del secondo turno della terapia con
ACTH. La respirazione diventò difficoltosa poiché i fluidi premevano sui
polmoni. Le gambe e i piedi erano gonfi. Nessuno dei miei vestiti mi andava
più bene. Sviluppai una grave, intensa depressione caratterizzata da
improvvisi sbalzi di umore. Ero solito turbarmi profondamente senza motivo;
improvvisamente mi mettevo a piangere o avevo pensieri violenti. Dopo sei
mesi sentivo di aver perso ogni controllo sulla mia vita. In casi
eccezionali riuscivo a trascinarmi per la mia stanza da letto appoggiandomi
alla parete e usando mia moglie e un girello come sostegni. Anche così, non
ero in grado di mantenere l'equilibrio o di reggere il mio peso e spesso
cadevo. Per la maggior parte del tempo non potevo far altro che rimanere a
letto. Gli spasmi continuavano e le mie membra erano
incontrollabili.
Alla fine del sesto mese il dottore mi visitò ancora
e io gli dissi che le mie condizioni stavano peggiorando. Lui mi disse che
la mia SM era molto grave ed era progredita molto velocemente; solo l'ACTH
poteva aiutarmi. Me lo prescrisse per altri tre mesi e aumentò la dose del
50%. Mi prescrisse anche una pillola per dormire e del Valium per ridurre i
miei spasmi. Inizialmente fui d'accordo nel dare all'ACTH un'altra
possibilità, ma cambiai idea un paio di giorni dopo. Non ce la facevo più a
prenderne ancora. Se l'alternativa era la SM o la sua cura, preferivo la SM.
Quando smisi di prendere l'ACTH, la vista mi si offuscò ed ebbi episodi di
visione "a tunnel". Non riuscivo a concentrarmi e persi la capacità di
leggere; la SM mi stava attaccando in un modo completamente diverso. Il mio
medico si allarmò molto e immediatamente mi prescrisse il prednisone, un
potente steroide da assumere per via orale. Anche quella volta ottenni
modesti benefici terapeutici e ci furono inconvenienti perfino più seri; in
meno di un mese misi su più di trenta chili. Ma il peggio doveva ancora
venire. Sebbene ancora non lo sapessi, gli steroidi stavano sottraendo al
mio corpo quell'elemento di fondamentale importanza che è il
potassio.
Un giorno, mentre ero seduto in soggiorno, mi resi conto
che non riuscivo a parlare. Ero semicatatonico. Mia figlia venne da me e mi
parlò. lo la sentivo ma non riuscivo a vederla e non potevo rispondere, se
non piangendo. Mia moglie e mia figlia mi portarono immediatamente al pronto
Soccorso di un ospedale. Non ho memoria del viaggio e non sapevo dove mi
trovavo quando arrivammo. Ricordo di essere stato messo su di una sedia da
solo, poi attorniato da quasi una dozzina di medici e infermieri che
parlavano concitatamente. Mi fecero delle domande che non sono sicuro di
aver sentito. Quando cercavo di rispondere non riuscivo a parlare. Il
referto medico riporta che quel giorno fui in punto di morte; il mio corpo
era quasi completamente privo di potassio. Mi furono somministrate iniezioni
massicce e un supplemento di potassio per via orale.
Quell'esperienza
mi rese profondamente disincantato rispetto a farmaci, medici e ospedali.
Smisi di prendere qualunque genere di steroide, anche se continuai a usare
il Valium e altri farmaci che influenzano gli stati d'animo. Incapace di
camminare, leggere e stare con la mia famiglia, cominciai a fumare marijuana
per alleviare la noia; fumavo dai quattro ai sei spinelli al giorno. Una
sera alcuni vecchi amici vennero a trovarmi e fumammo diversi spinelli.
Quando si alzarono per andarsene io mi alzai a mia volta per salutarli.
Tutti coloro che si trovavano nella stanza smisero improvvisamente di
parlare e mi fissarono. Mi resi conto che mi ero alzato in piedi
spontaneamente e senza bisogno di aiuto, come se fosse stata una cosa
perfettamente naturale.
Ero sbalordito. Mia moglie e i nostri
amici erano sbalorditi.
Riuscii a fare qualche passo senza essere aiutato
prima che le mie gambe, deboli per l'atrofia, cedessero. Avevo camminato! Mi
chiesi se poteva essere stata la marijuana e lo chiesi al mio dottore, che
respinse l'idea e ribadì che la marijuana non aveva effetti benefici sulla
SM. Anche mia moglie era scettica, ma io continuai a fare
esperimenti.
Presto scoprii che quando non fumavo marijuana i miei
spasmi erano più frequenti e intensi. Quando la fumavo le mie condizioni si
stabilizzavano, per poi migliorare drasticamente. Potevo camminare senza
essere aiutato e la mia vista era meno offuscata. Ma il mio medico e mia
moglie rimanevano scettici. In quello che, oggi me ne rendo conto, fu uno
stupido tentativo di dimostrare agli altri ciò di cui io ero ormai sicuro,
decisi di smettere di fumare marijuana per sei mesi.
Non appena smisi
cominciai a perdere tutto quello che avevo guadagnato. Mi vennero forti
spasmi ai muscoli dorsali. Dopo quattro mesi avevo perso il controllo su
mani, braccia, piedi e gambe. La mia dose di Valium salì a 120 mg al giorno,
e cominciai a rendermi conto che mi ero assuefatto, ne ero diventato
dipendente. Smisi di prendere il Valium e andai incontro a una grave crisi
per l'astinenza da questo farmaco "sicuro" e "accettato dai medici". Persi
ogni interesse per la vita; soffrivo di insonnia, ero inquieto e
costantemente agitato; sprofondai in una cupa depressione; i miei sbalzi di
umore divennero ancora più volubili e accentuati; i miei spasmi diventarono
più intensamente dolorosi.
Quando non riuscii più a stare in
posizione eretta, e a maggior ragione a camminare, ripresi a fumare
marijuana quotidianamente. Nel giro di poche settimane ero di nuovo in grado
di camminare senza bisogno di aiuto. Poco dopo ero in grado di percorrere
mezzo isolato da solo, anche se con un certo sforzo. Ritrovai le forze
facendo esercizio e la vita tornò alla normalità. Dopo sei mesi le mie
condizioni erano enormemente migliorate. Gli spasmi erano svaniti e avevo
riguadagnato la capacità di leggere, scrivere e camminare. Una sera uscii
con i miei bambini e, per la prima volta in due anni, fui in grado di
mostrar loro come si tira un pallone da calcio. Riuscivo a calciare un
pallone! Mi sentivo rinato.
Eppure non ero ancora convinto che la
marijuana fosse responsabile di tutto questo. La marijuana era qualcosa di
cui facevo uso per divertimento, una droga di gruppo. Non credevo che una
sostanza così semplice e innocua potesse provocare un miglioramento tanto
eclatante. Era semplicissimo ignorare ciò che era ovvio, dato che il mio
medico e mia moglie continuavano a ridere di questa idea. Per dimostrare a
me stesso che in realtà non era la marijuana a farmi bene, decisi di
smettere nuovamente di fumare.
Dapprima gradualmente e poi più
rapidamente, gli spasmi muscolari ritornarono. Nel giro di poche settimane
avevo bisogno di un bastone, poi di un girello. Alla fine fui costretto a
letto un'altra volta. Dopo quattro mesi decisi di ricominciare a fumare. Le
mie condizioni si stabilizzarono immediatamente, poi cominciarono a
migliorare. Ero felice ma al contempo molto perplesso. Fumavo marijuana fino
a che le mie condizioni miglioravano, poi smettevo.
Per ragioni che non
riesco bene a spiegare, trovavo difficile credere che la marijuana fosse
veramente la causa di questi radicali cambiamenti nel mio stato di
salute.
Nel 1980 mio fratello mi mostrò un articolo di giornale su un
malato di SM di Washington chiamato Sam Diana, che aveva convinto un
tribunale legislativo che il suo uso di marijuana era una "necessità
medica". Fui sbalordito nell'apprendere che non ero l'unico malato di SM che
traeva sollievo dalla marijuana. Era ancora più sorprendente che medici,
ricercatori e altri malati di SM avessero sostenuto la rivendicazione del
Sig. Diana e che il tribunale avesse emesso una sentenza in suo favore. Non
avvertii più l'esigenza di dimostrare a me stesso o a chiunque altro che la
marijuana fosse benefica; cominciai ad ascoltare il mio corpo e ripresi a
fumarla regolarmente. Negli ultimi sette anni la mia SM è stata contenuta
adeguatamente, tranne quando mi è capitato di finire la marijuana e di
non riuscire a trovarne (o di non potermene permettere)
dell'altra.
Nella maggior parte dei casi, i malati di SM diventano
progressivamente più deboli e menomati; io sono migliorato. Posso stare in
equilibrio su una gamba sola con gli occhi chiusi. Cammino senza bisogno di
nessun aiuto Riesco perfino a correre! Tutto questo potrà sembrare
insignificante a qualcuno che non sia mai stato costretto a letto, menomato
e incapace di muoversi o di parlare, ma per me è un miracolo. Oltre a tutto
ciò, la marijuana mi permette di mantenere un'erezione abbastanza a lungo da
portare a termine l'atto sessuale. Non ho mai sviluppato dipendenza fisica
dalla marijuana e non ho sintomi da astinenza quando smetto di fumare.
Paragonata agli steroidi, ai tranquillanti e ai sedativi comunemente
prescritti ai malati di sclerosi multipla, la marijuana è notevolmente
innocua e benefica.
Il mio medico è sbalordito dal
miglioramento delle mie condizioni. In una scala da 1 a 100, lui valuta la
mia salute fisica e mentale a 95. Non insiste più sul fatto che la marijuana
sia inutile. Al termine del nostro ultimo incontro mi ha guardato ne gli
occhi e mi ha detto di continuare a fare quello che sto facendo, qualunque
cosa sia, perché funziona. Non mi piace violare la legge. Non mi fa
piacere pagare somme esorbitanti a spacciatori di droga che mi vendono un
prodotto deregolamentato e non soggetto a controlli. Ma vi assicuro che mi
piace camminare, parlare, leggere, scrivere e vederci. Oggi il mio medico e
io stiamo valutando la possibilità di ottenere un'autorizzazione all'uso
legale di marijuana attraverso un programma "Compassionate IND" della FDA,
nonostante la procedura prevista sia incredibilmente lenta e
complicata.2.4.2 2a Testimonianza - Letteratura Medica D.B. Clifford, Annals of
Neurology
La marijuana era stata usata per contenere il tremore, con
somministrazione quasi quotidiana per almeno un anno intero prima di questo
studio, senza evidenze di una diminuzione degli effetti nel tempo. La dose
iniziale di 5 mg di THC aveva come risultato una diminuzione del tremore al
capo e al collo nel giro di 30+60 minuti e la durata dell'effetto era di
circa sei ore. La dose procurava al paziente uno stato di ebbrezza assai
blando, che non sembrava indebolire la capacità di discernimento. La leggera
atassia delle mani osservata nelle prove dito-naso era pressoché immutata,
ma la capacità del paziente di scrivere ne era notevolmente accresciuta (si
veda la figura 1) e il suo uso delle posate risultava nettamente migliorato.
Quando le pillole venivano sostituite con dei placebo non si registravano
miglioramenti, nonostante la sensazione di euforia. Prove ripetute con la
sostanza attiva in due casi confermarono ancora questo tipo di
reazione.
registrate prima e novanta minuti dopo l'ingerimento di 5mg di
tetraidrocannabinolo.
Riprodotto da D.B. Clifford, "Tetrahydrocannabinol
for Tremor in Multiple
Sclerosis", Annals of Neurology 13 (1983):
669-671.2.4.3 3a Testimonianza - Letteratura Medica H.M. Meinck, P.W. Schijnle e
B. Conrad, Journal of Neurology
Riprodotto da H.M. Meinck, P.W. Schijnle e B.
Conrad, "Effect ofCannabinoids on Spasticity and Ataxia in Multiple
Sclerosis", Journal ofNeurology 236 (1989): 120-1222.4.4 4a Testimonianza - Debbie Talshir
marijuana. Eccola
raccontare la sua storia:
Per la nevrite mi diedero l'ACTH. Misi su circa 45
chili perché ritenevo l'acqua e il mio appetito era aumentato in maniera
impressionante (morivo sempre di fame). l'ACTH causava anche sbalzi di umore
che mi resero insopportabile a colleghi e amici. Persino io ne ero
spaventata. Alla fine andarono calando, solo per ritornare un anno e mezzo
dopo, assieme alla nevrite ottica. Stavolta un collega mi consigliò la
marijuana e provai a fumare un paio di sigarette al giorno. Non guadagnai
peso né ebbi sbalzi di umore e la nevrite ottica si placò nel giro di tre
settimane.
Poiché la SM progrediva, mi fu prescritto il Lioresal
(baclofene) per gli spasmi muscolari. Sì, causò effetti collaterali:
sonnolenza e letargia generale. Ho scoperto che la marijuana arresta gli
spasmi e rilassa i muscoli, ma non tanto da metterli fuori uso. Il mio
neurologo al Massachusetts GeneraI Hospital, dove mi è stata fatta la prima
delle diagnosi, e il neurologo presso il quale sono attualmente in cura qui
a Capo Cod sanno che faccio uso di marijuana per contenere quei sintomi, e
non solo quelli. È un dato che risulta dalla mia cartella clinica, eppure
loro non intendono
[non possono] rilasciarmi prescrizioni legali di
marijuana: molto scoraggiante, ma comprensibile nell'attuale clima di guerra
alla droga. Dal 1980 sono costretta sulla sedia a rotelle. Non riesco a
mangiare se prima non fumo un po' di marijuana; rilassa i muscoli sfinterici
dello stomaco e dell'esofago. La mia perdita di appetito è profonda, ma se
fumo una sigaretta di marijuana sono rilassata e riesco a tenere giù il
cibo. Spesso ho difficoltà a respirare. Non vedo perché fumare dovrebbe
rilassare i meccanismi respiratori, eppure la marijuana ci riesce.
Per
me la marijuana è essenziale. Non tremo più, posso mangiare, posso
respirare. Ha un effetto molto benefico perfino sulla mia vescica
neurogena - un problema neurologico per il quale una persona perde il
controllo sui muscoli sfinterici della vescica. Se c'è anche una sola goccia
di urina nella vescica, i muscoli sfinterici cominciano ad avere gli spasmi
e si hanno perdite di urina. La marijuana non risolve il problema, ma aiuta.
Generalmente fumo cinque sigarette di marijuana al giorno.
Sono molto
arrabbiata per il fatto di trovarmi ad avere a che fare con persone con le
quali normalmente non socializzerei, come gli spacciatori di droga. Devo
anche risparmiare delle belle somme se voglio procurarmi la marijuana, che
sta diventando sempre più difficile da trovare. Mi ritrovo a correre di qua
e di là, a fare telefonate e a dedicare la maggior parte del mio tempo alla
ricerca della marijuana.2.4.5 5a Testimonianza - Testimonianza Anonima di uno Psichiatra
Il lavoro era duro, frenetico e impegnativo, ma molto
soddisfacente. Scendere di giri alla fine della giornata era difficile, e
trovavo che fumare una piccolissima quantità di marijuana all'ora di andare
a letto mi permettesse di rilassarmi e prender sonno. Nel 1986 erano ormai
circa quindici anni che fumavo e non mi preoccupavo della possibilità che
una quantità così modesta mi facesse male. In merito a questo, dal 1986 al
1989 non ho fatto che combattere una pacifica battaglia con il mio
psichiatra. Sentivo che la mia esperienza era del tutto positiva e che
qualsiasi effetto negativo avrebbe già dovuto manifestarsi, nell'arco di
quindici anni. Il mio dottore, comunque, pensava che non avrei dovuto fare
uso di una droga non controllata e, tra parentesi,
illegale.
Nell'ottobre del 1989 acconsentii a sostituire la marijuana
con il Desyrel [trazodone, un antidepressivo con proprietà sedative]. Anche
se non era altrettanto efficace e al mattino mi risvegliavo con il cerchio
alla testa, la sostituzione sembrò accettabile per qualche giorno. La sesta
mattina, tuttavia, mi resi conto che avevo perso gran parte della mia
capacità di stare in equilibrio. Riuscivo a malapena a mettermi in posizione
eretta o a camminare senza sostegno. Mentre stavo guidando, diretta allo
studio del mio dottore, scoprii anche che quello che chiamo "il mio pilota
automatico" era stato disattivato. Le attività che normalmente svolgevo in
modo inconscio, come guidare, ora richiedevano un impegno consapevole.
Dovetti perfino riimparare da quale parte girare la chiave per aprire la
macchina. Inoltre mi sentivo più stanca di quanto non fossi mai stata
prima.
Nelle sei settimane seguenti non presi nessun tipo di
medicinale, nemmeno l'aspirina, mentre i dottori mi sottoponevano a esami
per ogni malattia nota alla medicina occidentale. Durante questo periodo le
mie condizioni non migliorarono. Dopo le analisi ricevetti la notizia
devastante che soffrivo di sclerosi multipla, una malattia nervosa
incurabile contro la quale c'erano poche possibilità di impostare una
terapia sensata. Sebbene mi fosse stato detto che i sintomi della SM vanno e
vengono senza preavviso, l'evidente coincidenza mi intrigava, e con
esitazione sollevai la questione della marijuana con un neurologo. Ricevetti
una rabbiosa lavata di capo e un invito a ritornare solo quando fossi stata
in grado di superare un esame antidroga.
A quel punto non potevo
lasciar perdere. La logica imponeva che almeno provassi a fumare marijuana.
Il mio dottore [lo psichiatra] era ancora contrario, ma in realtà manifestò
un certo interesse per ciò che sarebbe potuto succedere, così decisi di
cominciare. Circa una settimana dopo notai un miglioramento, e poche
settimane più tardi ero in grado di tornare al lavoro alI '85% circa del mio
normale rendimento.
Il miglioramento poteva anche essere stato spontaneo
-la SM è molto volubile -ma io non ero in vena di correre rischi e continuai
a fumare fino alla primavera del 1990, quando rimasi senza marijuana e non
riuscii a procurarmene dell'altra. Nel giro di una settimana tutti i miei
disturbi erano nuovamente gravi.
I miei medici pensavano ancora che
fosse una coincidenza, ma io non la pensavo allo stesso modo. Cominciai una
ricerca a scala nazionale per potermi rifornire di marijuana e per trovare
un neurologo che almeno ascoltasse la mia storia a mente aperta. Trovai la
marijuana, ma non il neurologo. Siccome è contro la legge condurre
esperimenti che prevedono l'uso di marijuana, non ci sono prove scientifiche
delle sue proprietà terapeutiche; e, siccome non ci sono dimostrazioni
scientifiche delle sue proprietà terapeutiche, il governo non autorizzerà la
sperimentazione.
Quando alla fine ricevetti un po' di marijuana da un
amico e ripresi a fumare, ritornai soltanto al 60% della mia normale
efficienza, sicché potevo lavorare soltanto a casa. In seguito, sempre nel
1990, si ripeté la stessa sequenza di eventi, e stavolta ritornai a meno del
50% del mio normale rendimento. Non ero più in grado di lavorare per più di
mezz' ora alla volta. All'inizio del 1991 mi hanno messa a riposo
riconoscendomi disabile al 100%.
Ho ancora una piccola scorta di
marijuana, e ho paura di quello che succederà quando l'avrò finita. Nel
frattempo sto cercando un neurologo che faccia richiesta per me di un
"Compassionate IND", e sto pregando perché le leggi vengano
cambiate.2.5 Paraplegia e quadriplegia
2.5.1 La seguente testimonianza di Chris
Woiderski è, in questo senso, eloquente:
Alle volte pensavo che le cose non avrebbero potuto andarmi
meglio. Avevo un buon lavoro, guadagnavo un bel po' di soldi e vivevo con la
donna che avrei sposato di lì a pochi mesi. Poi, nel giugno del 1989,
riportai accidentalmente una ferita da arma da fuoco. Fui portato di corsa
inospedale e operato d'urgenza. Mi svegliai la mattina seguente in uno stato
semi-confusionale, sentendo il dolore causato dai tubicini che avevo nel
torace e in gola. Dopo dieci giorni passati nel reparto di terapia
intensiva, un neurologo mi disse che non c'era nulla da fare per
me.
Anche se il proiettile aveva mancato il midollo spinale, il
trauma mi aveva lasciato paralizzato per sempre dal torace in giù. Quando
alla fine mi resi conto che non sarei mai guarito, mi prese una rabbia che
non mi abbandonò più.
Non ero più in grado di lavorare, perciò supplii
con una magra pensione della previdenza sociale. Fortunatamente,avevo
prestato servizio nella Marina e avevo i requisiti per poter ricevere
medicinali e assistenza medica dalla Veterans' Administration [VA]. La mia
ragazza, dopo essere rimasta per due mesi ad assistere ai miei tentativi di
svolgere le attività più elementari (vestirsi, fare la doccia, entrare e
uscire dal letto), non riuscì a sopportare oltre la situazione e tornò a
casa dei suoi genitori.
Quattro mesi dopo l'incidente cominciai a
provare quelle strane, in un certo senso dolorose, sensazioni note come
spasmi muscolari. Dapprima gli spasmi interessarono solo i piedi e le
gambe sotto il ginocchio, ma presto li avvertii in tutti i muscoli
paralizzati. Mi diedero un farmaco chiamato baclofene, ma anche la massima
dose consentita non arrecava grandi benefici. In compenso, c'era una gran
quantità di effetti collaterali spiacevoli: sonnolenza, forti mal di testa,
sudorazione eccessiva, insonnia, arsura della bocca. I miei spasmi
diventavano sempre più violenti, e una notte mi fecero cadere dal letto.
Dopo quella volta il dottore mi prescrisse 20 mg al giorno di Valium, poi
altri 20 mg. Stavo diventando uno zombie farmaceutico.
C'erano
molti altri pazienti paralitici all'ospedale della VA. Alcuni erano
paraplegici da più di vent'anni. Mi raccontarono che avevano buttato via da
anni i medicinali prescritti contro gli spasmi, e ora invece usavano la
marijuana. Dicevano che funzionava meglio e che aveva di gran lunga meno
effetti collaterali. La provai. Una sigaretta di marijuana mi diede
immediato sollievo senza gli effetti collaterali debilitanti del Valium e
del baclofene. Attività quotidiane come farsi la doccia e vestirsi
diventarono notevolmente più semplici da svolgere. Da allora, ogni volta
che riesco a procurarmi la marijuana, ne fumo dalle tre alle quattro
sigarette al giorno. Non ho quasi più spasmi, e posso fare a meno di
prendere ogni giorno dodici pillole, altamente tossiche e capaci di indurre
dipendenza. Ho anche scoperto di poter raggiungere l'erezione quando fumo
marijuana; l'unico modo in cui potevo riuscirci prima era iniettarmi della
prostaglandina direttamente nel pene.
Circa due terzi dei
pazienti paralitici che ho conosciuto usano la marijuana per lenire gli
spasmi e i dolori muscolari. Le attuali norme della Drug Enforcement
Administration proibiscono ai nostri medici di prescriverci la marijuana. In
questi giorni il governo sta alimentando una guerra alla droga che in
pratica va a colpire me e altri paralitici. Questo non è soltanto
irragionevole e scorretto, ma clamorosamente immorale. Solo perché scegliamo
di impiegare la sostanza più efficace e innocua per curare i nostri
disturbi, il governo ci colloca ingiustamente nella stessa categoria
criminale degli eroinomani.
Ho presentato alla Food and Drug
Administration una richiesta di Investigational New Drug (IND). È la stessa
procedura che è stata seguita da molti altri americani che si sono
conquistati il diritto di fumare marijuana legalmente per scopi medici.
Spero che la mia richiesta venga accolta favorevolmente. Altrimenti,
continuerò a fumare marijuana in ogni caso e rischierò di essere arrestato,
processato e incarcerato ingiustamente.
Un
paziente di trent'anni soffriva di sclerosi multipla da sei anni ed era stato
costretto sulla sedia a rotelle a causa dei suoi spasmi muscolari e atassia.
Le sue erezioni duravano meno di cinque minuti, e non era in grado di
eiaculare. Quando fumava marijuana, sia le sue capacità motorie, sia le sue
funzioni sessuali miglioravano immediatamente. Ora può sostenere un'erezione
per più di mezz'ora e la sua vita sessuale è
soddisfacente.
Ancora una volta, molti
pazienti hanno scoperto, per passaparola o grazie ai gruppi di sostegno, un
uso medicinale della marijuana del quale i medici non potrebbero informarli.
L'odore del fumo di mari juana è, a quanto dicono, onnipresente in alcune
corsie del reparto di paraplegia e quadriplegia dell'ospedale della VA.
un'indagine condotta nel 1982 su quarantatré persone con lesioni al midollo
spinale mise in evidenza che ventidue di loro stavano facendo uso di marijuana
per curare i loro spasmi muscolari. La percentuale è probabilmente aumentata
nel decennio scorso. Tuttavia, ancora oggi, pochissimo appare in merito a
questo argomento nella letteratura medica. Siamo riusciti a trovare un solo
studio recente. Nel 1990 tre neurologi svizzeri hanno pubblicato un resoconto
sulla cura di un paziente paraplegico, soggetto a spasmi dolorosi a entrambe
le gambe, che venivano curati con la continua somministrazione di baclofene e
clonazepam (un farmaco ansiolitico paragonabile al Valium), oltre alla codeina
per i dolori. Gli esperimenti si svolsero in due fasi. Nella prima fase il
paziente prese il THC per via orale invece della codeina, quattordici volte
nell'arco di tre mesi. Nella seconda fase gli furono dati o 5 mg di THC per
via orale, o 50 mg di codeina per via orale, o un placebo. Le tre condizioni
sperimentali furono applicate diciotto volte ciascuna nell'arco di cinque
mesi. Il paziente continuò a prendere baclofene e clonazepam per tutta la
durata dell'esperimento. Messi a paragone con il placebo, la codeina e il THC
migliorarono la qualità del sonno ed entrambi produssero un effetto
analgesico, ma solo il THC attenuò gli spasmi muscolari. Sia il THC, sia la
codeina attenuarono l'incontinenza urinaria del paziente, migliorarono il suo
umore e la sua capacità di concentrarsi nel lavoro intellettuale. Poiché il
THC era efficace quanto la codeina sotto la maggior parte degli aspetti, e
migliore nella prevenzione degli spasmi muscolari, i neurologi conclusero che
avrebbe dovuto essere preso in considerazione nella cura dei paraplegici.
2.6 AIDS
Il periodo di
incubazione (tra il contagio e la manifestazione dei sintomi) è variabile, ma
in media dura dagli otto ai dieci anni. Si ritiene che quasi tutti i soggetti
contagiati diventeranno, prima o poi, malati conclamati. Non si conoscono
cure. Le infezioni opportunistiche e i neoplasmi (crescite cancerose) possono
essere curate con metodi convenzionali, e il virus stesso può essere attaccato
con farmaci antivirali, tra i quali il più conosciuto è la zidovudina (AZT).
Sfortunatamente l'AZT interrompe la produzione dei globuli rossi da parte del
midollo osseo, fa diminuire il numero dei globuli bianchi e ha molti effetti
dannosi sull'apparato digerente. Alle volte provoca una forte nausea che
aumenta il pericolo di semi-inedia per pazienti che già soffrono di nausea e
perdono peso a causa della malattia.2.6 Ron Mason, di trentatré anni, racconta
la sua storia:
Il 23 dicembre 1986 è un giorno che mi
ricorderò per tutta la vita: il giorno in cui feci gli esami dell'HIV e
scoprii di essere sieropositivo. Le grandi chiazze rosso porpora che avevo
sulle gambe - lo avrei appreso in seguito - erano il risultato di emorragie
provocate dall 'infezione da HIV. L'HIV era la causa anche della mia grave
psoriasi. Già nell'aprile del 1984, i dottori di una clinica gay VD mi
avevano affidato a quella che in seguito sarebbe diventata famosa come la
clinica dell'AIDS di Chicago. Rimasi in terapia presso i medici di quella
clinica per sette anni e misi su 18 chili, raggiungendo un peso normale. I
medici sapevano che fumavo marijuana e non me lo proibivano, anche se
raccomandavano una certa moderazione. lo non sono in grado di tollerare
l'AZT a causa della mia anemia. Tutti gli altri farmaci antivirali sono
dannosi per il mio fegato affetto da epatite.
Tre anni fa uno dei
miei dottori mi ha detto che faccio parte di un esiguo gruppo di persone che
sono state in cura presso la clinica per diversi anni e non sono morte né
sono gravemente malate; i medici non sanno perché. lo attribuisco parte di
questo buon risultato al fatto che fumo marijuana. Mi fa sentire come se io
stessi vivendo, anche con l'AIDS, piuttosto che semplicemente esistere. Mi
torna l'appetito e, una volta che ho mangiato, non sento più la nausea. La
marijuana migliora la mia disposizione d'animo, e questo mi fa sentire
meglio anche fisicamente.
Ho rischiato per due volte di morire
a causa di reazioni allergiche al Composto Q di Reichstein
(deossicorticosterone, N.d.T.), un estratto della radice del cetriolo
selvatico cinese che distrugge le cellule immunitarie infette. Il Composto Q
è illegale, ma il governo preferisce far finta di guardare dall'altra parte.
Perché non può fare la stessa cosa con la marijuana? Entrambe le sostanze
sono illegali ed entrambe sono usate nella cura dei malati di AIDS. Una può
metterti nei guai, è l'altra no. Che ridere!
Nella primavera del
1990, alla periferia di Chicago, sono stato arrestato per possesso di
marijuana e la macchina mi è stata sequestrata. Non solo ho perso la mia
medicina, ma ora trovo difficile raggiungere la clinica dell'AIDS nel centro
di Chicago. Il mio appetito non è più quello di una volta, ho perso più di
sei chili, mi stanco più facilmente e alle volte sono così debilitato che mi
sento come se dovessi vomitare. Sto prendendo il Prozac (fluossetina, un
antidepressivo) prescritto da un medico di periferia che non sa praticamente
nulla dell'AIDS o dell'epatite B. Sono molto depresso e diverse volte ho
meditato il suicidio. Ho dovuto attingere al mio credito bancario per un
totale di tremila dollari per pagare le spese legali di due cause. L'accusa
di reato è stata respinta, e ora sto cercando di riavere indietro la
macchina (questa è la causa civile federale) in modo da poter andare alla
clinica dell'AIDS. Il mio avvocato mi dice che potrei spuntarla. Ma anche se
così fosse, come potrò alleviare la nausea e stimolare l'appetito in modo da
sentirmi meglio? Ho provato il Marinol e non ha avuto effetto. Cosa dovrei
fare? Non far niente? Se per me l'unico modo di stare in salute è fumare
marijuana e, di conseguenza, sentirmi abbastanza bene da riuscire a
mangiare, perché non mi è consentito? Mi auguro che il governo la smetta di
essere così ipocrita e mi permetta di fare ciò di cui ho bisogno per vivere
il resto dei miei giorni nel massimo benessere possibile.2.6.2 2a Testimonianza - Dottor Z
(Anonimo)
Circa due anni fa mi diagnosticarono l'ARC. I miei
sintomi comprendevano esaurimento, mal di testa, forti crampi alle gambe,
nausea e occasionali eccessi di sudorazione. l'AZT non riusciva a placare
nessuno di questi sintomi (anzi, rendeva più acuta la nausea), ma
effettivamente rallentò il progresso della malattia. Avevo l'armadietto dei
medicinali pieno di barbiturici e narcotici, tutti potenti farmaci legali
della Classe [Tabella] II, contro i dolori e il malessere. Sebbene questi
farmaci fossero d'aiuto, spesso mi lasciavano ancora più affaticato e
letargico. Le pillole che prendevo per i dolori alle gambe mi mettevano
sottosopra l'intestino. Questo problema, unito alla nausea provocata
dall'AZT, rendeva necessaria un'altra pillola, un antiemetico. Tutto
sommato, tra pillole, dolori e nausea, non era uno stile di vita che mi
rendesse impaziente di cominciare una nuova giornata.
Continuai a
"vivere" in questo modo finché non fui invitato a una festa da amici che non
vedevo da un po' di tempo. Ero alquanto riluttante ad andare, dato che avevo
il solito mal di testa pulsante e i crampi alle gambe, ma sentivo il bisogno
di socializzare. Qualcuno tirò fuori un po' di erba, e presto mi ritrovai
senza mal di testa e con appena un lievissimo disagio alle gambe. Non potevo
crederci: libero dai dolori senza gli effetti collaterali dei narcotici. In
effetti, mi sentivo meglio di quanto non mi fossi mai sentito dal momento
della diagnosi. Fidatevi di me, non ero nemmeno in uno stato semicomatoso.
Non ero più rilassato di quanto non sia dopo un paio di Martini, più
accettabili sul piano sociale.
Chiedendomi se la mia scoperta avesse
qualche fondamento concreto, parlai della marijuana con altri malati di
AIDS. In modo quasi unanime, mi dissero che li faceva stare
meglio.
Sfortunatamente, data l'attuale politica statunitense, la
maggior parte dei pazienti (me compreso) non vuole rischiare una denuncia e
una causa. È abbastanza tragico affrontare una diagnosi di AIDS, ma
affiancare a questo problema anche le accuse di reato sarebbe
insopportabile. Così dobbiamo continuare a usare narcotici e barbiturici
della Classe II, potenti e in grado di indurre dipendenza, quando una droga
illegale offrirebbe maggiore sollievo.
Recentemente ho visitato
Amsterdam, una città dove l'uso della marijuana è tollerato. Non è legale in
senso stretto,ma non è punito come reato. Credetemi, mi sentivo come se
fossi guarito dall'AIDS. Nonostante io prenda abitualmente dalle otto alle
dodici pillole al giorno, non ne ho praticamente prese finché sono stato là.
Fumavo ogni volta che ne sentivo il bisogno, generalmente quando mi veniva
la nausea o avevo crampi alle gambe o mal di testa: due o tre sigarette al
giorno. Spesso ero libero da sintomi per la maggior parte della giornata,
senza dovermi preoccupare di essere arrestato. Potevo comportarmi da adulto
responsabile e fare uso di marijuana quando ne avvertivo la necessità, così
come usavo le pillole a casa. Mi sentivo ancora una volta completamente vivo
-una rarità quando si è malati di AIDS.
Sfortunatamente, la cura fu
di breve durata. Di ritorno negli Stati Uniti dovetti ricominciare a usare
gli antinevralgici e antiemetici legali.
Essere contemporaneamente medico
e paziente affetto dall'HIV è stata una fortuna a metà. Ho visto molte
persone soffrire e morire e mi rendo conto che, probabilmente, questo sarà
anche il mio destino. Ma so anche che c'è una medicina, e cioè la marijuana,
che lenisce almeno in parte la sofferenza e può rendere più producente la
vita di un malato di AIDS. Tuttavia la marijuana, in questa dolce e gentile
America, non può essere prescritta. Una cosa del genere è assolutamente
INCONCEPIBILE. Al tasso con cui l'epidemia si sta diffondendo, presto
toccherà a tutti noi conoscere qualcuno che è affetto dall 'HIV o che lo
sarà. La nostra società è così disumana da continuare a permettere che la
"guerra alla droga", voluta da questo governo, costringa persone così
gravemente sofferenti a diventare criminali o a continuare a soffrire
inutilmente?
Il dottor Z si
rivolse a quattro farmacie prima di trovarne una che gli fornisse il farmaco
prescritto. Dopo un'attesa di cinque giorni, ottenne la dose stabilita. Cinque
giorni di prova si rivelarono inutili. Allora, di sua iniziativa, aumentò le
dosi fino a 5 mg due volte al giorno e constatò qualche
miglioramento.
Eppure, presto tornò a fare uso di marijuana, malgrado le
sanzioni previste dalla legge. Fumare marijuana gli permetteva di regolare la
dose per un tasso costante nel sangue e la marijuana illegale alleviava i suoi
sintomi meglio di quanto non facesse il Marinol legale: un fatto, questo, ben
noto ai pazienti che hanno provato entrambe le
sostanze.
L'unico studio pubblicato fino a oggi
sull'applicazione del dronabinolum alla cura dell'AIDS ha dimostrato la sua
utilità per pazienti con infezioni sintomatiche da HIV. Oltre ad alleviare la
nausea, il dronabinolum ha indotto un significativo aumento di peso nel 70%
dei pazienti. Comunque, circa un quinto dei
pazienti ha smesso di prendere
il farmaco a causa dei suoi spiacevoli effetti
psicotropi.
Questi risultati sono più o meno
concordi con quelli ottenuti dagli esperimenti con il Marinol nella cura della
nausea e del vomito che accompagnano la chemioterapia. La maggior parte di
quei pazienti preferiva fumare marijuana, e si può sospettare che lo stesso
accadrebbe con i malati di AIDS, proprio come nel caso del dottor
Z.
La più recente acquisizione dell'arsenale
anti-AIDS è un farmaco chiamato foscarnet sodico (Foscavir@). Circa il 20% dei
malati di AIDS sviluppa il cytomegalovirus retinitis, una malattia infettiva
dell'occhio che può portare alla cecità. Il foscarnet sodico è stato messo a
punto per curare questa malattia; con uno studio recente si è scoperto che
inoltre prolunga considerevolmente la vita dei malati di AIDS.21
Sfortunatamente, tra gli altri gravi effetti collaterali, provoca nausea. Ci
sono tutte le ragioni per ritenere che questa nausea possa 'essere attenuata
grazie alla cannabis. Se le cose stanno così, e se le speranze riposte nel
foscarnet sodico produrranno oro, ci sarà una ragione di più perché i malati
di AIDS facciano uso di marijuana.
Chi ne fa
uso a scopo ricreativo sa bene che la marijuana stimola l'appetito. Queste
persone sono da tempo consapevoli che l'effetto della marijuana non si limita
ad accrescere il loro appetito, ma esalta il sapore del cibo e il piacere di
mangiare. Questo effetto è stato dimostrato sperimentalmente più di una volta.
In uno studio condotto nel 1971, a quattro gruppi di soggetti furono
somministrati estratto di marijuana, alcol, destroamfetamina o un placebo dopo
dodici ore di digiuno. Poi si offrivano loro dei frappé a intervalli di tempo
prestabiliti e ci si informava sul loro appetito e sul loro apprezzamento del
cibo. I soggetti che avevano ricevuto la marijuana si sentivano più affamati e
mangiavano di più; quelli che avevano preso la destro-amfetamina si sentivano
meno affamati e mangiavano di meno; l'alcol aveva un effetto
trascurabile.
In uno studio successivo, il peso
corporeo e l'apporto calorico di ventisette fumatori di marijuana e di dieci
soggetti di controllo furono messi a paragone per ventuno giorni nel reparto
di ricerca di un ospedale. I fumatori di marijuana mangiavano di più e misero
su peso (i soggetti di controllo no). Quando smisero di fumare marijuana,
cominciarono immediatamente a mangiare di meno. La capacità della marijuana di
stimolare l'appetito è stata dimostrata ancora in tempi più recenti. Nove
soggetti fumarono dalle due alle tre sigarette di placebo ogni giorno, per poi
passare a sigarette di marijuana di potenza media. Il loro consumo di cibo
aumentò in modo significativo, principalmente a causa di spuntini più
frequenti piuttosto che di pasti più abbondanti.
2.7 Dolori cronici
In
un altro esperimento condotto nel 1975, furono messi a confronto gli effetti
della codeina, del THC e di un placebo su trentasei pazienti con un cancro in
forma avanzata. Codeina e THC furono efficaci in ugual misura, ma alcuni
pazienti trovarono spiacevoli gli effetti psicoattivi del THC (20 mg, contro
120 mg di codeina). Bisognerebbe tener presente che nessuno di quei pazienti
sapeva quale sostanza stesse prendendo; la maggior parte di loro non aveva mai
fatto uso di marijuana ed era impreparata di fronte all'alterazione dello
stato di coscienza. Se fossero stati preparati, avrebbero potuto non trovarsi
a disagio.
Nello stesso anno, alcuni
ricercatori canadesi studiarono l'effetto analgesico della marijuana,
consumata sotto forma di sigarette, su soggetti sani, metà dei quali aveva già
fatto uso di cannabis in passato. La loro sopportazione del dolore prodotto da
una pressione sull'unghia del pollice aumentava in misura significativa dopo
che avevano fumato marijuana, e l'effetto analgesico era maggiore tra i
consumatori più esperti.
La cannabis può essere
particolarmente utile nell'attenuazione di alcuni tipi specifici di dolore
cronico. La seguente testimonianza è stata scritta da un uomo che soffre di
pseudopseudoipoparatiroidismo, una malattia ereditaria che si deve a reazioni
anormali a un ormone secreto dalle ghiandole paratiroidi. Questo ormone regola
il contenuto di calcio nel corpo. Quando la sua secrezione è insufficiente o
quando qualche tessuto corporeo reagisce a esso in maniera inadeguata
(ipoparatiroidismo), si possono manifestare vari sintomi, tra i quali spasmi
muscolari, convulsioni e, nella variante nota come
pseudopseudoipoparatiroidismo, lo sviluppo di speroni ossei che crescono nei
tessuti muscolari e nervosi provocando dolori lancinanti.2.7.1 Irvin Rosenfeld è un agente di cambio
trentanovenne di North Lauderhill, Florida. Questa è la sua storia:
I dottori dell'Ospedale dei Bambini mi
trovarono più di 250 tumori ossei tra braccia, gambe e bacino. In questa
malattia ciascun tumore può diventare maligno, ma nel mio caso ce n'erano
così tanti che non era possibile rimuoverli chirurgicamente tutti. La
crescita rapida e irregolare del tessuto osseo è acutamente dolorosa e può
causare lesioni menomanti. Gli speroni ossei premono contro i fasci nervosi,
fanno impigliare le arterie e impediscono un funzionamento sciolto dei
muscoli. Se gli speroni sono frastagliati, lacerano il tessuto muscolare e
provocano emorragie interne. Se spuntano all'improvviso e crescono
rapidamente, possono interferire con una crescita normale e causare
malformazioni e deformità. L'unica nota positiva è che le esostosi multiple
cartilaginee non durano per tutta la vita. Al termine dell'età dello
sviluppo, attorno ai diciassette anni, gli speroni ossei cessano di formarsi
e di crescere. In teoria, la malattia tende a placarsi, se non si muore
dissanguati o non si rimane storpi in giovane età.
Per evitare una
simile evenienza, affrontai tre operazioni alla gamba sinistra e una al
polso destro tra i dieci e i diciassette anni. Eppure continuai ad avere
problemi, principalmente a causa delle emorragie e delle lacerazioni
muscolari. Già a dodici anni ero spesso incapace di camminare e di muovermi
normalmente. Fui costretto a lasciare la scuola pubblica all'ottavo anno, ma
lo Stato della Virginia mi affidò a dei tutori formidabili fino al diploma.
C'erano giorni in cui riuscivo a camminare e persino a correre, ma per
lunghi periodi potevo a malapena muovermi. Il dolore era costante e spesso
insopportabile; a partire dall'età di quattordici anni mi furono necessari
dei potenti narcotici per attenuarlo. A diciannove anni prendevo 300 mg al
giorno di Sopor [metaqualone, un potente sedativo] e forti dosi di Dilaudid
[idromorfone, un narcotico oppiaceo]. Questi fannaci riducevano il dolore,
ma facevano anche diminuire la mia lucidità mentale e interferivano con la
mia vita. Non sviluppai dipendenza, ma ero estremamente affaticato e a volte
"sconvolto". Se riducevo le dosi con l'intento di recuperare la lucidità, il
dolore ritornava. Tutto quello che ricordo, a parte il dolore, è quel senso
di attesa; attendevo che la mia crescita terminasse.
Quando avevo
diciassette anni, le visite e le radiografie indicarono che i tumori ossei
avevano cessato di crescere. Nonostante il dolore persistente, avevo la
sensazione di aver superato la crisi e pensavo che le mie condizioni si
sarebbero stabilizzate in breve tempo. Ma poi, a vent' anni, un altro
massiccio sperone osseo spuntò nella mia caviglia destra. I medici supposero
che fosse una manifestazione tardiva di una crescita latente, e lo
rimossero. Dissero che probabilmente sarebbe stato l'ultimo tumore osseo che
avrei mai avuto. Invece, ricomparve e crebbe con sconcertante rapidità,
finché non si estese per tredici centimetri su per la gamba, creando un
ponte di tessuto osseo che fuse caviglia e gamba insieme. L'intervento
chirurgico era impossibile; il tumore era troppo grande. I dottori decisero
di amputarmi il piede destro da sopra la caviglia.
A quel punto, per
la prima volta, misi i miei dottori in discussione. Era sempre più chiaro
che i tumori continuavano a crescere e che nuovi speroni si sviluppavano. Se
avessi acconsentito in quell'occasione, che cosa avrebbero dovuto amputarmi
la volta dopo? Un braccio? Un pezzo di gamba? Dissi di no. Nessuna
amputazione. Se il tumore che stava crescendo rapidamente avesse dovuto
rivelarsi maligno, che fosse. Ero troppo giovane per rimanere storpio per il
resto di quella che avrebbe potuto essere una vita breve. Decisi di vivere
come meglio, come più pienamente potevo per il maggior tempo
possibile.
Quando avevo ventidue anni un altro tumore spuntò dal mio
bacino e si sviluppò nell'inguine. Questo tumore venne asportato con un
intervento chirurgico. Nel frattempo cominciai a cercare altre opinioni
sulla natura del mio male. Consultai senza esito la clinica Mayo, il MedicaI
College dell 'Università della Virginia, gli istituti nazionali della sanità
(NIH) e l'istituto nazionale dei tumori (NCI). In quel periodo il mio
consumo di farmaci era enorme. Prendevo 140 tavolette di Dilaudid, 30 o più
Sopor, e dozzine di miorilassanti e di altre pillole ogni mese. Sentivo che
mi stavo rovinando quel po' di salute che mi rimaneva, e spesso
gironzolavo in uno stato di disagio. Era difficile condurre una vita
normale; se prendevo farmaci in quantità sufficiente a contenere il dolore,
avevo difficoltà a concentrarmi sul lavoro.
La situazione mi fece
detestare con forza i farmaci e le droghe. Quando ero alle superiori scrissi
dei temi contro l'uso delle droghe illegali. Mi sconcertava il fatto che
persone che stavano bene introducessero una droga nel proprio corpo per
divertimento! Ero ancora di questo parere quando entrai in college in
Florida, dove la maggior parte delle persone che incontrai fumava marijuana.
Dapprima resistetti con fermezza all'idea di "provare" la marijuana. Stavo
già "provando" i farmaci, più di quanti il mio corpo ne potesse sopportare.
Ma l'influenza degli amici si fa sentire, e così cominciai a fumare
marijuana alle feste, sebbene non abbia mai avuto la più pallida idea di che
cosa intenda la gente quando parla dello sballo. Forse io non mi sballo
perché ho passato la maggior parte della mia vita prendendo sostanze di gran
lunga più potenti della marijuana.
Una sera fumai marijuana con un
amico mentre giocavamo a scacchi. I tumori nella parte posteriore delle
gambe mi rendevano difficile stare seduto per più di cinque o dieci minuti
consecutivi. Ma quella volta mi lasciai talmente assorbire dalla partita,
che rimasi seduto per più di un'ora senza provare alcun dolore. Avevo la
sensazione di trovarmi in una di quelle vignette intitolate "cosa c'è che
non va in questa figura?". Quando sei condizionato dal dolore a vivere nel
dolore e all'improvviso non senti più dolore, immediatamente cominci a
chiedertene il perché. L'unica cosa insolita che avevo fatto era stata
fumare marijuana. Non mi sono mai messo d'impegno a dimostrare a me stesso
che mi facesse bene, ma dopo un po' diventò semplicemente ovvio che anche
una piccola quantità di marijuana mi offriva una qualità di attenuazione del
dolore che non avevo mai provato prima.
Ne parlai al mio dottore,
e lui mi suggerì di fare uso di marijuana per sei mesi. Se oltre quel
termine avessi avuto ancora la sensazione che mi facesse bene, ne avremmo
riparlato. Per i sei mesi successivi fumai regolarmente. La marijuana non
solo migliorava enormemente la qualità dell'attenuazione del dolore, ma
faceva anche diminuire drasticamente la mia dipendenza dai narcotici
oppiacei e dai sonniferi in pillole. Diventai meno ritirato dal mondo e fui
in grado di condurre una vita normale.
Allo scadere dei sei mesi feci
un resoconto al mio dottore e discutemmo la possibilità di ottenere la
marijuana legalmente. Sfortunatamente, egli morì poco tempo dopo questa
discussione e io fui costretto a mettermi in cerca di un nuovo medico.
Scrissi a un mio zio, un pediatra che viveva in Connecticut. Mi mandò un
sacco di materiale sugli impieghi medici della marijuana, ma disse che non
sapeva proprio se la si potesse ottenere legalmente o no.
Nel
frattempo ero tornato a Portsmouth, in Virginia, dove ero stato cresciuto, e
avevo aperto un negozio di arredamento. Questo lavoro mi costringeva in
piedi, a spostare mobili, per tutta la giornata. Mi laceravo i muscoli e
avevo emorragie quasi quotidianamente. Alle volte questi problemi
diventavano molto seri. Quando ricevetti il materiale di mio zio, lo portai
al Dipartimento di Polizia di Portsmouth e spiegai al comandante quali
fossero le mie condizioni di salute. Gli dissi che non potevo permettermi di
comperare la marijuana in strada e gli chiesi l'autorizzazione a fumare la
marijuana sequestrata dalla polizia durante le retate. Il comandante disse
che si sarebbe interessato per vedere cosa si poteva fare. Dopo aver parlato
con un bel po' di gente in città - Portsmouth è una città piccola e i miei
genitori godono di buona reputazione - mi disse che non poteva autorizzarmi
a fare uso di marijuana sequestrata, ma che avrebbe detto ai suoi uomini di
lasciarmi in pace, almeno finché non mi fossi messo a vendere la marijuana
ma mi fossi limitato a comprarla come medicinale. C'era un'altra condizione:
non avrei mai parlato con nessuno di questo accordo informale. Accettai
senza esitazioni la proposta del comandante e lo ringraziai.
Il mio
nuovo dottore, quando entrai per la prima volta nel suo studio, fece una
serie di osservazioni apparentemente banali: uno dei miei mignoli era
insolitamente grande, le braccia si curvavano verso l'interno, avevo un
collo corto, e così via. Poi mi guardò e disse
"pseudopseudoipoparatiroidismo". Mi chiesi se fosse del tutto in sé. Prese
un libro di medicina da uno scaffale e mi lesse una descrizione dettagliata
della malattia; corrispondeva perfettamente, perfino per quanto riguardava
il rapporto con le esostosi multiple cartilaginee. Il dottore si fece
improvvisamente molto pacato, e allora gli chiesi cosa c'era che non andava.
Mi disse che gli speroni di tessuto osseo avrebbero continuato a svilupparsi
per tutto il resto della mia vita, e che ciascuno di essi poteva diventare
maligno in qualsiasi momento. Il risultante tumore si sarebbe propagato con
rapidità e io sarei morto. Se il cancro non mi avesse ucciso prima, uno
sperone osseo avrebbe potuto premere sul midollo spinale e lasciarmi
paraplegico, spuntare in una grossa arteria e provocare un'emorragia
mortale, o produrre lacerazioni in un organo interno causando lesioni
permanenti e magari fatali. E il dolore sarebbe diventato
insopportabile.
Chiesi al dottore se sapeva niente sull'uso della
marijuana per attenuare il dolore e la spasticità muscolare. Mi chiese cosa
ne sapessi io. Lo misi al corrente delle informazioni che avevo ricevuto da
mio zio. Il dottore promise che avrebbe esaminato il materiale in mio
possesso e disse che gli sarebbe piaciuto occuparsi del mio caso, ma non
sapeva come avrebbe potuto procurarmi la marijuana legalmente. Questo
dottore mi piaceva molto. Non solo era il primo che sapesse esattamente cosa
avevo, ma neppure aveva rifiutato di primo acchito l'idea che la marijuana
potesse farmi bene. Disse che, se volevo, potevo continuare a fumare
mettendo lo al corrente di ogni eventuale complicazione. Era abbastanza
chiaro, comunque, che dubitava delle proprietà medicinali della mari juana e
riteneva che io stessi beneficiando di un effetto placebo.
Continuai
a fumare marijuana illegalmente per alcuni anni (1976-1979). Sebbene non
dovessi temere di essere arrestato, l'assottigliamento del mio capitale era
preoccupante; spendevo in marijuana almeno tremila dollari all'anno. Il mio
dottore era ormai d'accordo ad aiutarmi, se fossi riuscito a scoprire cosa
bisognava fare per ottenere un nullaosta ufficiale. L'unica condizione era
che la sua identità rimanesse segreta. C'era troppa irragionevolezza attorno
a questo argomento, e lui non voleva rischiare la sua carriera venendo
bollato come un "dottor Canna". Lo offendeva il fatto che, come medico
abilitato a esercitare la professione, poteva prescrivere la morfina ma non
la marijuana. Era una situazione esasperante.
Lui diceva di non avere
tempo per compilare una grande quantità di moduli, stendere elaborati
protocolli di ricerca, o soddisfare tutte le condizioni di carattere
amministrativo poste dall'PDA e dalle altre organizzazioni federali che
detengono la giurisdizione in materia di marijuana. Ma era disposto a
mettere la sua firma in calce ai moduli se io mi fossi occupato di andare in
giro per gli uffici, far compilare i moduli e contattare i funzionari
competenti. Non potevo avere idea di quanto tutto ciò sarebbe stato
difficile, né di quanto tempo avrebbe richiesto. Ci vollero parecchie
centinaia di telefonate e, in termini di tempo, non settimane o mesi, ma
anni.
La legge prevede che l'PDA abbia trenta giorni di tempo per
rispondere a un protocollo di tipo Investigational New Drug. Quarantacinque
giorni dopo aver spedito la richiesta a nome del mio dottore, non avevamo
ancora ricevuto notizie dall'PDA, perciò telefonai. Gli impiegati mi dissero
cortesemente che avevano qualche problema con il mio IND, ma non potevano
dirmi di quali problemi si trattasse; dopotutto, ero solo un paziente.
Avrebbero contattato il mio dottore appena pronti. Dopo un'altra lunga
attesa, il mio dottore telefonò, fece la stessa domanda e ricevette la
stessa, vaga risposta. Diversi mesi più tardi, dopo molte altre telefonate
da parte mia, l'PDA spiegò al mio dottore quali fossero i problemi. Erano
tutti trascurabili, nella maggior parte dei casi insignificanti. Intuii che
il governo sperava che il mio dottore si stancasse e ritirasse la richiesta.
Chiaramente, l'PDA nutriva scarso interesse per l'IND e ancor meno per la
mia assistenza medica.
L'approvazione arrivò, finalmente, circa un
anno dopo la presentazione della richiesta e la prima spedizione di
marijuana legale non arrivò che diversi mesi dopo. Dovevamo effettuare esami
laboriosi per stabilire di quali benefici stessi godendo; per esempio, una
volta alla settimana andavo dal mio dottore per fare un'elettromiografia
(EMG), che registra la tensione e la spasticità dei muscoli. Dopo aver
ottenuto una lettura di riferimento uscivo dallo studio, andavo al
parcheggio e fumavo una o due sigarette di marijuana. Poi rientravo e facevo
un'altra EMG.
Ho fumato marijuana (al 2% di THC) nella legalità per
quattro anni e mezzo, a un ritmo di dieci sigarette al giorno. Ho avuto
problemi con la giustizia solo una volta, a una riunione d'affari in
Florida. Ero rimasto in piedi tutto il giorno e non avevo avuto l'occasione
di fumare abbastanza marijuana, perciò, ora di sera, le gambe mi facevano
male. La cena sarebbe stata servita nella sala da pranzo di un albergo. Non
ho mai saputo come cavarmela in situazioni di questo tipo, perché non voglio
urtare la suscettibilità della gente. Poi, però, mi accorsi che altre
persone attorno a me stavano fumando tabacco, e alla fine decisi che anch'io
dovevo fumare. Mia moglie mi suggerì di andare al gabinetto degli uomini in
modo da poter avere un po' di privacy ed evitare di infastidire qualcuno.
Mentre mi trovavo là, entrò un garzone che si accorse dell'odore di
marijuana e mi chiese se poteva fare un paio di "tiri" dalla mia sigaretta.
Gli dissi di no. Lui si arrabbiò e uscì.
Mi resi conto di quanto si
era arrabbiato pochi minuti più tardi, quando il gabinetto fu invaso dalla
squadra narcotici di Orlando. La polizia si precipitò all'interno e cominciò
a farmi domande. Ci fu scompiglio tra i miei soci d'affari quando fui
condotto fuori dal bagno. lo cercai di spiegare che facevo uso di marijuana
fornita dal governo, nella legalità, per scopi medici. Mi dissero che tutto
ciò non aveva importanza, dal momento che la marijuana era illegale ai sensi
delle leggi della Florida.
Fui arrestato e portato in prigione.
Mentre stavo entrando nella stazione di polizia inciampai su un gradino di
cemento, caddi e mi ruppi un vaso sanguigno, procurandomi un'emorragia
interna. Non si vedeva sangue, ma la caviglia si stava gonfiando e non
potevo camminare. Gli agenti di polizia si fecero tutti intorno a me, mi
ordinarono di alzarmi e presero a battersi le palme delle mani con i
manganelli. Cominciavo a sentirmi come se stessi recitando la parte del
cattivo in un film di serie B.
Alla fine riuscii a convincere gli
agenti che non ce la facevo ad alzarmi e che avevo bisogno di assistenza
medica. Fu chiamata un 'infermiera. Lei telefonò a un medico, il quale le
consigliò di non prendersela troppo. La mia richiesta di essere portato in
ospedale fu respinta. Mi procurarono una sedia a rotelle e, seduto su di
essa, fui condotto di fronte a una cella. La polizia sequestrò sette
sigarette di marijuana preconfezionate dalla NIDA e mi accusò di esserne in
possesso. Mi schedarono scattandomi le foto e prendendomi le impronte
digitali. lo versai 250$ di cauzione e chiesi di riavere le mie sigarette di
marijuana, ma mi fu detto che sarebbero state trattenute come corpo del
reato. lo dissi che andava bene, tanto ne avevo un barattolo intero (circa
trecento sigarette) nella mia stanza, al motel. A quel punto, evidentemente,
la polizia stava ormai cominciando a temere di aver commesso un errore, dato
che non cercarono di ottenere un mandato di perquisizione.
L'arresto
era avvenuto di venerdì sera. Il lunedì mattina seguente riuscii a
contattare un avvocato dell 'FDA che disse che avrebbe "sistemato le cose".
Poco tempo dopo le autorità dello Stato della Florida mi fecero sapere che
avrebbero lasciato cadere il procedimento e che avrebbero cancellato la
registrazione del mio arresto. La polizia mi restituì il denaro della
cauzione ma non le mie sette sigarette di marijuana.
Dai rapporti
annuali del mio medico inoltrati all'FDA e per mia esperienza, so che la
marijuana ha attenuato i miei dolori in modo efficace e mi ha permesso di
ridurre il mio consumo di farmaci convenzionali (e di gran lunga più
pericolosi) come Sopor, Dilantin e Dilaudid. L'unico problema è che la NIDA
alle volte viene meno ai suoi impegni e mi fornisce marijuana troppo
leggera. Quando ciò accade, sono costretto a fumare così tanto che mi fanno
male i polmoni. Per il resto non ho mai avuto inconvenienti
gravi.2.7.2 L'utilità della marijuana nella
cura dei dolori e di altri sintomi conseguenti alla chirurgia cerebrale è
descritta da Karen Ross nella seguente testimonianza:
Due giorni
dopo l'operazione lessi un articolo del Boston Globe sugli impieghi in
medicina della marijuana, in particolar modo per le persone sottoposte a
cure contro il cancro come le radiazioni e la chemioterapia. Ero stata una
consumatrice moderata di marijuana prima della mia gravissima malattia, e
presi quell'articolo in seria considerazione, visto che mi accingevo a
sottopormi a una terapia con radiazioni.
Dopo l'intervento mi era
stato prescritto il desametasone, un farmaco antinfiammatorio, per il
rigonfiamento del cervello, e lo Zantac [ranitidina] per proteggere lo
stomaco dagli effetti del desametasone. Nel giro di pochi giorni dal mio
ritorno a casa cominciai ad avere forti crisi di ansia. Alle volte pensavo
che sarei impazzita. A fasi alterne, mi sentivo come se il petto mi dovesse
esplodere o essere schiacciato. Il mio udito era così sensibile che riuscivo
a sentire le bollicine in una lattina di soda. I miei discorsi erano confusi
e indistinti, e inoltre mischiavo tra di loro suoni diversi in modo che le
parole della gente sembravano dei mormorii a meno che non stessero parlando
direttamente con me. Spesso, per poter seguire un discorso, dovevo basarmi
sul movimento delle labbra del mio interlocutore. Contro questi disturbi il
dottore mi diede da prendere lo Xanax [alprazolam], un tranquillante, e
l'Elavil [amitriptilina], un antidepressivo. I farmaci mi furono di qualche
aiuto, ma ancora non stavo bene.
La mia famiglia mi procurò un po' di
marijuana e cominciai a usarla assieme a Xanax ed Elavil. Ero solita fare al
massimo due "tiri" un paio di volte al giorno. Trovavo che la marijuana mi
rilassasse e mi permettesse di concentrare l'attenzione, così che mi sentivo
meno ansiosa e riuscivo a riposare più facilmente. Inoltre attenuava la
pressione che mi sentivo nella testa meglio di quanto non facesse il
desametasone. Non provai mai lo "sballo". Mi trovavo già in uno stato di
sovraeccitazione emotiva e fisica, e la marijuana mi portava a velocità di
crociera, regolare e costante. Col tempo fui in grado di ridurre il mio
consumo di Xanax e di smettere completamente di prendere l'Elavil. Sei
settimane dopo l'intervento chirurgico cominciai la cura con le radiazioni e
continuai a sottopormi a essa per cinque giorni alla settimana, per sei
settimane. Prima e dopo ogni seduta fumavo marijuana. Mi permetteva di
dormire durante la cura ed eliminava la sensazione di costrizione e
formicolìo che ero solita sentirmi dopo nella testa.
Il desametasone
mi fece guadagnare più di venticinque chili. Inoltre si manifestarono
debolezza dei muscoli, particolarmente nelle ginocchia, insonnia, sbalzi di
umore, alterazioni della personalità, perdita di potassio e crescita dei
peli facciali. Quando la somministrazione di desametasone venne finalmente
interrotta, sei settimane dopo la fine della cura con le radiazioni, persi
buona parte del peso in eccesso e riguadagnai la maggior parte della mia
forza fisica. Anche il mio modo di parlare diventò più chiaro (ancora oggi
ho scarsa sopportazione per i rumori e devo ancora leggere i movimenti delle
labbra per seguire una conversazione).
Per tutto quel periodo avevo
continuato a fare uso di marijuana. Alla fine tornai a lavorare a part time,
ma poco dopo la marijuana diventò irreperibile. I miei mal di testa, la
pressione in eccesso nella testa e negli occhi, l'intorpidimento facciale,
le crisi di ansia e i discorsi indistinti ritornarono. Un esame del cervello
non mostrò mutamenti nel tumore. Quando riuscii ad acquistare un po' di
marijuana e a fumarla, tutti i sintomi scomparvero nel giro di un giorno. Un
paio di mesi dopo la marijuana tornò a essere irreperibile e i sintomi
ritornarono, puntuali come orologi. A quel punto ero sicura del
perché.
I miei amici riuscirono a trovare un po' di marijuana e a
rimettermi in pista. Cominciai a comprarne un po' di qua, un po' di là,
giusto per essere sicura che non mi sarei più fatta trovare senza. Al medico
che aveva impostato la terapia di prima attuazione, dissi che prendevo
marijuana per il mal di testa, la pressione alta e la difficoltà nel
parlare. Mi disse che non poteva passarci sopra, soprattutto perché era
illegale, ma non cercò di fermarmi. Ormai ero in grado di affrontare i miei
mal di testa con l'uso regolare di Tylenol, Xanax e marijuana. In media, un
solo spinello mi durava dai tre ai quattro giorni. Certi giorni non fumavo
affatto.
Dieci mesi più tardi rimasi ancora una volta senza
marijuana, e i mal di testa e l'ansia ritornarono. Cominciai a prendere
Tylenol e codeina insieme. Ero impegnata a imballare in vista di un trasloco
dopo dodici anni che vivevo nella mia vecchia casa, e pensavo che lo stress
da trasloco potesse avere qualcosa a che fare con i miei problemi. Lo dissi
al mio oncologo e lui suggerì un ulteriore esame del cervello, che non
rivelò mutamenti.
In seguito, mi incontrai con il mio neurologo. A
quel punto i dolori e l'eccesso di pressione nella testa stavano diventando
più fastidiosi e i miei discorsi erano più sconnessi. Il neurologo concluse
che soffrivo di crisi epilettiche e mi prescrisse il Dilantin
[difenilidantoina, un anticonvulsivante], che non ebbe effetto. Peggiorai
soltanto. Mi causava insonnia, confusione mentale e perdita di
coordinazione. Cominciavo a essere frustrata e arrabbiata.
Telefonai
al neurologo e lui mi prescrisse ancora il desametasone. Neanche quello ebbe
effetto. Lui diceva che avevo già ricevuto il massimo di radiazione
tollerabile. Su questo tipo di tumore la chemioterapia non ha effetto, e non
era detto che un ulteriore intervento chirurgico sarebbe stato efficace. Mio
marito e io lasciammo il suo studio sentendoci come se avessimo avuto
novanta chili di mattoni sulle spalle. Due giorni dopo alcuni amici mi
fecero visita e portarono della marijuana. Feci due tiri. Dieci minuti più
tardi la pressione in eccesso che avvertivo all'interno degli occhi era
scomparsa, non avevo più mal di testa, l'intorpidimento facciale se n'era
andato e il mio modo di parlare era tornato normale.
Quattro giorni
dopo la visita dal neurologo, mio marito e io tornammo dall'oncologo. Disse
che avrebbe potuto sottopormi ad altre sedute di radiazioni, dato che era
disponibile una tecnologia più avanzata, e che alla chirurgia si poteva
sempre ricorrere come a una risorsa estrema. Fummo alleggeriti di un po' del
peso che ci portavamo sulle spalle. Il dottore si accorse che le mie
condizioni erano migliorate, e io gli raccontai della marijuana. Replicò:
"Non ho intenzione di dirle di non farlo, e non ho intenzione di dirle di
farlo, ma se funziona - ed è evidente che funziona - chi sono io per avere
qualcosa in contrario?".
Lasciammo che le cose andassero così.
Decisi di smettere di prendere tutte le medicine che mi erano state
prescritte (Dilantin, desametasone e Tylenol con codeina) non solo
perché non erano efficaci ma soprattutto perché ero preoccupata per gli
effetti collaterali. La marijuana non aveva nessun effetto collaterale di
cui io mi potessi accorgere. La mattina dopo la visita dall'oncologo,
chiamai ancora il mio neurologo. Era soddisfatto perché il mio modo di
parlare era ritornato quello di una persona normale e perché sembravo più
vivace. Gli dissi che tutti quei miglioramenti non avevano nulla a che fare
con i farmaci che lui mi aveva prescritto, e che io non avevo più intenzione
di prendere. Mi rispose come mi aspettavo, dicendo che non era d'accordo e
che la marijuana era illegale. Proseguì: "Se questa è la sua decisione non
c'è nulla che io possa fare per fermarla". Mio marito e io lo incontrammo
ancora un paio di settimane dopo e io gli raccontai un'altra volta tutta la
storia. Lui fu molto critico e sprezzante. Mi disse che non avrei dovuto
guidare e che la marijuana è dannosa per la memoria a breve termine. Si
comportava come se io passassi tutto il mio tempo a sballarmi. Cercai di
spiegargli che fumavo solo al mattino o alla sera o quando i miei disturbi
erano particolarmente forti, e che non provavo nessun genere di "sballo",
Penso che abbia reagito in quel modo perché ero io, e non lui, ad avere il
controllo sulla mia cura.
Abbiamo deciso di trovarci un altro dottore
che non sia così inflessibile, di vedute ristrette e pessimista e che,
oltretutto, sia meglio informato sulla nuova tecnologia delle radiazioni.
Voglio vivere ogni mia giornata con speranza, felicità, e con tutto il
piacere che la vita può offrirmi. So che i miei problemi sono lungi
dall'essere finiti e probabilmente non finiranno mai, ma so anche che sono
preparata a gestire la mia vita e la mia cura, e rifiuto di essere trattata
come se non lo fossi. Continuerò a mantenermi in salute a modo mio con
l'aiuto della marijuana.
Come trentaduenne madre di tre
bambini piccoli, ha riscontrato che la cannabis non compromette le sue facoltà
allo stesso modo in cui le compromettevano le forti dosi di oppiacei: "Per
qualche ragione, la marijuana rilassa il sistema nervoso e mi permette di
lavorare mentalmente a un livello normale. Quando prendo il Darvocet o il
Tylenol divento una persona diversa. Mi sveglio sentendomi drogata, vado a
dormire sentendo mi drogata, mi muovo come una persona drogata. Mi lascio
dietro pezzi di famiglia perché sono talmente sconvolta dai farmaci che non
sono in grado di fare quello che dovrei, nemmeno starmene seduta a parlare con
i miei figli o a leggergli una storia. Come madre non ho tempo da perdere con
i miei bambini per colpa di uno stato mentale indotto dai farmaci". Questa
donna fa eco a quanto era già noto nel XIX secolo, e cioè che la cannabis,
sebbene non attenui il dolore altrettanto efficacemente quanto gli oppiacei,
ha meno effetti collaterali seri e non crea il rischio della dipendenza.
2.8 Emicrania
In genere gli attacchi sono
ricorrenti. In un soggetto predisposto, essi possono essere cagionati dallo
stress, da certi alimenti e da certi tipi di stimolazione sensoriale (luce
intensa, forti rumori, odori penetranti). La malattia si manifesta in genere
prima dei venti anni di età e raramente dopo i cinquanta. Circa il 20% della
popolazione ha avuto almeno un attacco di emicrania; le donne hanno una
probabilità tripla di soffrire di emicrania rispetto agli
uomini.
Ci sono diversi tipi di emicrania.
Nell'emicrania comune il dolore è solitamente pulsante e spesso, ma non
sempre, localizzato su un lato della testa. Spesso è accompagnato da nausea o
vomito e viene esacerbato da qualsiasi movimento o rumore. Nell'emicrania
classica o cefalea, che al confronto è rara, l'attacco comincia con dei
disturbi alla vista (tra i quali cecità parziale e lampi luminosi nel campo
visivo) e talvolta con vertigini, debolezza su un lato del corpo, tintinnio
nelle orecchie, sete, sonnolenza, o con la sensazione di una minaccia
incombente. Questi disturbi neurologici sono seguiti da un forte dolore
limitato a un lato della testa con ipersensibilità alla luce e, spesso, nausea
e vomito. L'emicrania classica può anche risultare complicata da prurito,
intorpidimento, debolezza o paralisi in varie parti del corpo. Un altro tipo
di mal di testa probabilmente connesso all'emicrania è la cefalea a grappolo o
cefalea notturna parossistica, che è più comune tra gli uomini che non tra le
donne. Qui il dolore si concentra attorno a un occhio; è costante anziché
pulsante, e in genere riesce a risvegliare dal sonno chi ne soffre. Tende a
ricorrere nelle ore notturne per settimane o anche per mesi, per poi
scomparire per mesi o addirittura per anni.
Le
emicranie sono probabilmente provocate da una dilatazione dei vasi sanguigni
nel cervello. Possono cominciare a manifestarsi a causa di un disturbo
neurologico o di più generali scompensi nella regolazione metabolica. È stato
dimostrato che il tasso di serotonina (un neurotrasmettitore) cala durante un
attacco.
I farmaci possono essere impiegati sia
per ridurre la durata degli attacchi di emicrania, sia per prevenire la loro
ricorrenza a lungo termine. I prodotti chimici ricavati dal fungo della segale
cornuta, che cresce alle spese della segale e di altre Graminacee, sono assai
efficaci nell'arrestare un attacco nei suoi stadi iniziali; i derivati della
segale cornuta inibiscono gli effetti della serotonina. Una volta che il mal
di testa si sia completamente stabilizzato, si possono usare degli oppiacei
(in genere codeina o meperidina) per attenuare il dolore. Alcuni farmaci
prescritti per la prevenzione dell 'emicrania cronica sono il metisergide (che
ha affinità con i derivati della segale cornuta), i beta-bloccanti, i
calcio-antagonisti, la cloropromazina (Thorazine(r)) e lo steroide prednisone.
Il 10-20% dei malati non trae beneficio da questi farmaci, e una percentuale
ben più alta ottiene un sollievo incompleto o risente di gravi effetti
collaterali.
Come abbiamo osservato, la
cannabis era tenuta in grande considerazione come rimedio contro l'emicrania
nel XIX secolo, eppure l'argomento è quasi completamente ignorato dalla
letteratura medica del XX secolo. 2.8.1 Carol Miller, una malata di emicrania
classica, descrive la sua esperienza come segue:
Dopo che questa situazione si era
ripetuta diverse volte, mia madre mi portò dal nostro medico, amico intimo
di famiglia e vicino di casa, dal quale mi facevo visitare molto spesso
perché avevo un sacco di allergie. Lui e mia madre si trovarono d'accordo
sull'idea che i mal di testa fossero causati dalla recente morte della mia
sorellina, così lui non mi prescrisse niente contro la nausea e il dolore.
Nonostante i mal di testa continuassero con una certa regolarità, fu
soltanto in college che mi venne diagnosticata l'emicrania e che ricevetti
le prime cure. All'infermeria del college mi diedero l'Ecotrin [aspirina
rivestita], che mi fu di qualche aiuto per il mal di testa ma non per gli
effetti ottici o per la nausea. Mi fece venire anche un tremendo bruciore di
stomaco.
Una volta il dolore era così forte che mi fecero
un'iniezione di Demerol [un oppiaceo sintetico], che spazzò via il dolore
pressoché completamente, ma mi lasciò in uno stato di delirio. Alle volte
prendevo uno sciroppo al gusto di banana (probabilmente codeina) che mi
faceva venire molto sonno. Ricordo che era difficile farcela nel periodo
degli esami di fine anno perché ero davvero sconvolta. Oltre tutto quella
era la stagione in cui la mia asma peggiorava notevolmente.
Dopo la
laurea, mentre lavoravo all'Università dell Indiana, fui visitata da un
medico privato che mi prescrisse il Mudrane [un'associazione di farmaci che
comprende efedrina e fenobarbitale], avvertendomi che dava assuefazione.
Smisi di prenderlo perché mi sembrava che riducesse la mia pressione a
valori così bassi che riuscivo a malapena a lavorare. Dopo che mi fui
trasferita a San Francisco mi diedero da prendere il Darvon [propossifene,
un altro oppiaceo], ma me ne servii solo per poco tempo perché mi faceva
venire l'esantema.
Per un certo tempo avevo preso l'aspirina insieme
alla codeina, ma trovavo che questa combinazione di farmaci mi rendesse
terribilmente stitica. Quando rimasi incinta del mio primo bambino, ero
molto preoccupata per le mie cure. Un amico mi disse che non c'era una
medicina che potessi prendere senza correre rischi, e mi suggerì di
ricorrere alle erbe. Stavo studiando erboristeria e mi preparavo a un parto
naturale, perciò questo suggerimento mi sembrò giusto. Provai lo
scullap, un tè leggero di valeriana e camomilla, e poi la lavanda. I
tè avevano un effetto calmante e il ritmo di vita più lento, dopo che avevo
lasciato il mio lavoro, mi fecero bene: le emicranie diventarono
rare.
Diversi anni dopo le emicranie ritornarono, e mio marito mi
disse che aveva letto che la marijuana andava bene per il mal di testa. Ero
sbalordita. Due tiri e un breve riposo allontanarono completamente la nausea
e il mal di testa. Non appena mi accorgevo di quel particolare tremolio nel
campo visivo che mi preannunciava un'emicrania in arrivo, potevo fumare un
po' di cannabis e schiacciare un breve pisolino: l'emicrania non si
manifestava affatto. In genere ero pronta a tornare al lavoro nel giro di
mezz' ora. Mi dava uno straordinario senso di potere avere finalmente un
tale controllo sulle mie emicranie.
Nei diciotto anni che sono
passati da quando ho cominciato a fare uso di cannabis per alleviare
l'emicrania, mi sono fatta sorprendere diverse volte senza la mia erba
quando ero lontana da casa. Una volta provai a prendere il Tylenol e mi
accorsi che era abbastanza efficace contro il dolore, ma per niente contro
la nausea e gli effetti ottici. Anche le mie figlie maggiori (che ora hanno
diciassette e ventun anni) sono soggette a emicranie occasionali, che hanno
cominciato a manifestarsi con le prime mestruazioni. Entrambe traggono uno
straordinario sollievo dall'erba della cannabis. Mia madre soffre di forti
mal di testa, ma non ha mai fatto uso di cannabis perché è illegale. Se la
passa veramente male con i medicinali che le hanno prescritto: ha problemi
di nausea, stitichezza, pressione alta. Le dico spesso che quando la
marijuana sarà legale, e lei la userà per la prima volta e si renderà conto
di quanto ha sofferto inutilmente per tutti questi anni, allora si
arrabbierà sul serio.
2.9 Prurigine2.9.1 Don Spear racconta la storia riportata di
seguito:
I medici dell'ospedale militare in Germania mi
diagnosticarono una neurodermite atopica. Provai tutti i medicinali, le pomate
e i preparati a disposizione, ma nessuno fece effetto. Avevo le mani e le
braccia lacere a causa della pelle spaccata, che si squamava, e del continuo
grattare. Andai in cancrena e i dottori presero in considerazione l'idea di
amputarmi entrambe le braccia fino al gomito. In uno sforzo estremo di evitare
l'amputazione, mi fasciarono completamente gli avambracci in modo che non li
potessi grattare; inoltre mi diedero da prendere dosi massicce di antibiotici
e del nuovo "farmaco delle meraviglie", il cortisone. Per il prurito, che
quasi mi faceva impazzire, i medici mi prescrissero tranquillanti e sedativi.
Le braccia furono salvate, ma io non potevo più tollerare altro cortisone.
Nonostante i migliori sforzi dell'esercito, la mia malattia cutanea era
incontrollabile. Nel gennaio del1956 fui congedato con una disabilità connessa
al 50% con il servizio. Nei dieci anni successivi provai quasi ogni medicinale
e farmaco ufficiale a disposizione: forti dosi di Librium, Valium e altri
tranquillanti che inducono dipendenza, creme e pomate di cortisone, bagni e
preparati a base di catrame di carbone. Nessuno mi diede sollievo a lungo
termine. Diverse volte fui ricoverato in ospedale per infezioni causate
dall'irresistibile prurito e della pelle spaccata.
Poiché la mia
malattia cutanea mi sfigurava, era difficile trovare lavoro. I datori di
lavoro non mi assumevano e gli altri dipendenti non volevano lavorare con me.
Finalmente fui assunto dalla Fisher Body Company, ma ebbi ripetutamente
bisogno di lunghi periodi di congedo per malattia. Dopo dieci anni la
compagnia calcolò che mi ero fatto sei anni di malattia e mi licenziò.
Cercando lavoro per mantenere mia moglie e quattro bambini, mi resi conto una
volta di più che molte persone non avevano nessuna intenzione di assumermi. La
mia malattia cutanea persisteva. Mi svegliavo spesso alla notte per scoprire
che del sangue era trasudato dalla cute sul cuscino. Il prurito era così
intenso e insopportabile che usavo la carta vetrata direttamente sulla pelle
per trovare sollievo. Il mio matrimonio andò in malora e diventai molto schivo
e timoroso.
Nella primavera del 1973, un mio amico che aveva combattuto
in Vietnam mi raccontò di aver fumato marijuana quando era là e di averla
trovata gradevole. lo ero riluttante a provare, non solo perché era illegale
ma anche perché non mi piace fare uso di droghe di qualsiasi genere. Avevo
abbandonato da molto tempo l'alcol e il tabacco, e la mia esperienza con i
farmaci mi aveva reso ancor più cauto. Provengo da un retroterra culturale
rigoroso e moralista, nel quale l'uso di droghe non riscuote certo
approvazione. Un fine settimana, a una corsa automobilistica, mi decisi
finalmente a fare un paio di tiri dalla sigaretta di marijuana
del mio
amico. È possibile che abbia fatto un paio di tiri anche da un 'altra
sigaretta il giorno dopo. Non avevo notato niente di insolito dopo aver
fumato, nessun effetto sulla mente. li martedì o il mercoledì della settimana
seguente mi accorsi che una zona particolarmente malridotta della mia pelle
appariva molto meno arrossata e infiammata. Mi venne in mente che il prurito
non mi tormentava da diversi giorni. Mi chiesi se la marijuana potesse avere
qualcosa a che fare con l'inaspettato miglioramento, ma non diedi molto
credito all'idea.
li fine settimana successivo il mio amico e io
andammo a un'altra corsa d'auto, e ancora una volta lui mi offrì la marijuana.
li prurito mi era ormai tornato, ma cessò improvvisamente con il primo tiro.
Ero allibito. Dopo che avevo provato per anni ogni farmaco e ogni prodotto
disponibile per la pelle senza trame sollievo, il prurito era cessato con un
tiro di una sigaretta di marijuana. Nei tre anni successivi continuai a fumare
marijuana solo nei fine settimana, senza fare mai più di pochi tiri alla
volta. Le condizioni della mia pelle migliorarono in modo sbalorditivo.
Siccome non mi grattavo più, la pelle spaccata guarì. Poi le chiazze rosse
cominciarono a sparire e vennero rimpiazzate da pelle normale.
In breve
tempo non ero più sfigurato. Trovai un impiego fisso e diventai un lavoratore
indefesso. Non dovevo più prendere congedi per malattia.
All'inizio del
1977 i miei fratelli maggiori scoprirono che stavo fumando marijuana e lo
dissero ai nostri genitori. Anche se avevo passato i quarant'anni, mi
preoccupavo molto di non urtare la loro suscettibilità. Spiegai loro la
situazione, ma mi resi conto che non erano convinti. A vevano paura che fossi
diventato un tossicodipendente. Dissi loro che avrei smesso di fumare
marijuana per tre mesi, per vedere cosa succedeva. Non avevo mai sperimentato
nessun tipo di inconveniente fisico o mentale, e non trovai difficoltà a
smettere. Non mi venne nessun genere di smania, non ebbi né "tremiti" né
"sudori". Ma nel giro di tre giorni tutto il corpo mi prudeva. La pelle tra le
dita dei piedi e delle mani si irritò e si infiammò. L'infiammazione si estese
rapidamente a mani e piedi, per propagarsi a braccia e a gambe, e poi al cuoio
capelluto, alla testa e al torace. Nel giro di poche settimane la pelle mi si
stava spaccando, mi grattavo in continuazione, e strie di colore rosso scuro
cominciavano a comparire su gran parte del mio corpo. Mi stavo sfigurando di
nuovo, e di notte trovavo sangue sulle lenzuola. I miei genitori e mio
fratello si allarmarono e cercarono di convincermi a riprendere a fumare la
marijuana. Ero riluttante, perché non mi piaceva essere considerato un
tossicodipendente. Alla fine, compresi che la mia famiglia non si preoccupava
del fatto che la marijuana fosse illegale. Erano interessati soltanto ai suoi
effetti sulla mia pelle.
Ricominciai a fumare nei fine settimana.
Stavolta ci volle quasi un anno prima che la pelle ritornasse alla normalità.
Ho continuato a fumare marijuana per i dieci anni seguenti (fino al febbraio
del 1987) e i miei disturbi cutanei sono rimasti sotto controllo. Ho mantenuto
uno stato di servizio esemplare e non ho mai fumato in orario lavorativo. Nel
febbraio del 1987 , venni a sapere che la mia ditta intendeva effettuare delle
analisi delle urine su un certo numero di dipendenti scelti a caso. Chiesi
aiuto ai rappresentanti del mio sindacato, e nel frattempo mi interessai
presso i medici della Veterans' Administration perché mi aiutassero a
procurarmi la marijuana legalmente. Loro mi indirizzarono all'unità di
riabilitazione dalle droghe della VA, dove mi fu detto che non avevo problemi
di droga. In pratica, i medici stabilirono che io mi limitavo a fare uso di
quella droga a scopo terapeutico. Mi incoraggiarono a continuare a fumare
marijuana. Ma la minaccia di un'analisi delle urine e della possibile perdita
del posto di lavoro mi avevano turbato profondamente. Confuso, non sapendo
cosa fare, smisi di fumare. La mia malattia cutanea tornò a manifestarsi quasi
immediatamente.
Dopo poche settimane era già grave e peggiorava
rapidamente. I miei genitori, mio fratello, alcuni buoni amici e addirittura i
miei rappresentati sindacali mi incoraggiarono a ricominciare a fumare
marijuana. L'alternativa era obbedire alla legge e vivere con una malattia
cutanea deturpante che avrebbe potuto, a causa delle infezioni conseguenti,
uccidermi. Mi presi un congedo per malattia e cominciai a coltivare la
marijuana per conto mio.
Nel dicembre del 1989 un vicino di casa lo
andò a dire alla polizia. Fui arrestato e condannato. La sanzione consisteva
in una grossa multa, in quattro mesi di arresti domiciliari e due anni di
libertà condizionata. Il giudice disse che tutte le accuse a mio carico
sarebbero venute a cadere se avessi ottenuto una prescrizione legale. Ma ho
dovuto smettere di fumare a causa delle analisi delle urine al lavoro. Da
quando ho smesso di nuovo (dicembre 1989) il prurito è stato pressoché
costante, e la pelle si spacca ripetutamente e perde fluidi in corrispondenza
di piedi, mani, cuoio capelluto, gambe, torace e persino del
pene.
La marijuana è l'unica sostanza che previene sia le lesioni
cutanee, sia l'insopportabile prurito. Se la marijuana fosse legale, riuscirei
a controllare questa malattia infernale. La marijuana potrebbe essere di aiuto
per altre migliaia di persone con simili problemi alla pelle, ma su questo non
si fa ricerca perché la marijuana è una droga proibita e ai medici non
piacciono le controversie politiche.
2.10 Dolori mestruali e doglie2.10.1 La seguente testimonianza descrive
entrambi gli impieghi, come anche l'effetto benefico sulla nausea durante la
gravidanza:
Ho avuto il mio primo bambino
nel 1972, quando avevo soltanto diciassette anni. I dottori mi fecero
un'iniezione per farmi dormire e quando mi svegliai mi ritrovai con un
bambino letargico. Passammo tre giorni in ospedale. Nel 1979, quando ho
avuto il mio secondo figlio, avevo seguito dei corsi di parto naturale;
inoltre avevo fumato marijuana mentre ero diretta all'ospedale. La marijuana
mi rilassò ben bene e in questo modo alleviò parte del dolore, ma il suo
effetto durò soltanto un'ora e mezza circa. Quella volta rimasi in ospedale
soltanto per venti ore, e mi sorprese vedere quanto il mio secondo figlio
fosse più sveglio e affamato a paragone del mio primo, povero bambino
drogato.
Nel 1991 rimasi ancora incinta. Al settimo mese mi venne la
nausea, soffrii di bruciori di stomaco, e cominciai a vomitare dalle due
alle quattro volte al giorno: abbastanza per non aumentare per niente di
peso. Il dottore stabilì che la causa di tutto questo era la pressione che
la bambina esercitava sulla valvola in cima allo stomaco. Cominciai a fumare
marijuana prima dei pasti, arrivando in questo modo a vomitare soltanto due
volte alla settimana. La bambina pesava quasi quattro chili alla nascita. Mi
domando quanto sarebbe stata piccola se non avessi fatto uso della mia
medicina antinausea preferita.
In quell'occasione, il giorno del
parto rimasi a casa e fumai marijuana per le prime sette ore del travaglio.
Partorii meno di tre ore dopo essere arrivata all'ospedale e il dolore non
rappresentò un problema finché l'effetto della marijuana non svanì, subito
prima che partorissi. Quella volta non fui sorpresa del fatto che la bambina
fosse sveglia e affamata. Tornammo a casa sei ore dopo il parto; passai in
ospedale meno di nove ore, così che il mio ricovero risultò più breve di un
giorno.