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Ai coraggiosi autori delle testimonianze
raccolte in questo libro

Il rifiuto di ogni fonte di evidenza
è sempre un tradimento verso quel razionalismo di fondo
che sospinge in avanti la scienza al pari della filosofia.
Alfred North Whitehead

Indice

Prefazione

1 Storia della cannabis

2 La cannabis come medicina
2.1 Chemioterapia neoplastica
  2.1.1 1a Testimonianza - leucemia linfatica
  2.1.2 2a Testimonianza - tumore al midollo osseo
  2.1.3 3a Testimonianza - morbo di Hodgki
  2.1.3 4a Testimonianza - mesotelioma addominale
2.2 Glaucoma
  2.2.1 1a Testimonianza - glaucoma terminale Robert Randal
  2.2.2 2a Testimonianza - glaucoma terminale Elvy Musikka
2.3 Epilessia
  2.3.1 1a Testimonianza - crisi parziali complesse Carl Oglesby
  2.3.2 2a Testimonianza - grande male e crisi di assenza Gordon Hanson
2.4 Sclerosi multipla
  2.4.1 1a Testimonianza - Greg Paufler
  2.4.2 2a Testimonianza - Letteratura Medica D.B. Clifford, Annals of Neurology
  2.4.3 3a Testimonianza - Letteratura Medica H.M. Meinck, P.W. Schijnle e B. Conrad, Journal of Neurology
  2.4.4 4a Testimonianza - Debbie Talshir
  2.4.5 5a Testimonianza - Testimonianza Anonima di uno Psichiatra
2.5 Paraplegia e quadriplegia
  2.5.1 1a Testimonianza - Chris Woiderski
2.6 AIDS
  2.6.1 1a Testimonianza - Ron Mason
  
2.6.2 2a Testimonianza - Dottor Z (Anonimo)
2.7 Dolori cronici

  2.7.1 1a Testimonianza - Irvin Rosenfeld
  2.7.2 2a Testimonianza - Karen Ross
2.8 Emicrania
  2.8.1 1a Testimonianza - Carol Miller
2.9 Prurigine
  2.9.1 1a Testimonianza - Don Spear
2.10 Dolori mestruali e doglie
  2.10.1 1a Testimonianza - Casalinga (Anonima)
2.11 Depressione e altri disturbi emotivi
2.12 Altri impieghi medici
2.13 In difesa delle evidenze aneddotiche 155

3 Valutare i rischi

4 La medicina di un tempo e del futuro

Prefazione

    Quando cominciai a occuparmi della marijuana nel 1967, non dubitavo che si trattasse di una droga molto nociva che, sfortunatamente, veniva usata da un numero sempre maggiore di giovani incoscienti che non ascoltavano o non potevano capire i moniti sulla sua pericolosità. La mia intenzione era di descrivere scientificamente la natura e il grado di questa pericolosità. Nei tre anni successivi, mentre passavo in rassegna la letteratura scientifica, medica e profana, il mio giudizio cominciò a cambiare. Arrivai a capire che anch'io, come molte altre persone in questo paese, ero stato sottoposto a un lavaggio del cervello. Le mie credenze circa la pericolosità della marijuana avevano scarso fondamento empirico. Quando completai quella ricerca, che ha rappresentato la base per un libro, mi ero ormai convinto che la cannabis fosse considerevolmente meno nociva del tabacco e dell'alcol, le droghe legali di uso più comune. Il libro fu pubblicato nel 1971; il suo titolo, Marihuana Reconsidered, rifletteva il mio cambiamento di vedute.

    Allora io credevo ingenuamente che, una volta che la gente avesse capito che la marijuana era molto meno pericolosa di altre droghe già legalizzate, avrebbe favorito la sua legalizzazione. Nel 1971 io prevedevo fiduciosamente che la cannabis sarebbe stata legalizzata per gli adulti entro il decennio. Non avevo ancora imparato che le droghe illecite hanno una proprietà molto strana: non sempre chi ne fa uso si comporta irrazionalmente, mentre ciò accade sicuramente a molti non-consumatori. Invece di rendere la marijuana legalmente disponibile agli adulti, abbiamo continuato a criminalizzare molti milioni di americani. Circa 300.000 persone, per lo più giovani, vengono arrestate a causa della marijuana ogni anno, e il clima politico si è ormai deteriorato così gravemente che è diventato difficile discutere sulla marijuana in modo aperto e libero.

[...]

    Nonostante l'illegalità della marijuana e i pregiudizi contro di essa, un gran numero di americani continua a fare uso regolare di Cannabis. Se una volta era considerato un divertimento dei giovani o l'espressione di una ribellione giovanile, il consumo d marijuana è ormai una pratica comune fra gli adulti. Milioni di persone hanno fumato marijuana per anni e molti di loro continueranno a fumarne per il resto della loro vita. Queste persone sono convinte di non fare del male né a se stessi né a nessun altro, esattamente come ne sono convinti i fumatori e i bevitori.

   Tra coloro che ne fanno uso, anzi, sono in molti a credere che la marijuana migliori la loro vita -un argomento di cui si sente parlare raramente su carta stampata. In più di vent'anni di ricerche ho letto una grande quantità di materiale sui potenziali effetti nocivi della cannabis (in gran parte assurdità) e molto poco sulle sue proprietà benefiche. Sebbene queste proprietà presentino diversi aspetti, l'impiego medico è uno dei più importanti ed è stato gravemente ignorato. Sono giunto alla conclusione che se qualunque altra droga avesse rivelato simili potenzialità terapeutiche abbinate a un simile primato di innocuità, gli specialisti e l'opinione pubblica avrebbero dimostrato per essa un interesse molto maggiore. La reputazione largamente immeritata della cannabis come droga nociva nell'uso ricreativo e le conseguenti restrizioni legali hanno ostacolato il suo impiego medico e la ricerca scientifica. Come risultato, la comunità medica è diventata ignorante in fatto di cannabis ed è stata sia un agente, sia una vittima, nella diffusione di informazioni sbagliate e di miti terrificanti.

    Quello che segue è per lo più un libro di storie: questo perché la maggior parte delle testimonianze sulle proprietà mediche della marijuana è di natura aneddotica. Un giorno si porrà rimedio alla sistematica negligenza della comunità scientifica e gli autori di un libro sugli impieghi medici della marijuana avranno la possibilità di esaminare una vasta letteratura clinica. James Bakalar e io speriamo di abbattere pregiudizi, porre rimedio all'ignoranza e contribuire a spianare la strada per la ricerca futura esplorando gli usi terapeutici noti e potenziali di questa notevole sostanza.

    Questo libro ha due autori e numerosi collaboratori. Molte delle persone che hanno dato il loro contributo sono state reclutate per passaparola o perché si sono rivolte direttamente a noi per sottoporci il loro problema, ma alcune sono giunte alla nostra attenzione tramite le testimonianze che hanno deposto davanti a Francis Young, Giudice Amministrativo della Drug Enforcement Administration, nel corso delle udienze che si tennero nel 1986 per riconsiderare la classificazione della marijuana. Robert Randall e Alice O'Leary della Alliance for Cannabis Therapeutics ci hanno aiutato a individuare alcuni di quei pazienti. Siamo in debito con Kevin Zeese della Drug Policy Foundation per averci fornito una trascrizione delle udienze, e non solo per questo. Il nostro manoscritto ha beneficiato immensamente delle letture critiche di Kenneth Arndt (dottore in Medicina), Ann Druyan, John Gehring (dottore in Medicina), David e Betsy Grinspoon, Norman Jaffe (dottore in Medicina), Simeon Locke (dottore in Medicina), Susan Milmoe, CarI Sagan, Richard Schultes e Arnold S. Trebach. Nel nostro progetto siamo stati anche aiutati in diversi modi da Peggy S. Alcorn, Beth Banov , Del Cogswell Brebner, Elizabeth Case, Leslie Druyan, Paul Geissler, J ames J ohnson, JeffMoore, June Riedlinger, Alexander Shulgin, Lewis L. Van Hoosear (dottore in Medicina) e Lennice Werth. Siamo particolarmente grati a Heather L. Erskine, che ci ha assistito con tanta competenza in ogni fase dello sviluppo del manoscritto e il cui amorevole contegno non è mai stato messo in crisi dal numero, apparentemente infinito, di revisioni.

Lester Grinspoon,
dottore in Medicina

 

1. Storia della cannabis

[...]

 

2 La cannabis come medicina

    Nel nostro secolo l'utilità della cannabis come rimedio contro molti sintomi e disturbi è stata ora ipotizzata, ora dimostrata. Le possibilità di impiego della cannabis spaziano da quelle accertate a quelle ipotetiche, ma tutte dovrebbero risultare interessanti a chiunque si occupi della sofferenza umana. I racconti dei pazienti descrivono nel modo più colorito non solo le proprietà terapeutiche della marijuana, ma anche le ulteriori pene e ansie che vengono inutilmente inflitte ai malati, costretti a procurarsela illegalmente.

 

2.1 Chemioterapia neoplastica

La chemioterapia è una delle più importanti cure del cancro sviluppate nei decenni scorsi. Somministrati per via endovenosa una o due volte al mese, gli agenti chemioterapici sono tra i prodotti chimici più potenti e tossici usati in medicina. Nell'attaccare le cellule del cancro, uccidono anche le cellule sane dell'organismo, generando effetti collaterali estremamente spiacevoli e pericolosi. Tra gli agenti chemioterapici di uso più comune vanno annoverati il cisplatino (Platinol@), la doxorubicina (Adriamycin@), il ciclofosfamide (Cytoxan@), l'ifosfamide (Ifex@), nonché i farmaci derivati della mostarda azotata, tra i quali il melfalan (Alkeran@) e il clorambucile (Leukeran@).

    Il cisplatino può causare la sordità o forme anche mortali di insufficienza renale. L 'ifosfamide può procurare emorragie ed ematomi; il ciclofosfamide indebolisce il sistema immunitario, la doxorubicina può distruggere il tessuto muscolare cardiaco. I derivati della mostarda azotata sono così tossici che corrodono la pelle o qualunque altro tessuto incontrino. Se l'ago per iniezione endovenosa attraverso il quale vengono inoculati perde o scivola fuori dalla vena, la ferita che ne consegue può far sì che il paziente perda l'uso di un braccio. La maggior parte di questi prodotti provoca anche la caduta dei capelli e ciascuno di loro può causare la crescita di un secondo tipo di tumore mentre sopprime quello originario. Le dosi devono essere calcolate con cura per evitare il manifestarsi di insufficienza renale, cardiaca o respiratoria.

    Tuttavia l'effetto collaterale più comune, e per molti pazienti più fastidioso, di queste sostanze sta nel profondo senso di nausea e nel vomito che esse provocano. Le crisi di vomito (conati a secco), possono durare ore o addirittura giorni dopo ogni seduta, seguiti da giorni o addirittura settimane di nausea. Nel vomitare, i pazienti possono fratturarsi un osso o spezzarsi l'esofago. Il senso di perdita di controllo può essere devastante sul piano emotivo. Inoltre, molti pazienti non mangiano quasi niente perché non sopportano la vista o l'odore del cibo. Perdendo peso ed energie, essi trovano sempre più difficile sostenere la propria volontà di vivere.

    I pazienti diventano più apprensivi a ogni successivo trattamento. Alcuni sviluppano un riflesso condizionato che li porta a vomitare appena entrano nella stanza dove ha luogo la cura, o addirittura prima di raggiungere l'ospedale. Si è sentito dire che qualche paziente abbia vomitato per riflesso incontrando per strada un membro del suo staff medico. Se non si riesce ad arrestare la nausea e il vomito, le reazioni dei pazienti possono indurre i dottori a ridurre le dosi e a mettere a repentaglio l'efficacia della terapia. A molti pazienti gli effetti collaterali della chemioterapia sembrano peggiori del cancro stesso, e così essi interrompono la cura, non solo per eliminare il malessere ma anche per riacquistare il controllo della propria vita. Alcuni insistono per smettere pur sapendo che ciò significherà morte sicura. Nel caso di pazienti curabili che rifiutano la terapia,
nausea e vomito dovrebbero essere considerati una forma potenzialmente letale di tossicità.

     Molti pazienti, fortunatamente, traggono sufficiente sollievo da farmaci antiemetici convenzionali come la proclorperazina(Compazine@) o il nuovo ondansetron cloridrato (Zofran@). Ma in alcuni casi questi farmaci non hanno effetto o cessano di averlo in breve tempo. Oggi lo Zofran è considerato il più efficace degli antiemetici ordinari, ma deve essere somministrato per alcune ore tramite fleboclisi mentre il paziente è ricoverato in un letto d'ospedale, a costo di centinaia di dollari per somministrazione. Come chiaramente indicato dai risultati dei programmi di ricerca dei singoli stati citati precedentemente, la marijuana può supplire in modo assai efficace ai farmaci convenzionali. In uno studio condotto su 56 pazienti che non avevano tratto benefici dagli agenti antiemetici convenzionali, il 78% risultò libero da sintomi dopo aver fumato marijuana.
Uno di noi (L.O.) ha avuto esperienza diretta di questo effetto
terapeutico:

2.1.1 1a Testimonianza - leucemia linfatica

All'inizio del 1972, dopo la morte di Sidney Farber, l'oncologo di Harvard al quale era stato intitolato il Centro per la Ricerca sul Cancro "Sidney Farber", mia moglie e io fummo invitati a pranzo a casa di un collega, membro del corpo docente della Harvard MedicaI School. Egli voleva che io incontrassi Emil Frei, che era arrivato da Houston per entrare in servizio come successore del dottor Farber.
A pranzo, il dottor Frei mi raccontò di un diciottenne di Houston, malato di leucemia, che era diventato sempre più recalcitrante a sottoporsi alla chemioterapia perché non riusciva più a sopportare la nausea e il vomito. I suoi dottori e la sua famiglia trovavano sempre più difficile persuaderlo a prendere il farmaco dal quale dipendeva la sua vita.

Un giorno, con sorpresa del dottor Frei, il giovane aveva accettato volentieri di prendere il farmaco e da quel momento in poi non aveva più fatto obiezioni alla chemioterapia. Alla fine aveva rivelato di aver preso l'abitudine di fumare marijuana venti minuti prima di ogni seduta. Ciò gli risparmiava non solo le crisi di vomito, ma anche il più lieve accenno di nausea. Il dottor Frei mi chiese se questa proprietà della cannabis fosse menzionata nella letteratura medica del XIX secolo, e io gli risposi che lo era. Sulla via di casa mia moglie, Betsy, che aveva ascoltato con grande interesse, suggerì che ci procurassimo un po' di cannabis per nostro figlio, Danny.

A Danny era stata diagnosticata per la prima volta una leucemia linfatica acuta nel luglio del 1967, quando aveva 1O anni. Sulle prime aveva accettato di buon grado la sua terapia all'ospedale dei bambini di Boston, e perfino le necessità occasionali di ricovero in ospedale. Ma nel 1971 aveva cominciato a prendere il primo di una serie di farmaci che avevano suscitato in lui forti nausee e vomito.

Danny era uno di quei pazienti per i quali queste reazioni sono incontrollabili e non vengono attenuate a sufficienza dagli antiemetici ordinari. Era solito cominciare a vomitare poco dopo il trattamento e continuava ad avere conati di vomito anche per otto ore. Vomitava in macchina mentre lo riportavamo a casa e, una volta arrivati, doveva stare sdraiato a letto con la testa sopra un secchio appoggiato sul pavimento. Tuttavia, rimasi sbalordito quando Betsy suggerì di cercare della cannabis per Danny. Feci obiezioni perché era una cosa illegale e perché avrebbe potuto creare imbarazzo al personale dell'ospedale, che era stato così encomiabile per il suo impegno nella cura di Danny. Scartai l'idea.

La seduta successiva fu due settimane dopo. Quando arrivai Betsy e Danny si trovavano già nella camera della terapia. Non dimenticherò mai la sorpresa che provai. Normalmente mia moglie e mio figlio erano in uno stato di grande ansia prima che la terapia cominciasse, ma stavolta erano del tutto rilassati e, quel che più conta, sembravano quasi prendersi gioco di me.

Alla fine mi rivelarono il segreto. Mentre erano diretti alla clinica quella mattina, si erano fermati vicino alla Scuola Superiore Wellesley, e Betsy aveva chiesto a uno degli amici di Danny di procurarle un po' di marijuana. Una volta riavutosi dallo sbalordimento, l'amico era corso via ed era riapparso pochi minuti più tardi con una piccola quantità di mari juana. Betsy e Danny l'avevano fumata nel parcheggio dell'ospedale subito prima di entrare in clinica.

La mia sorpresa lasciò posto al sollievo nel vedere quanto Danny fosse a suo agio. Non protestò quando gli diedero la medicina, e tutti fummo felicissimi quando nessun tipo di nausea o vomito seguì. Sulla via di casa chiese a sua madrese potevamo fermarci a prendere uno di quei grossi panini imbottiti con carne e verdura, e quando fu a casa cominciò a fare le sue solite cose invece di filare dritto a letto. Credevamo a malapena ai nostri occhi.

Il giorno seguente telefonai al dottor Norman Jaffe, il medico incaricato della terapia di Danny. Gli spiegai che cosa era successo e dissi che, nonostante non volessi creare imbarazzo a lui o al resto del suo staff medico, non avrei potuto proibire a Danny di fumare marijuana prima della seduta successiva. Il dottor Jaffe rispose suggerendo che Danny fumasse la marijuana in sua presenza nella camera di terapia. La volta seguente, Danny lo accontentò. Quando gli fu dato l'agente chemioterapico, il dottor Jaffe poté constatare con i suoi occhi che mio figlio era completamente rilassato. Dopo, chiese di poter mangiare ancora un panino imbottito. Dal quel momento in poi, Danny ha fatto uso di marijuana prima di ogni seduta, e noi siamo stati tutti molto più sereni durante l'anno che gli è rimasto da vivere.Il dottor Jaffe mi chiese di unirmi a lui nel riferire le nostre osservazioni al dottor Frei, che fu sufficientemente interessato da effettuare il primo esperimento clinico sull'uso della cannabis nella chemioterapia [S.E. Sallan, N.E. Zimberg & E. Frei III, "Antiemetic effect of Delta-9tetrahydracannabinol in Patients Receiving Cancer Chemotherapy", in New Eng. J. Med. 293 (1975): 795-797].

2.1.2 2a Testimonianza - tumore al midollo osseo

Arnold e Mae Nutt, ora settantenni, hanno cresciuto tre figli a Beaverton, Michigan. N el1963 si scoprì che il secondo figlio Dana, che aveva da poco compiuto cinque anni, aveva un tumore al midollo osseo. Dopo l'intervento chirurgico fu sottoposto alla chemioterapia e all'esposizione a radiazioni per tre mesi. Le cure lo fecero stare molto male ma non arrestarono la propagazione del tumore, ed egli morì nel 1967. Per anni, la famiglia Nutt lottò per riprendersi dalla disperazione e dalle difficoltà economiche causate dalla malattia di loro figlio. Poi, nel 1978, il loro primogenito Keith, di ventidue anni, contrasse un tumore ai testicoli. Mae Nutt racconta la sua storia:

I chirurghi operarono Keith, rimuovendo il testicolo malato e un gran numero di linfonodi. Credevano di aver estratto tutto il tumore. Keith fece uno sforzo risoluto per mantenersi attivo. Riprese a lavorare, e sembrava che tutto stesse andando bene quando, nove mesi più tardi, si accorse che l'altro testicolo si era indurito e ingrossato. I chirurghi glielo rimossero immediatamente e gli dissero che avrebbe avuto bisogno anche di una chemioterapia intensiva. Gli diedero il cisplatino, un nuovo farmaco altamente tossico che lo fece stare malissimo. Era solito vomitare violentemente per otto-dieci ore, dopodiché era così profondamente nauseato che non riusciva a sopportare la vista o l'odore del cibo. Compazine e altri farmaci antiemetici non gli arrecavano alcun beneficio apprezzabile.

In meno di due mesi nostro figlio perse almeno tredici chili. Cominciò a vomitare la bile. Quando non c'era niente da vomitare, si limitava ad avere conati e convulsioni. Era orribile per noi vedere che nostro figlio soffriva simili tormenti a causa della malattia e della sua cura. A un certo punto Keith mi disse che non voleva diventare come suo fratello Dana -così malato da non potersi prendere cura di se stesso, completamente disabile, un peso per il resto della famiglia. Mi disse che qualora le cose avessero preso una piega così brutta, avrebbe voluto essere capace di uccidersi. Mi fece promettere che quando non ci fossero state più speranze, l'avrei aiutato a mettere fine alla sua vita.

Una sera lessi un articolo di giornale su un malato di cancro che aveva trovato sulla soglia di casa un sacchetto marrone contenente marijuana. L'articolo sottolineava che era l'evidenza medica a suggerire che la marijuana potesse ridurre il grave senso di nausea e il vomito provocati da molte terapie anticancro. L'idea che la marijuana avesse un impiego in medicina giungeva nuova a mio marito e a me. Dapprima risi di questa storia. Sembrava improbabile che la marijuana semplicemente comparisse d'improvviso sulla porta di casa di qualcuno.

Come genitore, ero decisamente contraria all'uso della marijuana come di altre droghe illegali. Mio marito e io ci assicurammo che i nostri figli sapessero esattamente come la pensavamo. Non dubitiamo che possano aver provato la marijuana nell'adolescenza, ma siamo anche sicuri che non hanno mai avuto problemi di droga, né illusioni rispetto alla nostra rigida opposizione all'uso di droghe. Era difficile credere che una droga illegale potesse avere qualche utilità. Pensavamo che, se la marijuana avesse avuto proprietà medicinali, il governo l'avrebbe saputo e l'avrebbe resa legalmente disponibile sotto prescrizione.
Ma eravamo disperati, così raccontammo a Keith quello che avevamo letto. Egli replicò che altri pazienti dell'ospedale che stavano sostenendo la chemioterapia fumavano marijuana per ridurre gli effetti collaterali e dicevano che funzionava. Ci mettemmo all'opera per contattare il deputato del nostro stato, Robert Young, e gli chiedemmo se era possibile procurare la mari juana per Keith in modo legale.

Fummo sorpresi nell'apprendere che un disegno di legge per legalizzare l'uso della marijuana nella cura del glaucoma e del cancro era in attesa di essere esaminato dal corpo legislativo dello Stato del Michigan. Il deputato Young ci mise anche in contatto con il Sig. Roger Winthrop, un tale che stava lavorando all'elaborazione della legge assieme a deputati e senatori. Egli ci fornì informazioni sugli impieghi medici della marijuana e ci disse che medici e pazienti in diversi stati erano già riusciti a far approvare delle leggi che la rendessero disponibile a pazienti gravemente malati, come Keith.

Mio marito e io avevamo letto quel materiale da poco tempo quando Keith ebbe un altro turno di chemioterapia che, come sempre, lo fece stare terribilmente male. Non potevamo starcene lì a guardarlo soffrire ma, poiché eravamo una coppia di un'altra generazione, non avevamo la più pallida idea di dove si potesse trovare della marijuana. Disperati, chiedemmo aiuto a un amico intimo, un superiore presbiteriano, che lavorava con i gruppi giovanili locali. Diversi giorni dopo, comparve alla nostra porta con un po' di marijuana. Era la prima volta che la vedevamo.

L'indomani portammo la marijuana a Keith in ospedale. Dopo che ebbe fumato, il vomito si interruppe bruscamente. Fu sconcertante vedere quell'improvviso cambiamento. La marijuana mise fine anche alla sua nausea. Quando fumava era costantemente affamato, e cominciò addirittura a mettere su peso. Anche la sua disposizione d'animo andò incontro da un miglioramento sorprendente. Prima che iniziasse a fumare marijuana, Keith era solito tornare a casa dalla chemioterapia, chiudersi nella sua camera da letto infilando degli asciugamani sotto la porta in modo da tener lontani gli odori di cucina, e rimanere in camera sua o in bagno a vomitare per tutta la sera. Il cancro e la chemioterapia lo portavano a comportasi come un animale ferito, timido e riservato. Avvertiva intensi sbalzi di temperatura, da caldo a freddo. Le sue articolazioni erano diventate gonfie e doloranti. Gli cadevano i capelli e si sentiva male in tutto il corpo. Grandi porzioni di pelle si staccavano dal punto in cui venivano fatte le iniezioni.

Fumare marijuana gli cambiò drasticamente la vita. Subito prima della terapia fumava una sigaretta di marijuana, dopodiché, se si sentiva nauseato, non era che per pochissimo tempo. Quando arrivavamo a casa, rimaneva in soggiorno a parlare con suo fratello e suo padre. Si univa alla famiglia per cena e mangiava più della sua razione. Diventò brillante e loquace, nuovamente parte della nostra famiglia. Non sperimentò mai, neanche una volta, un inconveniente. La marijuana era la sostanza più innocua e benefica che avesse ricevuto nel corso della sua battaglia contro il cancro.


Ci assicurammo che tutti i suoi dottori e le sue infermiere fossero al corrente della sua situazione; nessuno fece obiezioni e qualcuno, anzi, approvò apertamente. Ci mettemmo addirittura d'accordo perché Keith potesse fumare marijuana nella sua stanza d'ospedale. Di fatto, le persone ragionevoli che si preoccupavano per lui avevano deciso che la legge non andava incontro alla realtà dei suoi bisogni. Venimmo a sapere che molti malati di cancro fumavano marijuana e la maggior parte l'aveva detto al proprio medico, che approvava ma non voleva ripetere pubblicamente ciò che aveva detto ai suoi pazienti nel suo studio.

Mio marito e io finimmo per risentire dell'illegalità della terapia di Keith. Ci sentivamo dei criminali. Siamo persone oneste e semplici, che detestano doversi muovere furtivamente. Eravamo a disagio quando chiedevamo ai nostri amici più intimi, al nostro superiore e all'altro nostro figlio Marc, di rischiare l'arresto perché Keith potesse avere la medicina della quale era così evidentemente bisognoso. Eravamo preoccupati anche per tutti gli altri genitori che avrebbero potuto non sapere che la marijuana poteva contribuire a metter fine alla sofferenza di loro figlio. Chiedemmo a Keith se potevamo raccontare la sua storia a un giornale locale, il Bay City Times, per aiutare gli altri malati di cancro. Accettò, a condizione che non fornissimo dettagli sulla natura del suo tumore e sull'asportazione chirurgica dei suoi testicoli. Come giovane maschio sulla ventina, voleva che almeno quella parte della sua vita rimanesse privata.

Il giorno in cui l'articolo su Keith uscì sul giornale, andammo a Lansing per testimoniare davanti alla commissione giudiziaria del Senato del Michigan in merito alla legislazione sull'impiego medico della marijuana. Le udienze suscitarono una notevole attenzione nel l 'opinione pubblica, così cominciammo a ricevere telefonate da altri malati di cancro dal Michigan e da ogni parte degli Stati Uniti. Più volte Keith rimase a parlare con loro fino a notte inoltrata. I malati di cancro e i loro parenti gli chiedevano aiuto e consiglio su come bisognasse fumare correttamente, quanta marijuana usare e quanto spesso. Egli rispose addirittura a delle chiamate a domicilio e andò diverse volte a mostrare ai pazienti come arrotolare le sigarette o aspirare il fumo. Questa opportunità di aiutare altre persone diede a Keith una grande gioia.

Un giorno, poco dopo le udienze, trovammo nella nostra cassetta per le lettere un sacchettino marrone contenente della marijuana. Non c'era nessun biglietto, nessun nominativo, soltanto un'oncia di marijuana. Mi tornò alla mente quell'articolo di giornale di cui avevo riso, con la marijuana che compariva sulla porta di casa di un tale. Ben presto ricevemmo altra marijuana con la posta. I donatori di solito rimanevano nell'anonimato, ma non sempre. Un pastore episcopale, per esempio, ci portò la marijuana a casa e disse che pensava che noi conoscessimo chi poteva fame buon uso. Al diffondersi a macchia d'olio della notizia, fummo contattati da alcuni conoscenti. Un giorno ricevemmo una telefonata da una donna che aveva fatto le scuole elementari con Arnold, mio marito. Ci invitò a casa sua e ci offrì una scatola da sigari piena di marijuana. Ci spiegò che suo marito, morto da poco tempo, fumava marijuana per lenire il dolore di un cancro terminale. Ormai a lei non serviva, ma non voleva buttarla via.

Quando mio marito e io ritornammo a Lansing per ulteriori udienze legislative, Keith era nuovamente in ospedale e il suo tumore aveva ripreso a propagarsi. Questa volta si unì a noi un'altra famiglia: i Negen di Grand Rapids, che avevano testimoniato alle udienze precedenti senza rilasciare il loro nome. La loro figlia Deborah, di ventun anni, stava sostenendo la chemioterapia contro la leucemia, e la marijuana era l'unica sostanza che alleviava i debilitanti effetti collaterali. Il Reverendo Negen è pastore della Chiesa Olandese della Riforma Cristiana di Grand Rapids, una congregazione assai conservatrice. Sotto giuramento, egli dichiarò di aver pregato per ricevere consiglio e di essersi reso conto che, se il fatto di ricorrere alla marijuana per aiutare sua figlia scandalizzava la sua congregazione, avrebbe dovuto abbandonare la chiesa. Parlò in modo commovente della necessità di mandare i suoi figli per le strade di Grand Rapids a comprare marijuana per sua figlia. Per noi era facile comprendere l'angoscia del Reverendo Negen. Come noi, veniva forzato a violare la legge per andare incontro alle necessità mediche di sua figlia. La stessa Deborah Negen fu persino più eloquente e commovente quando, davanti alla commissione, perorò la causa degli altri malati gravi che soffrivano inutilmente.

Il 10 ottobre 1979, la Camera del Michigan si pronunciò all'unanimità affinché la marijuana fosse resa disponibile per i pazienti come Keith. Cinque giorni più tardi, il 15 ottobre, il Senato si espresse analogamente, con trentatré voti favorevoli e uno contrario. La sera di domenica 21 ottobre, mio marito e io riferimmo a Keith che il disegno di legge dello Stato del Michigan "Marihuana as Medicine" sarebbe stato convertito in legge l'indomani. Sorrise e ci diede la buonanotte. Il giorno dopo, di prima mattina, morì; più tardi, quello stesso giorno, il disegno di legge fu convertito in legge.

2.1.3 3a Testimonianza - morbo di Hodgkin

Sei mesi dopo il matrimonio, celebrato nel 1969, il marito di Mona Taft, Harris, si accorse di avere un gonfiore sul collo. Una biopsia effettuata al Massachusetts GeneraI Hospital di Boston rivelò il morbo di Hodgkin, un linfogranuloma maligno. Mona Taft racconta quanto accadde:

Al momento della diagnosi, Harris era gravemente ammalato ma non mostrava ancora i sintomi avanzati, più evidenti, del morbo di Hodgkin.

Immediatamente si sottopose al primo di una lunga serie di interventi chirurgici: la milza e i linfonodi colpiti furono asportati attraverso un 'incisione che correva dal bacino al torace. Non appena la ferita guarì ed egli recuperò parte delle sue forze, cominciò a sostenere i primi trattamenti in quello che si sarebbe rivelato un decennio di cure anticancro. Malgrado gli avvertimenti dei dottori, eravamo del tutto impreparati agli effetti devastanti della chemioterapia. Un'ora e mezza dopo aver sostenuto la sua prima seduta di chemioterapia mio marito cominciò a vomitare, e il vomito persistette per ore interminabili. Quando non ci fu più niente da rigettare, continuò ad avere conati a secco. Dopo un giorno il vomito andò calando, ma gli rimase un tale senso di nausea da non riuscire a mangiare e nemmeno a sopportare la vista o l'odore del cibo. I dottori gli prescrissero una serie di farmaci antiemetici come il Compazine. Neanche uno si rivelò efficace. Harris fu sottoposto a chemioterapia almeno una volta al mese per circa un anno. Sembrava che la terapia contribuisse a sopprimere il suo tumore, ma certamente si prendeva anche una terribile contropartita sulla qualità della sua vita.
Nei sette anni seguenti Harris sembrò rimettersi più volte.

Ogni volta che il cancro ritornava era più esteso, i farmaci usati per combatterlo erano più tossici e le reazioni d'intolleranza diventavano più gravi. Nel frattempo, Harris si sottopose a molti altri interventi chirurgici, tra i quali l'asportazione di un tessuto canceroso che si era propagato fino al cervello. In seguito cominciò ad avere difficoltà a camminare a causa della presenza, nella sua spina dorsale, di un tessuto canceroso che stava premendo sui nervi dai quali dipende l'uso delle gambe. Anche questi tumori furono asportati chirurgicamente.

Siccome la malattia continuava a progredire, Harris fu sottoposto a una chirurgia esplorativa dell'addome; i dottori trovarono troppo tessuto canceroso da rimuovere. Fu prescritta una chemioterapia più intensiva, cui si aggiunsero trattamenti per mezzo di radiazioni, che gli procurarono
ulteriore nausea. Ogni giorno diventava sempre più penoso per lui.

Un giorno del 1977, quando arrivammo alla stanza dove Harris doveva ricevere l'iniezione, lui se la svignò e si lanciò di corsa per il corridoio. Poco più tardi lo trovai che vagava per le sale dell'ospedale. Mi disse che non ce la faceva più a continuare la chemioterapia. Non sapeva più cosa fare, era spossato dalla malattia e terrorizzato dagli effetti dei farmaci che avrebbero dovuto prolungare la sua vita.

Non avevo mai visto prima, e non ho più visto da allora, un uomo così sinceramente e profondamente atterrito. Harris era arrivato a temere le cure più del cancro e, come lui stesso ammise, più della morte. Mi disse che avrebbe preferito morire piuttosto che continuare la chemioterapia. Una delle infermiere sentì per caso la nostra conversazione e ci interruppe; disse che capiva il nostro problema e suggerì ad Harris di fumare marijuana per alleviare la nausea e il vomito. Trasalimmo. Sebbene Harris avesse fumato marijuana in gruppo di tanto in tanto, non poteva credere che gli sarebbe stata di aiuto. Ci informammo sulla marijuana dal dottore di Harris, e lui disse che non poteva incoraggiarci a fare qualcosa di illegale, ma che molti dei suoi pazienti più giovani fumavano marijuana e sembrava che questo riducesse i loro problemi di nausea e vomito. Il messaggio era piuttosto chiaro: prova la marijuana e vedi se funziona. Harris aveva una gran voglia di vivere e, come era solito dire, niente da perdere, così decise di dare ancora una possibilità alla chemioterapia e fumare un po' di marijuana prima della seduta. Non avevo molte speranze.

Quando Harris andò alla seduta successiva, era così spaventato che dimenticò di portare la marijuana con sé; gliela dovetti portare io dopo che lui mi aveva chiamato dalla sua stanza d'ospedale. I dottori, le infermiere e gli inservienti dovevano averlo visto fumare, ma nessuno disse niente. Era come se tutti noi avessimo raggiunto un tacito accordo. Dopo la chemioterapia decisi di rimanere con Harris per tutta la notte, se mai avesse avuto bisogno del mio aiuto. Ma questa volta non ci fu vomito; dormì come un bambino. Fu la sua prima notte intera di sonno ristoratore in quasi sette anni di cure anticancro. La mattina seguente fece una buona colazione, una vera conquista. Niente vomito. Niente nausea. E voleva veramente mangiare! Non posso descrivere quanto fossimo sollevati ed eccitati. Perché nessuno ce lo aveva detto prima? Perché mio marito aveva passato tutti quegli anni soffrendo inutilmente?

Di solito Harris stava male per settimane dopo aver sostenuto la chemioterapia; questa volta fu in grado di tornare al lavoro dopo quarantotto ore. Da allora in poi prese l'abitudine di fumare marijuana ogni volta che aveva la chemioterapia. I risultati furono impressionanti. Cominciò a recuperare il peso perduto e il suo morale migliorò notevolmente. Divenne più attivo e brillante, e noi cominciammo a fare insieme delle cose che io non pensavo saremmo stati capaci di fare ancora. Era chiaro che i suoi medici erano al corrente di quello che lui stava facendo e lo approvavano; non poterono fare a meno di accorgersi dell'improvviso miglioramento delle sue condizioni.

È impossibile per me descrivere in modo adeguato quanto profondamente la marijuana cambiò le cose. Prima di cominciare a usare la marijuana, Harris stava male tutto il tempo, non era in grado di mangiare, non poteva nemmeno sopportare gli odori di cucina. Dopo riusciva a mantenersi attivo, mangiava regolarmente e poteva essere se stesso. Il suo umore, le sue maniere e il suo modo di vedere le cose si erano trasformati. E, naturalmente, la marijuana prolungò la sua vita permettendogli di continuare la chemioterapia. Nei due anni in cui fumò marijuana non ebbe mai inconvenienti spiacevoli. La marijuana è stata la sostanza meno
pericolosa che mio marito abbia ricevuto in nove anni di cure contro il cancro.


Durante questo periodo (1977-1979) Harris e io venimmo a sapere che molti altri malati di cancro fumavano marijuana per lo stesso motivo. La maggior parte di loro aveva imparato a farlo dal proprio medico, che poteva dare soltanto cenni e suggerimenti e raramente era dIsposto a discutere l'argomento in modo aperto ed esauriente. I medici non potevano prescrivere legalmente la droga ai loro pazienti, né controllare l'uso che essi ne facevano, tuttavia potevano prescrivere farmaci chemioterapici altamente tossici, narcotici che provocano pericolose assuefazioni e trattamenti con radiazioni. Ricordo di aver pensato quanto tutto ciò fosse pazzesco. Dal 1979, quando Harris è morto, ho avuto tempo di riflettere sulla grettezza di una legge che lo ha privato del suo diritto di ottenere l'unica sostanza che effettivamente gli dava sollievo dalla nausea e dal vomito. lo mi turbo, poi mi arrabbio quando mi accorgo che ad altri malati di cancro si sta negando questo sollievo. Penso alle persone più anziane che potrebbero non sapere dove trovare la marijuana o potrebbero essere troppo spaventate all'idea di fumare una droga illegale senza stretta supervisione medica. E penso ai bambini e agli adolescenti i cui genitori devono affrontare una scelta straziante: violare la legge o assistere alla sofferenza di loro figlio.

2.1.3 4a Testimonianza - mesotelioma addominale

Un'ultima testimonianza sulle proprietà della cannabis come antiemetico viene da Stephen Jay Gould, Professore Emerito di Geologia all'Università di Harvard e autore di molti libri e saggi, di grande valore e risonanza, sull'evoluzione biologica.

Faccio parte di un gruppo molto piccolo, molto privilegiato e molto selezionato: i primi sopravvissuti a una forma di cancro un tempo incurabile, il mesotelioma addominale. La nostra cura prevedeva un insieme accuratamente bilanciato di tutte e tre le terapie convenzionali, cioè chirurgia, radiazioni e chemioterapia. Non molto piacevole, d'accordo, ma considerate l'alternativa.

Ogni malato di cancro sopravvissuto a simili cure intensive (a dire il vero, chiunque abbia sostenuto accanite battaglie mediche contro qualsiasi malattia) conosce in prima persona l'enorme importanza del "fattore psicologico". Si dà il caso che io sia un razionali sta di vecchio stampo, come oggi non se ne trovano più. Non sopporto il misticismo né le sciocchezze romantiche californiane sul potere della mente e dello spirito. Presumo che un atteggiamento positivo e l'ottimismo abbiano effetti salutari in quanto gli stati d'animo possono alimentare il corpo attraverso il sistema immunitario. In ogni caso penso che chiunque riconoscerebbe un ruolo importante alla resistenza dello spirito attraverso le avversità; quando la mente viene meno, troppo spesso il corpo la segue. (E se il risultato finale non è la guarigione, la qualità della vita che rimane da vivere diventa, se mai, ancora più importante.)

Niente è più scoraggiante e più distruttivo verso la possibilità di un simile atteggiamento positivo -e qui parlo veramente per esperienza personale -dei gravi effetti collaterali prodotti da una terapia così articolata. Radiazioni e chemioterapia sono spesso accompagnate da lunghi periodi di nausea intensa e incontrollabile. La mente comincia ad associare l'agente della possibile cura con gli aspetti di gran lunga peggiori della malattia, dato che il dolore e la sofferenza dovuti agli effetti collaterali sono spesso peggiori del disagio causato dal tumore stesso. Quando ciò accade, l'indispensabile carica psicologica e la fiducia possono venir meno, in quanto la cura sembra peggiore della malattia stessa. In altre parole, sto cercando di dire che il controllo dei gravi e duraturi effetti collaterali nella cura del cancro non è semplicemente una questione di benessere (anche se Dio solo sa che il conforto alla sofferenza è già di per sé una buona ragione), ma un ingrediente assolutamente essenziale per la possibilità di una guarigione.

Ho cominciato con la chirurgia, seguita da un mese di radiazioni, chemioterapia, ancora chirurgia, e poi un anno di chemioterapia addizionale. Mi accorgevo di essere in grado di contenere le formee meno gravi di nausea da radiazioni per mezzo dei farmaci convenzionali. Ma quando cominciai la chemioterapia endovenosa (Adriamycin@), assolutamente nulla nell'arsenale degli antiemetici disponibili aveva alcun effetto. Ero molto a terra e arrivai a temere le frequenti cure con un'intensità quasi perversa.

Avevo sentito dire che la marijuana spesso funzionava bene contro la nausea. Ero riluttante a provarla perché non ho mai avuto l'abitudine di fumare alcuna sostanza (e non sapevo nemmeno come fare ad aspirare). Oltretutto avevo provato la marijuana due volte (nel solito contesto adolescenziale degli anni '60) e l'avevo detestata. (Sono in un certo senso un puritano in materia di sostanze che, in qualunque modo, offuschino o alterino gli stati mentali, in quanto valuto la mia mente razionale con una presuntuosa arroganza da accademico. Non bevo mai alcolici e non ho mai fatto uso di droghe a scopo "ricreativo".) Ma avrei fatto qualunque cosa pur di evitare la nausea e il perverso desiderio di mettere fine alla cura che la nausea suscitava. Il resto della storia è breve e dolce. La marijuana agì come un incantesimo. Non mi piaceva l'effetto "collaterale" dell'offuscamento mentale (l'effetto "principale" per chi ne fa uso ricreativo), ma la pura beatitudine di non provare nausea -e quindi di non doveri a temere per tutti i giorni tra una seduta e l'altra -è stata la più grande iniezione di ottimismo che abbia ricevuto in tutto un anno di cure, e sicuramente ha avuto un effetto di primaria importanza sulla mia guarigione finale. Va al di là della mia comprensione (e immagino di essere in grado di comprendere un sacco di cose, tra le quali molte sciocchezze) che un essere umano possa negare una sostanza così benefica alle persone che ne hanno un così grande bisogno solo perché altre persone la usano per scopi diversi.

Dal 1985 gli oncologi sono stati legalmente autorizzati a somministrare THC sintetico per via orale sotto foffi1a di pillole (Marinol@); nel 1989 sono state prescritte quasi 100.000 dosi. Ma fumare la cannabis può essere preferibile per una serie di ragioni. Il THC assunto per via orale viene assorbito dal sangue in modo irregolare e con lentezza. Inoltre un paziente afflitto da forte nausea, che vomita costantemente, può trovare quasi impossibile tenere la pillola giù, nello stomaco.

Nel 1979, Alfred Chang dell'istituto nazionale dei tumori studiò quindici pazienti con cancro al midollo osseo, paragonando gli effetti antiemetici del delta-9-THC in pillole e in sigarette e dei corrispondenti placebo. Furono i pazienti stessi ad assumere il ruolo di soggetti di controllo. L'efficacia del THC nel contenere nausea e vomito risultò evidente. Il 72% dei pazienti accusò nausea e vomito dopo aver preso un placebo. Quando la concentrazione di THC nel sangue era bassa, il 44% soffri"ra di nausea e vomito; per concentrazioni moderate, solo il 21 % era nauseato e vomitava; per concentrazioni piuttosto alte, questo succedeva solo a un 6%. Quindi l'efficacia del THC risultò dipendere da quanto ne viene assorbito dal sangue, e gli autori dell 'indagine furono in grado di dimostrare che il THC da
fumare viene assimilato in modo più regolare.

La maggior parte dei pazienti preferisce le sigarette di marijuana al THC in pillole, che li rende ansiosi e li mette a disagio. Una ragione sta nella difficoltà nel valutare la dose di THC da assumere per via orale in modo da dosare la quantità che raggiunge il sangue e il cervello. Un'altra possibilità, suggerita da un gruppo di ricercatori peruviani, è che il cannabidiolo, una delle molte sostanze contenute nel fumo della marijuana, riduca gli stati ansiosi provocati dal delta-9-THC.4 Perciò la marijuana può essere sia più efficace, sia più tranquillizzante del THC in pillole. Abbiamo già osservato che i pazienti inclusi nei programmi statali dei primi anni '80 la preferivano in modo quasiplebiscitario.

Nella primavera del 1990 due ricercatori hanno scelto a caso i nomi di più di duemila membri della società americana di oncologia clinica (un terzo degli iscritti), cui hanno inviato un questionario anonimo per conoscere le loro opinioni sull 'uso della cannabis nella chemioterapia delle neoplasie. Quasi metà dei destinatari ha risposto. Nonostante gli autori dell'indagine riconoscano che questo gruppo si è auto selezionato e che l'attendibilità statistica dei dati può risentire di questo fatto, i loro risultati rappresentano una stima approssimativa delle opinioni degli specialisti sull'uso del Marinol e delle sigarette di marijuana.

Tra gli oncologi che hanno rispedito il questionario compilato, solo 43% ha dichiarato che i farmaci antiemetici legalmente disponibili (tra i quali il THC sintetico da assumere per via orale) offrono un sollievo adeguato a tutti o alla maggior parte dei loro pazienti, e meno del 46% ha affermato che gli effetti collaterali di questi farmaci sono un problema serio solo per pochi. Il 44% ha raccomandato l'uso illegale di marijuana ad almeno un paziente; il 50% la prescriverebbe ad alcuni pazienti se fosse legale. In media, considerano la marijuana più efficace del THC sintetico e, in linea di massima, altrettanto poco pericolosa.

Un effetto nefasto dell'illegalità della marijuana è che i pazienti sottoposti alla chemioterapia spesso devono imparare a fame uso per conto loro. Non è semplice come prendere una pillola; può richiedere una certa preparazione, sia per ottenere gli effetti desiderati, sia per evitare quelli indesiderati. Persino gli oncologi che prescrivono la marijuana con tranquillità generalmente ignorano la questione. I pazienti possono provare ansia o addirittura qualche forma di paranoia, pecialmente se non sanno cosa aspettarsi o non sono in grado di valutare le dosi. Gli effetti psicoattivi dovrebbero essere descritti con cura, in modo che i pazienti non vengano presi di sorpresa. Molti avranno bisogno anche di qualche spiegazione sugli aspetti pratici del fumare. Quando la marijuana diventerà una cura medica accettata contro la nausea e il vomito, pochi pazienti incontreranno difficoltà o disagi nel farne uso.

 

2.2 Glaucoma

Il glaucoma è un disturbo che si origina da uno squilibrio di pressione all'interno dell'occhio. Il bulbo oculare deve essere quasi perfettamente sferico per far convergere correttamente la luce sulla retina. La sua forma viene stabilizzata dalla pressione di un fluido interno, l'umore acqueo. Se l'occhio produce una quantità eccessiva di questo fluido, o se i condotti attraverso i quali il fluido defluisce sono bloccati, la pressione crescente può danneggiare il nervo ottico, che porta gli impulsi dall'occhio al cervello. II glaucoma affligge l'1,5% della popolazione (statunitense, N.d.T.)* al cinquantesimo anno di età, e circa il 5% al settantesimo. Se si esclude la degenerazione della retina in età avanzata, il glaucoma è la principale causa di cecità negli Stati Uniti e provoca ilIO% dei casi manifestatisi in età adulta. La maggior parte dei casi di glaucoma rientra nel tipo "cronico ad angolo aperto" o "cronico semplice", in cui i condotti si restringono gradualmente e la pressione all'interno lentamente si innalza. La conseguente perdita di visione periferica può passare inosservata fino a quando la malattia non ha ormai raggiunto uno stadio avanzato. Una diagnosi immediata e un'accurata osservazione che prevede frequenti controlli della pressione intraoculare, sono condizioni necessarie per evitare danni irreversibili.

    Oggi sul glaucoma si interviene principalmente con colliri contenenti beta-bloccanti, che inibiscono l'attività della epinefrina (adrenalina). Sono farmaci molto efficaci ma possono comportare seri problemi collaterali; possono indurre depressione, aggravare l'asma, ridurre la frequenza del battito cardiaco e far aumentare il rischio di infarto. Paradossalmente, anche i colliri a base di epinefrina possono essere efficaci nella cura del glaucoma, ma possono irritare la cornea e aggravare ipertensione e disturbi cardiaci. I miotici (farmaci che provocano la contrazione della pupilla), come la pilocarpina, vengono anch'essi prescritti per la cura del glaucoma, sebbene più raramente che in passato. Sono generalmente innocui per l'apparato circolatorio, il sistema respiratorio e l'apparato digerente, ma possono causare offuscamento della vista, indebolimento della visione notturna e cataratta. Ai pazienti possono essere sommil1istrate anche delle pillole che contengono un inibitore dell'anidrasi carbonica, che riduce la produzione di umore acqueo. Gli inibitori dell'anidrasi carbonica possono indurre perdita di appetito, nausea, diarrea, mal di testa, torpore e formicolio, depressione ed esaurimento, calcoli renali e, raramente, una malattia del sangue che può condurre alla morte. II 50% dei malati di glaucoma non riesce a sopportare gli effetti collaterali di questi farmaci.

    La proprietà della marijuana di ridurre la pressione intraoculare è stata scoperta casualmente durante un esperimento condotto all'Università della California di Los Angeles per stabilire se la cannabis inducesse dilatazione della pupilla, come credevano al Dipartimento di Polizia di Los Angeles. La polizia sosteneva che questa presunta dilatazione (assieme ad altri indizi, tra i quali il pallore delle labbra e la presenza di una patina verde sulla lingua) fosse un segno di ebbrezza da marijuana e pertanto un buon motivo perché un cittadino venisse arrestato o ricercato. Le persone che si sottoposero all'esperimento erano normali volontari che fumavano marijuana coltivata dal governo. I loro occhi vennero fotografati mentre fumavano e si osservò che le pupille si restringevano leggermente anziché dilatarsi. Un esame oculistico dimostrò che la cannabis riduceva anche la lacrimazione (i consumatori di marijuana hanno spesso affermato di poter affettare le cipolle tranquillamente sotto l'effetto della droga) e la pressione intraoculare. Esperimenti successivi hanno evidenziato un effetto analogo sui malati di glaucoma. La marijuana riduce la pressione intraoculare per un periodo, in media, dalle quattro alle cinque ore, senza "alcuna indicazione di effetti deleteri... sulla funzione visiva o sulla struttura oculare". Sotto l'effetto della marijuana, le pupille rispondono normalmente alla luce; l'acutezza visiva, la rifrazione e la visione periferica, binoculare e dei colori non vengono alterate. I ricercatori hanno concluso che la marijuana può essere più utile dei farmaci convenzionali e probabilmente agisce in modo diverso. Questa conclusione è stata dimostrata da esperimenti successivi su uomini e animali.

    L'effetto sulla pressione intraoculare si manifesta quando la marijuana viene fumata o il THC viene assunto per via orale. In un esperimento, diciannove pazienti hanno fumato marijuana per trentacinque giorni e altri ventinove l'hanno fumata per novantaquattro giorni senza sviluppare né tolleranza verso l'effetto della marijuana sulla pressione intraoculare, né deterioramento della vista. Diversi studi su animali hanno dimostrato che la cannabis agisce anche quando viene applicata localmente (cioè in gocce sull'occhio). Questo è importante, in quanto l'applicazione locale ha effetti psicologici molto minori ed è più accettabile per gli oftalmologi. Sfortunatamente, i preparati della cannabis adatti all'applicazione locale sugli esseri umani non sono stati ancora messi a punto.

2.2.1 1a Testimonianza - glaucoma terminale Robert Randal

Nella fase nota come "glaucoma terminale" il paziente ha ormai perso gran parte della vista, le sue condizioni peggiorano, i farmaci convenzionali non hanno più effetto e la cecità è imminente. L'autore del seguente resoconto, Robert Randall, aveva raggiunto questo stadio quando cominciò a fumare marijuana regolarmente. Egli aveva fatto uso di tutti i farmaci disponibili nelle massime dosi consentite, eppure la sua pressione intraoculare era rimasta pericolosamente alta. Se non si fosse tentato qualcosa di nuovo, sarebbe diventato cieco.


Ho fumato la mia prima sigaretta di marijuana il giorno in cui Richard Nixon fu eletto Presidente. Jerry Ford era Presidente quando fumai il mio primo spinello legale, "a scopo di ricerca". Jimmy Carter fu eletto parecchi giorni prima che io uscissi da un ospedale di Washington, D.C., portando con me la prima, moderna prescrizione di marijuana per uso medico degli Stati Uniti. Ho continuato a fumare nella legalità durante gli anni di Reagan, uscendo indenne dalla demenziale "guerra alla droga". Ora il Presidente è George Bush. lo fumo ancora legalmente la marijuana a scopo medico e, come conseguenza, godo ancora della mia vista.
I miei trampolini di lancio verso l'erba matta sono stati l'alcol e il tabacco. Ho cominciato a fumare tabacco perché volevo fumare le canne e avevo bisogno di impratichirmi ad aspirare. Una scelta puramente economica; il tabacco allora costava due centesimi a sigaretta. La mari juana, al confronto, era tremendamente costosa: dai quindici ai venti dollari l'oncia per della roba veramente buona. Sono rimasto agganciato alla dolce nicotina fin dalla mia prima siga
retta - un'attrazione dalla quale devo ancora svincolarmi. La marijuana, naturalmente, era profondamente diversa. Era di gran lunga meno pericolosa, non dava dipendenza, ed era illegale. A differenza di molti fumatori alla loro prima esperienza, rimasi fulminato. Quando chiusi gli occhi vidi luminose instantanee Kodachrome, diapositive mentali ViewMaster, nelle quali i buoni amici che avevo intorno sembravano veramente molto felici. L'erba mi stava dicendo che io avevo bisogno dei benefici che essa poteva offrirmi: così, in un'altra cultura, si sarebbe potuto interpretare questo fatto. Mi piaceva molto, la marijuana.
Era uno spasso.

La mia vita subiva cambiamenti sottili, ma pervasivi. Per prima cosa, un'alternanza di stimoli sensoriali. Sbronza party frenetici e mostruosamente rumorosi che coinvolgevano moltitudini di persone ubriache fradice venivano sostituiti da tranquille serate durante le quali sedevo nella penombra all'interno di un piccolo cerchio di amici intimi -tutti quanti cospiratori contro l'Impero -ad ascoltare rock duro suonato a un volume abbastanza basso da non destare sospetti, con un asciugamano cacciato sotto la porta per evitare di stare in apprensione.

Ho attraversato gli anni del college su nuvole di cannabis, mi sono laureato presto e ho intrapreso un master. Nessun problema in ambiente accademico. La maggior parte dei miei amici fumava. Mi piaceva fumare marijuana in gruppo o da solo, imparavo a prendere gusto alle caratteristiche tutto d'un tratto plastiche del pensiero. Il salto che la marijuana fa compiere, dalla consequenzialità iper-lineare all'universo dei pensieri interconnessi in modo casuale e delle associazioni ottuse, mi incantava. McLuhan diventa va comprensibile. Infine, quando fumavo marijuana vedevo più chiaramente. Non sto parlando di illuminazioni. Sto parlando della vista. Del vedere. Fin da quando avevo circa sedici anni le mie serate erano state infestate da apparizioni: aloni tricolori che andavano e venivano, un piccolo problema di vista. Alcune sere mi capitava di diventare cieco di una cecità bianca, con la vista intrappolata in un vortice di illuminazione assoluta -il vuoto bianco. Mi risultava che questi problemi fossero trascurabili in quanto i miei medici, quando ne avevo parlato con loro, mi avevano detto che la cosa avrebbe potuto essere grave se fossi stato più vecchio. Ma, siccome ero troppo giovane perché la cosa fosse grave, doveva trattarsi di "astenopia".

Tutta un'accurata analisi. Se loro non erano preoccupati, perché avrei dovuto esserlo io? Tanto più che la marijuana rilassava la mia "astenopia ". Niente di strano. La marijuana rilassa quasi ogni cosa: la mente, il corpo, l'anima. Quel tic cronico nel collo. E allora perché non anche l'astenopia?
Senza la marijuana, che leniva la mia "astenopia", probabilmente non sarei riuscito a completare il mio master.

Dopo aver ricevuto il titolo nel 1971, mi trasferii a Washington per scrivere discorsi appassionanti per gli uomini politici, e finii per lavorare come tassista. Mi piaceva guidare il taxi. Molto istruttivo. Niente capi. Decidi tu quante ore fare. Avevo anche smesso di fumare marijuana. Siccome mi trovavo in una città nuova, circondato da gente nuova, avevo pochi amici e nessun accesso... nessuno spacciatore.

Una sera d'estate del 1972, chiusi l'occhio sinistro e scoprii che non riuscivo a leggere dall'occhio destro. Anziché lettere chiaramente definite, vedevo un guazzabuglio di inchiostro nero spruzzato sulla pagina bianca. Non importava quanto mi avvicinassi al testo, che rimaneva indecifrabile, incoerente, alieno. Qualcuno mi diede il nome di un buon oftalmologo. Mi visitò il pomeriggio seguente. Avevo ventiquattro anni.

Benjamin Fine, dottore in Medicina, uno dei migliori patologi oculari della nazione, effettuò una serie di analisi.
Gli raccontai dei miei aloni e della cecità bianca. Il suo assistente mi sottopose al mio primo esame del campo visivo. Alla fine il dottore mi chiamò nel suo studio privato. C'era qualcosa di sinistro nei suoi modi. Chiaramente, non c'erano buone notizie.
Il dottor Fine disse "Ragazzo, tu hai un male molto grave che si chiama glaucoma. La tua vista ha già subito una quantità di danni e.. ." .
"Quanto?"
Colpito dalla mia immediatezza, rispose a tono: "Nella migliore delle ipotesi, potrai vedere ancora per tre, magari cinque anni. Hai perso la maggior parte delle capacità visive da entrambi gli occhi. Il tuo occhio destro non ha visione centrale, visione per la lettura, niente. Nell'occhio sinistro hai solo una piccola isola di tessuto sano. È per questo che riesci a leggere. La pressione in entrambi gli occhi è sopra il quaranta. Dovrebbe essere sotto il venti. Sei in un guaio molto, molto serio. Diventerai cieco".

La chirurgia era pericolosa, specialmente per qualcuno che, come me, avesse subito un danno già tanto avanzato. C'erano buone probabilità che la chirurgia avrebbe distrutto i piccoli frammenti di tessuto ottico sano che ancora mi rimanevano.

"Mi dispiace, ragazzo. Faremo del nostro meglio, ma non possiamo fare molto. Diventerai cieco." Sembrava logorato. Il dottor Fine mi somministrò della pilocarpina in entrambi gli occhi, mi prese per le spalle, mi chiese se stavo bene, mi diede una pacca sulla schiena e mi fece uscire accompagnato dalle fatidiche parole: "Vivi la tua vita come hai sempre fatto... ". I pazienti sanno bene come finisce questa temuta frase, "perché non potrai farlo ancora per molto tempo".

Complessivamente scosso da quell'incontro ricco di cattivi auspici per il futuro della mia vita, scesi vagando fino al pianoterra, salii sul mio taxi e mi accorsi che non riuscivo a vedere al di là del cruscotto. La pilocarpina, un miotico, provoca una forte miopia momentanea. Guidai nel traffico cittadino dell'ora di punta basandomi sulla memoria e sul riverbero della luce del sole sulle auto davanti a me.

Non tenni conto di quell'invito esplicito a cadere in una depressione che mi avrebbe debilitato. Riuscivo ancora a vedere, a leggere, a godermi dolcemente tutte le tinte e le tonalità della natura. Finché, naturalmente, non mi mettevo negli occhi la mia Pilo [pilocarpina], che mi era stata prescritta di recente e che riduceva in breve tempo la mia visuale a rimasugli di forma mal definita. Il mio primo contatto con il mondo straordinariamente contorto della farmacologia contro il glaucoma.

Il tentativo di preservare la vista per via medica, impiegando farmaci che inducono una cecità funzionale, origina quella che i medici chiamano sdegnosamente "mancanza di collaborazione da parte del paziente". Vale a dire che, se ci tenevo molto a vedere un film, smettevo di prendere la Pilo, mi scrollavo di dosso la miopia causata dal farmaco e mi godevo il film. Perderai pure un po' della tua vista, ma almeno sei al cinema.

Il glaucoma e la sua terapia mi introdussero in realtà di un altro ordine di grandezza e ben più drammatiche. La Pilo e la guida non vanno d'accordo. Entro una settimana dalla diagnosi avevo perso il mio taxi e il mio lavoro. Giudicato "disabile", approdai all'assistenza sociale, una tutela inattesa da parte dello Stato. Stava diventando una cosa molto seria.

A distanza di settimane dalla diagnosi la mia prescrizione di Pilo raddoppiò, raddoppiò ancora, triplicò, quadruplicò.
A distanza di mesi si aggiunse l'epinefrina. L'Epi mi faceva battere forte il cuore e faceva dilatare le pupille, lasciando entrare un tale flusso di fotoni che avevo la sensazione di annegare nella luce. Poi venne il Diamox [un inibitore della anidrasi carbonica], una pillola, un diuretico.
Una pena tremenda. Tutti i sapori ne venivano alterati. Alla fine, vista la situazione disperata, anche lo ioduro di fosfolina, un collirio ricavato da un gas nervino della Seconda guerra mondiale, fu aggiunto al miscuglio. Questo bombardamento farmaceutico mi lasciò con gli occhi offuscati, disfunzionalmente miope, fotofobico, estremamente fiacco e con un dolore cronico alla schiena (per la calcificazione dei reni). I rigorosi controlli medici sulla mia elevata pressione intraoculare (IoP), tuttavia, rimane vano ambigui. La pur rapida escalation del mio consumo di farmaci tossici fu sorpassata dal carattere dinamico del mio glaucoma. I campi visivi continuavano a restringersi. Nonostante usassi tutti gli agenti farmaceutici disponibili, le mie serate erano sistematicamente visitate dagli aloni tricolori, il segnale di una pressione oculare al di sopra dei 35 mm Hg [millimetri di mercurio]. Alle volte gli aloni si presentavano in sordina. Altre sere apparivano come duri anelli di cristallo che si sprigionavano da ogni sorgente luminosa. E poi c'erano notti, neanche tanto rare, di cecità bianca -il mondo reso invisibile dalla sua luminosità. Traduzione clinica: pressione oculare al di sopra dei 40 mm Hg. Per riassumere, le cose non stavano andando molto bene.

Poi qualcuno mi offrì un paio di spinelli. Dolce erba!
Quella sera mi preparai la cena e mangiai, poi mi misi a guardare la televisione. Arrivarono i miei aloni tricolori, che rendevano meno interessante guardare la TV. Allora misi su un po' di buona musica, smorzai le luci troppo forti, che mi urtavano, e mi misi a fumare con un certo impegno. Mi capitò di guardare, fuori dalla finestra, un lampione lontano e mi accorsi che mancava qualcosa. Niente aloni. È stato allora che ho avuto, in tutto il suo splendore, l'esperienza omnidimensionale della lampadina da cartone animato in technicolor. In un istante trascendente le sfere celesti parlavano! Era così semplice. I vecchi messaggi in un nuovo contesto. Fumi una canna e l'astenopia ti passa. La ganja è la cosa giusta per te.


Di sicuro fu divertente, ma nello stordimento da medicinali della mattina miotica seguente mi rimproverai quel trasporto precipitoso e ricominciai da zero ad analizzare la mia situazione. Il mio intelletto ben educato e acutamente spassionato non era tenero. "Siamo analitici", disse il mio emisfero sinistro. Fatti forza, la situazione non è piacevole. Questa povera anima sovraffaticata che non vuole accettare l'ammasso di orrori di quella che è diventata la "vita reale", mette mano a della marijuana veramente buona. Si fuma un paio di spinelli e si sconvolge un po'. OK, abbiamo accertato che non ci sta più con la testa. Nella disperazione e in assenza di speranze, si immagina che la marijuana gli potrà "salvare la vista".

Ma siamo matti? La risposta è ovvia, no? Date queste premesse, chi non vorrebbe credere che qualcosa di mistico, di magico, di misterioso e di proibito lo salverà dal pozzo delle tenebre eterne? L'idea che un 'erba proibita dalla legge e non disponibile come medicina -una pianta che si fuma per puro piacere, per divertimento -"salverà la tua vista" è strampalata e avventata; una teoria tirata per i capelli, improbabile e patetica, che solo un pazzo potrebbe concepire. Così cominciarono sei mesi di osservazione cinica. Sei mesi di semplici prove e controprove. Alla fine, la conclusione è stata ineludibile. Senza la marijuana c'erano gli aloni e le notti di cecità bianca. Quando fumavo marijuana, non c'erano aloni. Ne emerge un modello? Potete scommetterci. Se guardavo molto attentamente, in effetti riuscivo a osservare gli aloni che se ne andavano.
Non si poteva sfuggire alle numerose evidenze di un beneficio riproducibile.

Così accettai l'idea che un'erba illegale e proibita come medicina potesse aiutarmi a non diventare cieco. E adesso? Magari corro a raccontare la rivelazione che ho avuto grazie alla marijuana, e che naturalmente è di potenziale beneficio per milioni di esseri umani con lo stesso tipo di afflizione, al simpatico dottor Ben Fine, prestigioso patologo oculare, veramente una bravissima persona ammodo di mezza età? Sì, come no? Ma neanche per idea! È un bravo dottore. Mi piace. È onesto. Ma non apprezzerebbe le mie notizie. Ci sono di mezzo questioni mediche. E, naturalmente, problemi legali. Di pratiche illecite, o peggio. Se il dottor Fine ne viene a conoscenza ma non va a parlarne con la polizia, diventa un complice del mio crimine? Un co-cospiratore?
"Dottor Canna arrestato!" La sua carriera rovinata.

Ma se non il mio dottore di fiducia, chi allora? Potrei raccontarlo ai burocrati della droga? Ma certo! "La marijuana può essere la cosa giusta per te!" È proprio il genere di buona notizia che quegli ostinati fanatici antidroga muoiono dalla voglia di sentire. In questo modo ben poco sottile, la paura -la paura causata dalla proibizione pervade ogni dialogo sull'impiego medico della marijuana, dividendo i pazienti dai medici, dagli altri pazienti, dal governo. Sei isolato. È una cosa da non augurarsi neanche nel momento migliore, nella migliore delle situazioni.
Quando poi sei giovane e stai per diventare cieco, l'impossibilità di condividere delle informazioni così vitali con il medico che ti ha in cura o con altre persone che potrebbero trame vantaggio diventa assolutamente tremenda. Così iniziò un periodo di obiettivi minimi. Continua a fumare, tieni la bocca chiusa, e continua a vederci. La vista è reale.
Tutto il resto è politica.

Il dottor Fine, benché disorientato dall'improvviso miglioramento delle mie condizioni, fu molto contento dei risultati. I miei campi visivi in continua erosione si stabilizzarono. La mia lenta discesa nelle tenebre rallentò, poi si arrestò. Mentre il mio glaucoma diventava gestibile dal punto di vista medico, altri aspetti della vita cominciavano ad andare a posto. Mi svincolai dall'assistenza sociale e intrapresi un lavoro part-time come insegnante in un college della zona.
Anche lasciando da parte gli incontri spiacevoli con personaggi della malavita, la marijuana illegale è spaventosamente costosa, assolutamente deregolamentata e non sempre disponibile. Per far fronte all'incertezza di un rifornimento adeguato, feci quello che molti malati tuttora fanno.
Cominciai a coltivare un po' di marijuana.

Nel 1974 provai a far crescere la cannabis in casa, solo per vedere voraci squadroni di acari che consumavano con euforia tutto il mio raccolto. La primavera seguente due piccole piante di marijuana -nate da semi fatti cadere involontariamente l'anno prima -spuntarono tra le tavole della mia veranda. Ripiantammo i semi in vaso, ne piantammo qualcun altro in più, e poi rimanemmo a guardare la

natura che faceva il resto, Entro la metà dell'estate ricevemmo la benedizione di splendide piante di marijuana alte un metro e ottanta. Le cose mi stavano andando di lusso. La mia vista era stabile. Avevo un lavoro. Avevo riscoperto il piacere delle piccole cose. Alice era venuta a vivere da me. Di lusso. Quelli furono gli ultimi giorni tranquilli della mia vita.

Mentre eravamo in vacanza nell'Indiana, gli sbirri della narcotici della zona fecero una perquisizione in casa mia e sequestrarono le mie piante di marijuana alte un metro e ottanta. Al ritorno trovai sul tavolo della cucina un certificato con un messaggio scarabocchiato sul retro che mi sollecitava ad andare a costituirmi. Allora non potevo saperlo, ma essere arrestato fu quasi la cosa migliore che avrebbe potuto succedermi. Il mio arresto mi "salvò la vista ".

Quando dissi ai miei avvocati che fumavo marijuana per curare il mio glaucoma, pensarono che fosse un'affermazione demenziale. Quando si accorsero che non stavo scherzando, smisero di ridere solo per il tempo strettamente necessario a chiedermi di dimostrarglielo. Parlai con Keith Stroup, capo della National Organization for the Reform of Marihuana Laws. Keith non si mise a ridere.
Invece, mi spiegò in modo dettagliato che non avevo speranze. Comunque, mi diede qualche numero di telefono e mi suggerì di provare a chiamare. Così telefonai a vari uffici della burocrazia federale. Inutile dire che rimasi allibito quando almeno tre funzionari mi dissero senza esitazioni: "Sì, sappiamo che con la marijuana si cura il glaucoma. Abbiamo un sacco di dati che dimostrano... ". Lo sapevano! Lo sapevano e non si erano presi la briga di dirmelo. Lo sapevano, ma non volevano che nessun altro lo sapesse. Ricordate, tutto questo nel 1975, non ieri.

Di fronte alla scelta tra esercitare un proibizionismo cinico, radicato e assoluto, di stampo cattolico, o rispondere onestamente all'urgente bisogno di cure da parte di numerosi cittadini malati e in condizioni disperate, i burocrati della droga avevano scelto, naturalmente, la via dell'inganno per tenere in piedi la truffa istituzionale del cui segreto erano gelosi custodi. Questa è la ragione per cui i burocrati di tutto il mondo sono così amati dai cittadini per cui lavorano.

Dimostrare chela marijuana riduce la pressione intraoculare non è difficile. Il governo, il mio governo, era perfettamente consapevole degli effetti benefici della marijuana sul glaucoma fin dall'inizio del 1971. La marijuana è un problema politico, non una semplice questione medica. D'altronde, non si fanno grossi profitti coltivando erbe medicinali. I mandarini della medicina che controllano il National Eye Institute (NEI) non volevano essere coinvolti. Anche loro avevano paura. Finanziare una ricerca poteva nuocere. Quando chiesi aiuto, il NEI rifiutò di condurre qualsiasi esperimento con la marijuana perché avrei potuto voler usare quei dati in tribunale. I più importanti specialisti del paese erano politicamente ortodossi e molto contrari alla marijuana. Del resto, dicevano i dottori con aria pensierosa, non potresti comunque fare uso di marijuana. La marijuana fa "andar fuori" la gente. E noi tutti sappiamo quale minaccia per la vita possa essere l'euforia.

Alla fine fui sottoposto a due esperimenti medici altamente controllati. Il primo, condotto all'istituto oculistico Jules Stein della UCLA, richiese la mia incarcerazione in un reparto psichiatrico per tredici giorni di osservazione ininterrotta. Capitai nel bel mezzo di un progetto di ricerca già in corso, che coinvolgeva sei soggetti sottoposti a ricerche "di routine"; a costoro veniva somministrato del puro THC sintetico -una copia artificiale del principio chimico della marijuana che maggiormente altera lo stato mentale. I ricercatori della UCLA non si limitarono semplicemente a confermare che la marijuana riduceva la mia pressione intraoculare. Scoprirono che la mia malattia non poteva essere curata usando le medicine convenzionali contro il glaucoma. Ridotto a poter usare solo quei farmaci sarei diventato cieco, proprio come il dottor Fine aveva predetto. Provarono su di me il THC sintetico [Marinol]. Che farmaco scadente, risibile! Lo stato di euforia provoca ansia. Gli effetti terapeutici, quando ce ne sono, sono minimi, transitori, imprevedibili. Ma il THC viene somministrato in pillole. I burocrati, i ricercatori e i dottori sanno come rapportarsi alle pillole. Inoltre, sappiamo tutti che così non dovresti fumare. Alla fine, la UCLA stabilì che la marijuana non era soltanto benefica; era cruciale affinché io potessi continuare a vedere.

OK. È dimostrato. Andiamo in tribunale. Ero pronto, ma i miei ansiosi avvocati cospirarono con un dottor Fine oppresso dall'ansia ancor più di loro per costringermi a un secondo esame di verifica. Alle Idi di marzo del 1976, un secondo esperimento molto meno divertente fu condotto all'istituto oculistico Wilmer, della Johns Hopkins University, dove passai sei dei giorni più penosi della mia esistenza. I medici del Wilmer avevano ricevuto dal dottor Fine precise istruzioni perché si trovasse una soluzione convenzionale. Lui non voleva testimoniare in tribunale.
Allora riversarono su di me ogni farmaco per il glaucoma che figurasse nel catalogo. Aggirandomi per la biblioteca medica, fui allarmato dalla quantità di effetti collaterali che risultano comunissimi tra i consumatori cronici di medicinali contro il glaucoma. Un breve elenco includeva cataratta, calcoli renali, ulcera gastrica, esantema, febbre, stati confusionali, improvvisi sbalzi di umore, ipertensione, insufficienza renale, respiratoria o cardiaca, e infine la morte. I medici dell'istituto oculistico Wilmer, nonostante la loro gioia apparentemente perversa nell'espormi agli effetti di farmaci altamente tossici, non erano in grado di fare una valutazione sulla marijuana. Non c'erano permessi da parte del governo. Nessuna concessione. In mezzo a tanta meschinità, accadde un fatto curiosissimo. Feci conoscenza con il mio compagno di stanza, un operaio di cinquantatre anni della West Virginia che si chiamava Vince. Ci eravamo appena incontrati, ci eravamo a malapena scambiati i saluti, che Vince chiese "Hai mai provato della buona marijuana?". Se sono rimasto sbalordito? Potete scommetterci. Pare che il vecchio Vince si fosse preso un momento di pausa con un paio di suoi compagni del turno di notte e avesse fumato erba per la prima volta in vita sua. Tombola! Vince si era accorto che i suoi aloni andavano via. "Se mi potessi procurare abbastanza marijuana, quant'è vero Iddio. non sarei qui",. disse Vince in tono convincente. Due gIorni dopo vidi gli infermieri che portavano Vince, su un lettino a rotelle, alla criochirurgia: un procedimento spaventoso, doloroso, in cui si fa congelare, si uccide una parte dell'occhio nello sforzo di ridurre la pressione oculare. Quella notte Vince gemette, in agonia; le dita dei piedi gli si torcevano per il tormento. Dopo aver lasciato il Wilmer mi tenni informato sulle condizioni di Vince per un bel po' di tempo. L'intervento chirurgico che l'aveva mutilato non gli aveva giovato. Alla fine, impossibilitato a "procurarsi abbastanza marijuana", Vince diventò cieco.

Avevo fatto quasi quattro anni di terapia contro il glaucoma, e Vince era il primo malato di glaucoma che avessi mai incontrato. E Vince sapeva! Quanti altri sapevano? Alla fine del loro tormento farmaceutico, i dottori del Wilmer ammisero con riluttanza il loro insuccesso. La diagnosi della UCLA era corretta: in assenza di marijuana, la mia pressione oculare era al di là della possibilità di controllo medico. Ignorando i dati del UCLA sulla marijuana, i chirurghi del Wilmer raccomandarono un immediato intervento chirurgico.

Che novità! Senza marijuana sarei diventato cieco. Tutti erano d'accordo su questo. I medici del Wilmer, nel loro zelo di eludere questo fatto, avevano raccomandato un procedimento chirurgico che - il dottor Fine lo sapeva - mi avrebbe portato alla cecità. Alla fine acconsentì a testimoniare in mia difesa. Chiamò in causa l'argomento più importante: date le premesse, sarebbe stato contrario all'etica di un medico proibirmi l'uso della marijuana. Il resto, come si suol dire, è storia. Riassumendo in breve:

- nel maggio del 1976 feci richiesta agli uffici federali competenti per ottenere immediata disponibilità di marijuana dal governo;
- in luglio, al mio processo, invocammo l'attenuante legale -mai sperimentata prima -della "necessità medica".Essenzialmente, un semplice ragionamento per cui qualsiasi cristiano sano di mente che sta per diventare cieco violerebbe la legge pur di salvare la propria vista;
- nel novembre del 1976 i burocrati cedettero. Consegnarono un barattolo con trecento sigarette di marijuana già rollate al mio nuovo dottore, John Merritt della Howard University. In questo modo diventai il primo americano ad aver ottenuto l'autorizzazione a fare uso di marijuana legale, sotto supervisione medica;
- nello stesso mese, la Corte Suprema del District of Columbia sentenziò che l'uso di marijuana da parte mia non era un crimine, ma un fatto di "necessità medica".

Fu il primo caso in cui l'enunciazione dell'attenuante della "necessità medica" ebbe buon esito nella storia del diritto consuetudinario inglese.
Per tutto il primo anno non potei fumare tranquillamente. Anzi, quel primo anno si trasformò in uno scontro continuo. Parlo sul serio. I burocrati cercarono di dare un giro di vite. Molto sgradevole. Il diffondersi della notizia aveva sconvolto i burocrati: altri pazienti ora aspettavano aiuto.
All'inizio del 1978, i funzionari federali si trovarono con le spalle al muro, presero di petto la questione e troncarono i miei rifornimenti legali. Controbattei citandoli in giudizio. Ventiquattro ore dopo che la causa era stata registrata, pervenimmo a un accordo informale che è tuttora in vigore. Questo accordo mi assicura una disponibilità di marijuana adeguata dal punto di vista medico (e non per ricerca) per soddisfare le mie legittime necessità terapeutiche.

2.2.2 1a Testimonianza - glaucoma terminale Elvy Musikka

    Elvy Musikka è una donna sulla quarantina che vive a Hollywood, Florida. Questa è la sua storia:

Alla fine di febbraio del 1975 fui visitata dal dottor Rosenfeld, un medico generico della zona di Fort Lauderdale. Egli mi sottopose a un esame completo, dopodiché disse che i miei occhi erano stati colpiti da glaucoma. La pressione [del fluido intraoculare] era ben sopra il 40 [una pressione normale è attorno a 15], e il dottor Rosenfeld insistette perché andassi immediatamente da un oftalmologo. I suoi sospetti furono confermati e io cominciai la cura con un collirio a base di pilocarpina. Nella primavera del 1976 la pilocarpina era ormai diventata di per sé un problema. Cominciai a vedere dei cerchi, ma supposi che fossero un sintomo del glaucoma. Portare le lenti a contatto era fastidioso e la mia pressione intraoculare stava salendo. Un altro dottore mi suggerì di provare la marijuana perché era probabile che altrimenti sarei diventata cieca. Mi disse questo come amico, non come medico; fu allora che cominciai a rendermi conto che alle volte i dottori devono scegliere tra il giuramento di Ippocrate e delle leggi ipocrite. Per mia grande fortuna, quell'uomo aveva un cuore.

La cecità non era una novità per me. Ero nata cieca a causa di una cataratta congenita e avevo fatto il mio primo intervento chirurgico agli occhi quando avevo cinque anni. La chirurgia di allora era molto diversa dalla chirurgia al laser di oggi, ed ero rimasta con parecchio tessuto cicatriziale. Ho portato degli occhiali molto spessi fino a quattordici anni circa, quando ho fatto un intervento chirurgico all'occhio sinistro. Qualcosa andò storto e da allora ho perso gran parte della vista da quell'occhio. Ma con 1/10 di vista dall'occhio destro e con l'aiuto delle lenti a contatto ero andata avanti abbastanza bene, fino a quella più recente scoperta.

Ero a disagio al pensiero di fare uso di marijuana, una droga che, a causa delle informazioni sbagliate che avevo ricevuto, ritenevo altrettanto pericolosa e in grado di dare dipendenza quanto l'eroina. Per via della mia ansia, la prima volta che la provai mi venne la nausea allo stomaco.

Oggi, ripensando a quella situazione, la trovo particolarmente divertente poiché ho scoperto che la marijuana è molto efficace nel prevenire e alleviare la nausea. Ho scoperto anche che alcune persone, come del resto anch'io sulle prime, cadono in uno stato di paranoia dopo aver consumato marijuana, ma oggi mi chiedo se questo sia un effetto della pianta in sé o sia dovuto ai miti di vecchia data sulla sua pericolosità. Non mi capita più di andare in paranoia quando ne faccio uso -è forse possibile che questo sia un indizio?

Quell'estate scoprii qualcosa di curioso. Un giorno mi presentai dal dottore spaventata a morte, dato che il mio amico Jerry e io avevamo passato la maggior parte della notte precedente a bere champagne. Immaginavo che ciò avrebbe fatto aumentare la pressione nei miei occhi, e fui molto sorpresa trovandola atte stata su valori tra 12 e 13. Il medico mi spiegò che i sedativi come l'alcol, la marijuana e il Demerol riducono la pressione intraoculare. Lui aveva la sensazione che la marijuana fosse il meno pericoloso dei tre.

Fumare marijuana mi disgustava terribilmente, così il mio dottore e io decidemmo che sarebbe stato meglio per me prenderla sotto forma di biscotti. Mi avvertì che me ne sarebbe servita di più rispetto a quando la fumavo. Mi diede una ricetta che richiedeva un'oncia di marijuana per ricavare un 'infornata di ventiquattro biscotti: una scorta per dodici giorni.

Non sapevo dove andare a prendere la marijuana e non sempre avevo la possibilità di procurarmela. Una volta che la mia pressione intraoculare era diventata troppo alta, il mio medico se ne procurò un po' per me. Mi fu consegnata a mano dalla sua segretaria. Povera donna, come tremava!
Le sue mani erano fredde come il ghiaccio quando mi porse il sacchetto. Ringraziai Dio per la compassione di quelle persone. Sapevo che il prezzo corrente di un'oncia andava dai trenta ai quaranta dollari, ma la segretaria mi chiese soltanto quindici dollari. Una cosa del genere non
poteva continuare, naturalmente, così cercai di ottenere la marijuana legalmente.

Non riuscivo a trovarne a sufficienza, così dovevo continuare a prendere la pilocarpina. Quando la pilocarpina ricominciò a farmi vedere i cerchi, il mio medico era fuori città e dovetti andare in un'altra clinica. Quando il medico ospedaliero preposto all'assistenza si rese conto che stavo facendo uso di marijuana per curare il mio glaucoma, sembrò molto disgustato. Mi sbatté in faccia due prescrizioni e mi mandò a casa senza avermi dato istruzioni o avvertimenti. Quei due farmaci sono stati i più orribili in cui mi sia mai imbattuta in vita mia. Il Diamox mi consumò tutto il potassio che avevo in corpo e mi lasciò completamente apatica. I miei bambini dovevano arrangiarsi da soli perché, quando tornavo a casa, potevo soltanto andare a letto. In quel periodo non avevo abbastanza denaro per comprare il secondo farmaco, lo ioduro di fosfolina, che alla fine provai, trovandolo insopportabilmente doloroso.

Mi rivolsi al giornale della mia città e raccontai a un giornalista del mio uso della marijuana nel corso di un 'intervista telefonica. Parlai senza dare il mio nome o una fotografia, perché temevo di perdere il mio posto di lavoro e l'affidamento dei miei figli. Tuttavia molte persone capirono che quella storia era la mia e vennero allo scoperto, confessandomi che fumavano marijuana regolarmente e promettendo che mi avrebbero aiutato a trovare la marijuana quando fosse stato possibile. Potete immaginare la mia sorpresa! Alcune di queste persone erano colleghi di lavoro, altri erano membri rispettabili della comunità. Nessuno di loro, neanche uno, era un balordo, come io ero stata indotta a pensare che ogni fumatore di marijuana dovesse essere.

Nel gennaio del1977, il mio dottore mi mandò a un centro di ricerca dell'Università di Miami. Pensava che avrebbero potuto aiutarmi a ottenere la marijuana legalmente. Ma gli zelanti scienziati del centro non volevano neanche sentire la parola "m". Anzi, là trascorsi uno dei giorni più estenuanti della mia vita. Quando arrivai la mia pressione intraoculare era ben sopra il 50 dall'occhio destro e superava di molto il 40 dall'occhio sinistro. Mi fecero prendere tutto quello che gli veniva in mente. Le gocce non fecero molto, e nemmeno mi giovò l'uso di una piccola pompa per lavare gli occhi. Fui anche costretta a bere un grosso bicchiere di un liquido disgustosamente dolce, che comunque non mi fu d'aiuto. Alla fine della giornata la mia pressione si era a malapena ridotta a valori attorno al 40, perciò mi misero in lista per un intervento chirurgico di emergenza.

A casa, quella sera, usai quel po' di marijuana che mi rimaneva per preparare alcuni biscotti, e ne mangiai uno ogni dodici ore. Il lunedì mattina seguente, quando mi presentai per l'intervento chirurgico, i dottori mi misurarono la pressione e rimasero stupefatti: perfettamente normale, tra 14 e 161 Ciononostante mi prepararono per la chirurgia, anche se l'intervento aveva al massimo il 30% delle probabilità di arrecarmi beneficio. La mattina seguente effettuarono sui miei condotti lacrimali un intervento che si rivelò inutile. A causa di quell'intervento, oggi devo portare quelle grosse lenti d'ingrandimento che ero riuscita a evitare fin dall'infanzia. Dopo tutta la trafila, mi ritrovavo con la vista più debole, un tessuto cicatriziale più esteso, la pressione più alta, e non ero in grado di tornare a lavorare.

Ora dovevo affrontare non solo il glaucoma, ma anche la depressione e la povertà. Ci sarebbero voluti almeno nove mesi prima che la previdenza sociale potesse emettere un certificato di invalidità. Mi sentivo umiliata per il fatto di dover ricorrere ai buoni pasto, ma ero contenta che fossero disponibili. Mi venne l'insonnia. La marijuana era più difficile da ottenere, ora che non avevo soldi per comprarla. Alle volte qualche persona compassionevole me ne dava un po' e la mia insonnia scompariva. Era certamente il miglior antidepressivo in cui mi fossi mai imbattuta.

Nel 1980 avevo ancora pochi soldi e il prezzo della marijuana era aumentato, così cominciai a coltivarmela in casa. Usavo i semi più fini, dai quali nascono piante piccole, difficili da individuare ma produttive. Mi bastavano tre o quattro spinelli al giorno. La mia pressione si attestò su valori così vicini a quelli normali che i miei medici stabilirono che un trapianto di cornea non sarebbe stato pericoloso. Funzionò! Non avevo mai avuto una vista così buona, era meraviglioso! Ero felicissima... prima che i vicini scavalcassero lo steccato del mio giardino e rubassero le mie piante di marijuana.

La mia pressione intraoculare andò alle stelle e io presi a rifugiarmi nell'alcol per la maggior parte del tempo. Quando cominciai ad avere dei leggeri black-out compresi che l'alcol non era una soluzione. Così, con riluttanza e piena di paura, mi sottoposi ancora a un intervento chirurgico.
Questa volta insorse una emorragia, e prima ancora che me ne potessi accorgere il mio occhio destro era diventato cieco. A quel punto avevo soltanto 1/20 di vista dall'occhio sinistro; avreste potuto illuminare la mia camera da letto con delle forti lampade mentre dormivo e io non mi sarei svegliata. Ero molto depressa. La cosa più dolorosa erano i sogni felici nei quali io ci vedevo da entrambi gli occhi ed ero quella di una volta. Poi mi risvegliavo per trovarmi priva dell'uso dell'occhio destro.

Avevo bisogno di soldi e avevo una stanza in più in casa mia, così misi un annuncio sul giornale e mi trovai un pensionante. Mi assicurò che non faceva uso di droghe illegali e che non avrebbe detto a nessuno che io coltivavo marijuana. Ma presto il suo comportamento eccentrico mi convinse che doveva esserci qualche problema e, effettivamente, trovai della cocaina sotto il lavandino del bagno. Sulle prime negò di fare uso di droghe, ma pochi giorni dopo lo ammise. Disse che aveva bisogno della cocaina perché nella sua posizione di venditore di auto era tenuto a lavorare sette giorni alla settimana, dieci ore al giorno. Gli risposi che non mi interessavano le sue ragioni; se ne sarebbe dovuto andare. Acconsentì ad andarsene, ma man mano che si avvicinava il momento diventava sempre più riluttante. Discutemmo animatamente, e lui mi denunciò alla polizia.

Mi arrestarono la sera del 4 marzo 1988, e questo fatto cambiò la mia vita per sempre. Informai i mass media, e stavolta il giornale della mia città mi fotografò e pubblicò per intero il seguito della mia storia. Fui contattata da persone che erano riuscite a ottenere la marijuana legalmente, e così il mio medico e la sua segretaria passarono almeno cinquanta ore sugli incartamenti da sottoporre alla DEA, alla FDA e alla NIDA nello sforzo di procurarmi della marijuana legale. Partecipai a parecchie trasmissioni radiofoniche, e fu sempre un'esperienza straziante perché quasi sempre c'era qualcuno che aveva perso la vista inutilmente. C'erano anche cittadini sinceramente in apprensione, che si preoccupavano per la mia dipendenza da una droga orribile e che si auguravano di cuore che ci fosse un'altra soluzione per me. Naturalmente, queste persone non erano nei miei panni e non lo erano state negli ultimi dodici anni, per cui non si rendevano conto che non c'erano effetti collaterali che io dovessi temere. Cominciai a ricevere notizie da persone di tutta la nazione, alcune persino dal Canada. Fu sconcertante: molti di loro erano malati di glaucoma e avevano conservato la vista per venti, venticinque anni grazie alla marijuana; ancora oggi continuano a consumarla illegalmente. Li invidiai perché avevano preso una posizione coraggiosa in difesa della propria salute, perché sapevano quello che facevano e si erano presi cura di se stessi.

Ma ormai non c'era più rimedio per me. Dovevo affrontare i miei capi d'accusa. In Florida, il possesso di più di venti grammi di droga è un reato, e a me ne avevano sequestrata un'oncia e mezza che avevo appena tagliato da una pianta il lunedì precedente.
Il mio processo cominciò e finì il15 agosto 1988. Una cosa la sapevo: se stavo andando in tribunale io, ci stava andando anche quella legge ingiusta. Non avevo paura. Sentivo che Dio e suoi angeli erano con me. Non mi sbagliavo: l'unica persona che trovarono che potesse testimoniare contro di me era l'ufficiale che mi aveva arrestata, e non direi che lui ce l'avesse con me. I malati di glaucoma testimoniarono a mio favore, e il mio medico dichiarò che la marijuana era l'unica sostanza che mi avesse mai arrecato sollievo in modo sistematico. Mi fu chiesto se avessi fumato marijuana, dopo il giorno del mio arresto e io risposi di sì. "Avete fumato marijuana oggi?" "Naturalmente", replicai. Il giudice ascoltò con attenzione e stabilì che non tentare di salvare quel po' di vista che mi rimaneva sarebbe stato, da parte mia, un atto di follia pura. Disse che da parte mia non c'era nessun proposito di attività criminosa, e fui assolta. Avevo fatto richiesta di "Compassionate IND" nel marzo del 1988 e mi fu concesso l'uso legale di marijuana fornita dal governo a partire dal 21 ottobre 1988.

Nel mio occhio destro la vista sta tornando. Ora ho percezioni di luci, colori e forme. Nel mio occhio sinistro, che prima era a 1/20 ma adesso è a 2/10, il nervo ottico è in ottime condizioni e non ho avuto perdite di visione periferica. È un dato di fatto che ci sia stato un miglioramento. È un miracolo: è la cannabis.

 

2.3 Epilessia

    L'epilessia è una condizione in cui determinate cellule cerebrali (il focolaio epilettogeno) diventano eccitabili in misura anormale ed emettono spontaneamente impulsi incontrollati, provocando una crisi. Nel grande male o epilessia generalizzata, le cellule anormali si trovano su entrambi i lati del cervello e l'emissione degli impulsi nervosi causa convulsioni (violenti spasmi muscolari). Nelle crisi di assenza o di piccolo male, l'emissione generalizzata degli impulsi nel cervello provoca una momentanea perdita di conoscenza senza convulsioni. Le crisi parziali sono il risultato di un'emissione anomala di impulsi nervosi in una regione localizzata dell'encefalo; possono avvenire con o senza un'alterazione dello stato di coscienza.

    Le crisi parziali accompagnate da un'alterazione dello stato di coscienza, note come crisi parziali complesse, sono causate da una lesione ai lobi frontali o temporali della corteccia cerebrale. In passato erano note come crisi psicomotorie, in quanto i sintomi interessano anche l'attività motoria (smorfie e movimenti ripetuti della bocca o delle mani sono particolarmente comuni). Quando la sovraeccitazione è confinata a un'area molto piccola, il malato di epilessia può avere una strana sensazione di déja vu, vertigine, paura, o può sentire uno strano odore senza capire da dove venga. Questa sensazione, nota come aura, può essere seguita o meno da una vera e propria crisi parziale complessa.

    L'epilessia viene curata principalmente con farmaci anticonvulsivanti, che però sono efficaci solo nel 75% dei casi. Le crisi focali e l'epilessia del lobo temporale, in particolare, sono difficili da curare con gli anticonvulsivanti convenzionali. Oltretutto, i farmaci anticonvulsivanti hanno effetti collaterali potenzialmente gravi, tra i quali osteomalacìa, anemia perniciosa (legata a una produzione insufficiente di globuli rossi), gonfiore gengivale e turbe emotive. Le dosi eccessive o le reazioni idiosincratiche possono causare ristagno (movimenti rapidi e incontrollabili degli occhi), perdita di coordinazione motoria, coma, e persino la morte.

    Sebbene le proprietà anticonvulsivanti della cannabis siano note fin dall'antichità e siano state studiate a fondo nel XIX secolo, questa possibilità di impiego terapeutico della marijuana è stata ampiamente ignorata negli ultimi cent'anni. Una rara eccezione è rappresentata da un breve articolo di J.P. Davis e H.H. Ramsey pubblicato nel 1949. Questi due ricercatori studiarono gli effetti di due congeneri del tetraidrocannabinolo su cinque bambini che ricevevano assistenza in un istituto per le loro gravi forme epilettiche di grande male, che non era possibile curare adeguatamente con i farmaci anticonvulsivanti convenzionali, il fenobarbitale e la fenitoina (Dilantin@). Tre di loro non peggiorarono; al quarto le crisi cessarono quasi completamente, e al quinto completamente.

La letteratura medica continuò a tacere su questo argomento fino al 1975, quando fu descritto il seguente caso di grande male:

Un uomo di 24 anni è stato tenuto sotto controllo medico in una clinica neurologica per un periodo di otto anni senza ricovero, allo scopo di contrastare le sue crisi epilettiche. La sua storia comprendeva convulsioni febbrili all'età di tre anni e crisi di epilessia a partire dai 16 anni. Da quel momento il paziente ha preso difenilidantoina sodica (fenitoina), 100 mg quattro volte al giorno, e fenobarbitale, 30 mg quattro volte al giorno. Anche a questo regime, il contenimento degli attacchi epilettici era incompleto e il paziente accusava una crisi all'incirca ogni due mesi. Dai 16 ai 22 anni la frequenza delle crisi era aumentata da una al mese a una alla settimana.

A 22 anni il paziente cominciò a fumare marijuana (dai due ai cinque spinelli per sera), proseguendo comunque nella terapia con i farmaci anticonvulsivanti che gli erano stati prescritti. Durante questo periodo, le crisi non si manifestavano fintantoché il paziente continuava ad assumere la combinazione di tutt'e tre le sostanze. Questa condizione non poteva essere mantenuta grazie alla sola marijuana, dato che in due occasioni egli sperimentò una crisi tre o quattro giorni dopo aver interrotto la cura prescritta.

    In uno studio successivo, a sedici pazienti affetti da grande male che non stavano ottenendo buoni risultati dalle cure, furono somministrati da 200 a 300 milligrammi di cannabidiolo di placebo in aggiunta ai loro farmaci antiepilettici. Dopo cinque mesi, tre dei pazienti trattati con cannabidiolo mostravano un recupero completo, due presentavano miglioramenti parziali e due denotavano un miglioramento ridotto; uno era in condizioni stazionarie. L'unico, leggero effetto collaterale fu sedativo. Tra i pazienti cui era stato somministrato il placebo, solo uno era migliorato sensibilmente mentre sette erano stazionari. .I ricercatori conclusero che per alcuni pazienti il cannabidiolo, combinato con antiepilettici convenzionali, può essere utile nel contenimento degli attacchi epilettici. Non si sa se il cannabidiolo sia benefico, in forti dosi, anche da solo.

   Malgrado le istituzioni mediche continuino a mostrare scarso interesse, un numero sempre maggiore di persone affette da epilessia sta scoprendo l'utilità della cannabis. Carl Oglesby soffre di crisi parziali complesse; la crisi si origina a partire dal lobo temporale e si propaga, rimanendo comunque relativamente focale:

2.3.1 1a Testimonianza - crisi parziali complesse Carl Oglesby

Nel 1972, all'età di trentasette anni, scoprii che la marijuana curava un disturbo che mi aveva afflitto sin dagli anni dell'adolescenza e per il quale sembrava non fosse disponibile alcun medicinale legale. Poco dopo quella scoperta diventai un consumatore abituale. Oggi, siccome mi trovo a disagio a causa dei rischi legali che si corrono facendo uso di marijuana, sono deciso a trovare un altro modo per affrontare il mio problema.

Il mio disturbo si è manifestato per la prima volta quando avevo quindici o sedici anni e ha continuato a manifestarsi fino alla mia attuale età di cinquantaquattro anni, con una frequenza variabile da una mezza dozzina a due dozzine di attacchi epilettici al giorno. Gli attacchi variano nella durata (da mezzo minuto a un minuto) e nell'intensità, ma mai nella forma. Ci sono sempre due stadi. Il primo è uno stadio iniziale o di aura, il secondo è caratterizzato dallo spasmo facciale che rappresenta il momento cruciale della Crisi.

Il primo avvertimento giunge sotto forma di una sensazione sottile eppure ineffabilmente corporea, un senso di sorpresa, chiaramente sgradevole, di leggerezza e perdita di fisicità, una sorta di palpitante solletico interiore e vertigine. Dapprima è concentrato nel torace, ma si propaga alla testa nel giro di pochi secondi e abbraccia l'intero contesto dell'attività mentale. Vale a dire che sono ancora in grado di parlare e di sostenere una linea di ragionamento, ma ciò richiede uno sforzo particolare a causa di un senso di agitazione generale anche se intima.

Sono consapevole di alcune manifestazioni fisiche che non riesco a controllare durante la crisi. Le narici si mettono a tremare, gli occhi ballano e scintillano, la voce mi si strozza e il suo timbro diventa irregolare, il diaframma si contrae, il respiro si fa discontinuo e mi sento vagamente disorientato. E come se il mio corpo si eccitasse, quasi piacevolmente da questo punto di vista, ma in assenza di qualunque referente, contesto o movente sociale o mentale. Dal momento che la perdita del controllo fisico di se stessi provoca sempre sconcerto, un'esperienza che presenta una specie di grossolana somiglianza con l'euforia diventa fonte di impotenza e timore.

La crisi propriamente detta sorge come un crescendo a partire dallo stato di aura ed è in parte un 'intensificazione dell'aura. La sua componente dominante consiste in un ghigno fisicamente irrefrenabile che prende tutto il lato destro del viso senza interessare minimamente il lato sinistro. Tutte le altre manifestazioni del disturbo, per quanto ne so, sono bilaterali. Tutti e due gli occhi brillano, entrambi i lati del diaframma si contraggono, tutte e due le narici tremano. Il rictus, che invece è uniformemente localizzato sul lato destro, è il punto d'arrivo della crisi, il culmine verso il quale la fase di aura cresce. Lo stadio di aura è essenzialmente privato ed è facile da nascondere, ma il rictus mi espone a delle conseguenze sul piano sociale. Posso celarlo solo nascondendo il viso o distogliendo l'attenzione da me.

Le prime volte in cui il disturbo si manifestò, non riuscivo a capirlo o a spiegarlo e provavo troppa vergogna per chiedere aiuto. I miei genitori, persone poco raffinate, mi rimproveravano per quello che mio padre chiamava il mio "ghigno ebete" (con frasi come "togliti quel ghigno ebete dalla faccia"). Quando cercai di spiegarlo ai miei amici, replicarono che avrei dovuto ridere se mi veniva da ridere. Non riuscii a fargli capire che non mi veniva da ridere: o che, forse, sì, mi veniva, ma la sensazione mi prendeva come se provenisse da qualche altra parte e non avesse connessioni con qualunque pensiero o percezione o motivazione comune. Non riuscivo a dare l'idea di questo senso di estraneità, dell'essere posseduti da qualcosa al di là della coscienza.

Così lasciai perdere, decisi che questa cosa vergognosa, il mio ghigno ebete, me la sarei tenuta per me il più possibile, e misi a punto un repertorio di tecniche di dissimulazione. Mi riconosco il merito di non essere diventato un asociale. Mi sono impegnato nei dibattiti alla scuola superiore e al college, ho intrapreso un lavoro che mi ha costantemente tenuto a contatto con la gente, e in seguito, passati da poco i trentanni, ho giocato un ruolo chiave (come presidente dell'associazione "Studenti per una Società Democratica ", SDS) nel contrastare la Guerra del Vietnam. Ho addirittura recitato sulla scena per diversi anni durante il college e l'ho fatto con grande piacere, benché alla fine abbia dovuto ammettere che il mio disturbo mi rendeva impossibile recitare.

Se l'attacco epilettico minacciava di manifestarsi in un momento inopportuno - il che accadeva sistematicamente - avevo una vasta gamma di possibili contromisure. Se stavo tenendo banco in una conversazione, ero solito sviare l'attenzione da me in qualunque modo, spesso semplicemente ponendo una domanda a qualcuno. Se necessario inscenavo un piccolo accesso di tosse, prendevo un bicchiere d'acqua e lo tenevo davanti al viso per mascherare il rictus. In altre situazioni potevo accorgermi opportunamente di un pezzetto di mela che si era infilato in un molare superiore sul lato destro della bocca. Informai solo i miei amici più intimi del problema che avevo.

Col passare degli anni diventai provvisoriamente più raffinato e mi imbattei in teorie che sembravano offrire una spiegazione o perlomeno un 'interpretazione del mio disturbo, in particolare la celeberrima psicanalisi freudiana che era così imprescindibile negli anni '50 e '60. Per un lungo periodo feci mia la convinzione che il mio ghigno ebete fosse di origine psicosomatica e che sarei riuscito ad andare alla radice del problema, e magari a risolverlo, soltanto grazie alla psicoanalisi. Prima che potessi esplorare questa possibilità, comunque, un dottore in medicina del quale mi fidavo mi persuase che (a) il mio disturbo probabilmente rappresentava una forma di epilessia, e (b) i mezzi di cui disponevo per affrontarlo erano probabilmente altrettanto validi quanto qualunque altra cosa che la medicina ufficiale avrebbe potuto offrirmi.

Come molte persone negli anni '60, avevo avuto a che fare con la marijuana in numerose occasioni, ma per diversi anni avevo resistito alla tentazione di fumarla. Ero molto in vista nella mia qualità di funzionario nazionale della SDS e mi sentivo obbligato a evitare di gettare discredito sull'organizzazione; tra l'altro, la SDS aveva preso una posizione netta contro la marijuana proprio a seguito della mia insistenza. Inoltre, a differenza della maggior parte dei militanti del movimento, ero un uomo di famiglia, padre di tre bambini, verso i quali sentivo la normale responsabilità di genitore come la si intendeva nell'America degli anni '50.

Ma nel 1970 o giù di lì, con la SDS distrutta, la guida del movimento antimilitarista in altre mani e le mie pretese di padre vittime di un divorzio e di una separazione, la curiosità prese il sopravvento e cominciai a provare la marijuana in situazioni di gruppo. Scoprii presto che i miei disturbi svanivano quando ero sotto l'effetto della droga. Dopo pochi tiri, l'aura e la sua ascesa al temuto rictus semplicemente non si manifestavano per due o tre ore.

lo apprezzavo anche i piaceri dello stato di euforia in sé. A differenza dell'alcol, la marijuana non rappresentava una minaccia per l'autocontrollo, anzi migliorava la mia capacità di parlare in modo estemporaneo. Tutto questo non sarebbe comunque bastato a fare di me un consumatore abituale, poiché ero sempre un po' dispiaciuto all'idea di fumare. Ma il potere che la marijuana aveva di eliminare i miei disturbi mi indusse ad adottarla come un vero e proprio medicinale. Diversi mesi fa ho deciso di abbandonare questa forma di automedicazione e di subirne semplicemente le conseguenze: più tollerabili per me oggi che non nel 1970, dato che mi capita molto meno spesso di essere invitato a parlare in pubblico (faccio ancora magari una dozzina di conferenze pubbliche all'anno). Ciononostante, il ritorno dei miei disturbi mi rattrista e in una certa misura mi deprime, così sono andato in cerca di assistenza medica qualificata nella speranza di trovare un'alternativa legale, sicura e praticabile.

2.3.2 2a Testimonianza - grande male e crisi di assenza Gordon Hanson

    Gordon Hanson è un uomo di cinquantatre anni che soffre sia di grande male, sia di crisi di assenza. Questi sintomi venivano parzialmente contenuti per mezzo di farmaci convenzionali, in particolare fenitoina (Dilantin@), primidone (Mysoline@) fenobarbitale, che però comportavano gravi effetti collaterali
Ecco la sua testimonianza:

È molto più piacevole per me ricordare gli anni prima del conseguimento del diploma superiore piuttosto che pensa re a quello che accadde in quel freddo giorno di settembre del 1956. I venti da Nord sollevavano le foglie secche mentre io mi affrettavo ad andare a riempire il mio secchio di mirtilli colar rosso vivo, correndo verso il tramonto di un giorno più breve di quello che l'aveva preceduto. Le mie emozioni erano contrastanti; era la prima stagione in cui sarei stato libero dagli impegni scolastici, ma ero incerto sul mio futuro.

Arrivare a casa per cena era un'esperienza piacevole sia per me, sia per il mio fedele fox terrier. Vivere in Minnesota era poco meno che una benedizione. Ero nato nel 1938, il più piccolo di otto fratelli in una famiglia di immigrati di origine scandinava sbarcati in America all'inizio del secolo. Quando ero nato io mia madre aveva quarantanove anni, e il più giovane dei miei fratelli ne aveva nove. Numerose immagini d'amore riempivano la mia vita, sebbene le cose materiali non fossero altrettanto abbondanti.
Mio padre, come i nostri vicini, ricavava una modesta rendita dalla sua piccola fattoria con cascina. Quella sera di settembre mi sentivo molto assonnato e mi ritirai prima delle dieci di sera. Il risveglio fu un turbine di confusione e depressione, seguito da nausea, mal di testa e un indolenzimento muscolare che sembrava interessare tutto il corpo. I miei familiari erano tutti intorno alletto, con i volti pieni di preoccupazione. Non appena si fece giorno mi spronarono perché andassi a farmi visitare dal nostro medico di famiglia a Baudette. La sua diagnosi mi fece sentire ancor più spaventato e depresso. Come potevo avere l'epilessia?

La mia malattia fu tenuta segreta il più possibile. Col passare degli anni, imprevedibili attacchi di piccolo male cominciarono a manifestarsi, mentre il grande male - seppure meno frequente - continuava a lanciare incalzanti segnali del suo avvicinamento; suoni privi di significato o di una sorgente riconoscibile, incapacità di parlare, e infine la paralisi strisciante che lentamente inghiottiva il mio corpo. L'incoscienza occultava ogni sintomo fino a quando non riacquistavo i sensi. Ustioni e ossa rotte non erano cosa rara, e tuttavia non erano così funeste come la profonda depressione in cui mi maceravo.

Le combinazioni di farmaci come Dilantin, Mysoline e fenobarbitale fecero diminuire il numero degli attacchi epilettici ma chiaramente non risolsero i miei problemi.
Accadeva spesso che una profonda tristezza opprimesse la mia vita per giorni interi. Naturalmente si riteneva che l'epilessia ne fosse la causa: nessuno mi aveva mai detto che i farmaci che si usano per evitare le crisi hanno anche dei brutti effetti collaterali. Per qualche anno andai avanti a bere alcol, che però offriva evasioni troppo effimere. Alla fine incontrai una ragazza che volevo sposare, ma siccome avevo paura che mi avrebbe rifiutato, non le dissi nulla dei miei disturbi epilettici prima del nostro matrimonio.

La nostra giovane età e il dono di una figlia ci protessero dal dolore per breve tempo. Ma le cose necessarie alla sopravvivenza diventavano sempre più difficili da ottenere, e gli attacchi di epilessia diventavano più frequenti. Mia moglie cominciò a bere per nascondersi da una persona che ora aveva cominciato a temere, a causa degli strani disturbi e dei successivi stati di apatia che creavano una sindrome da dottor Jekyll e Mr Hyde. La sua dedizione all'alcol e la mia reazione a essa accrebbero la nostra infelicità, che fu alleviata solo per breve tempo dalla nascita di un'altra figlia e di un figlio all'inizio degli anni '60. I miei disturbi e i miei problemi finanziari aumentavano.

Alla fine degli anni '60 ebbi a che fare con la legge in più occasioni. All'inizio degli anni '70 i bambini furono temporaneamente allontanati da casa nostra. La corte mi ingiunse di rivolgermi a un consulente matrimoniale; questi suggerì che avrei potuto provare la marijuana per ridurre gli effetti depressivi del fenobarbitale e al tempo stesso contenere gli attacchi epilettici. Quel suggerimento mi sembrò assurdo, dato che il mio atteggiamento era lo stesso della maggioranza: la marijuana era una droga il cui nome si poteva a malapena sussurrare, indiscutibilmente malefica! Grazie a Dio, cominciai a documentarmi sulla pianta e feci anche ricerche presso altre fonti, tra le quali l'Università del Minnesota. Scoprii che era stata usata a scopo medico nei secoli passati, e cominciai a fumarla regolarmente.

Nel 1976 avevo ormai ridotto la mia dose di fenobarbitale, Dilantin e Mysoline del 50% circa. Le crisi erano diventate meno frequenti e gli sbalzi d'umore erano andati scemando, almeno quando la marijuana era disponibile. Nel 1976 fui arrestato per il possesso di una piccola quantità, e da allora trovai più difficile acquistarla. Il giudice mi disse di consultare un dottore. Il dottore non negò l'utilità della marijuana a scopo medico, ma siccome era illegale mi suggerì di prendere il Valium. Per quasi due anni presi due compresse di Valium al giorno, ma questo fece di me uno zombie ambulante, e comunque avevo ancora i blackout.

Nel 1978 mia moglie fu ricoverata in ospedale per tre giorni perché aveva scambiato il fenobarbitale per aspirina mentre era ubriaca. Quel fatto mi convinse a buttar via tutto il fenobarbitale e il Valium che mi rimanevano. Grazie a quella rinuncia ritrovai la lucidità mentale. Decisi, quella primavera stessa, di provare a far crescere delle piante da
semi che avevo accumulato. Ebbi un discreto successo. Di anno in anno vennero nuovi metodi per migliorare la qualità, lasciando i ricordi spiacevoli alle spalle. Nel 1982, ormai coltivavo in giardino abbastanza marijuana da poter ridurre ulteriormente il mio consumo di farmaci. Gli attacchi di grande male erano svaniti e gli attacchi di piccolo male ammontavano a meno di dieci all'anno. Sfortunatamente, quell'estate trovai la polizia che guardava in cagnesco il mio raccolto di erba, e così fui arrestato per il possesso di quello che loro chiamavano un grosso quantitativo. Continuai a coltivare le mie piante mentre aspettavo l'esito di un lungo contenzioso legale che si concluse nel 1985 con una condanna a due mesi di prigione. Mi diedero più compresse, ma in carcere gli attacchi epilettici mi vennero ancora. Mi fu prescritto un altro farmaco, il Tranxene [clorazepato, un farmaco che combatte gli stati ansiosi e rilassa i muscoli in modo simile al Valium], ma lo usai pochissimo perché mi accorsi che i suoi effetti erano simili a quelli del Valium.

Quando mi rilasciarono ricominciai a fare uso di marijuana per alleviare sia i blackout, sia gli effetti collaterali delle pillole. La nostra vita familiare diventò piacevole mentre gli anni scivolavano via dolcemente. Un raccolto medio di quaranta piante di canapa offerte dalla natura riduceva il mio fabbisogno di prodotti chimici fatti dall'uomo a una dose di Dilantin e una di Mysoline al giorno. Ormai gli attacchi di piccolo male capitavano cinque volte all'anno o meno, per lo più in inverno, quando finivo la marijuana. La vita diventò molto più armoniosa.

Nel 1988 ci fu siccità, la mia marijuana crebbe a stento e così fui costretto a comprarne per strada solo quattro mesi dopo il raccolto. Il prezzo corrente era aumentato così tanto che potevo a malapena affrontare la spesa. Gli amici mi aiutarono fino alla successiva stagione di raccolto, ma avevo ancora molti disturbi quando la marijuana veniva a mancare. Deciso a non farmi trovare a corto di marijuana per una seconda volta, nel 1989 ne piantai il triplo, cimando ogni pianta in modo che assomigliasse a una pianta di pomodoro, bassa e cespugliosa.

Alla fine di luglio ne raccolsi un paio e le lasciai nel nostro vecchio granaio perché si essiccassero. Il resto della storia è una tragedia: cinque agenti di polizia che bussano alla mia porta quando non sono ancora le sei del mattino e che tengono mia moglie, mio figlio e me sotto tiro. Mio figlio perse il suo impiego perché quella mattina non gli fu consentito di andare al lavoro. Inutile dirlo, tutto la marijuana fu sequestrata. Dopo aver pagato una cauzione fui rilasciato, solo per rivivere quell'esperienza nei miei sogni, ogni notte per settimane. Da quel giorno la mia vita è stata un esperimento che ha fugato tutti i miei dubbi sulle proprietà medicinali della marijuana. A causa dell'impossibilità di procurarmene ho subito quasi duecento attacchi di epilessia, tra i quali parecchi di grande male.

Il 22 giugno 1991, quello che avevo temuto accadde. Una telefonata dal mio avvocato di Minneapolis mi informò che dovevo presentarmi alla prigione della Contea di Roseau per una condanna a sei mesi. La Corte Suprema del Minnesota aveva respinto il mio ricorso in appello. Ora sono seduto in una cella, senza che siano stati presi provvedimenti per la mia sicurezza personale. La cella è isolata. Non ho modo di comunicare con l'ufficio del secondino e ai due detenuti con i quali divido la cella non è stato detto cosa fare nel caso di un mio attacco epilettico.

Fa uno strano effetto ricordare i primi anni '70, quando mi era stato detto di rivolgermi a un consulente matrimoniale che mi aveva consigliato di usare la marijuana anziché i farmaci. Ora la legge mi ha allontanato da mia moglie per aver dato ascolto a quel suggerimento, che aveva centrato l'obiettivo di contenere i miei disturbi e di riportare l'amore fra noi. Ora la legge mi obbliga ancora una volta a prendere farmaci. Temo che i numerosi, terribili effetti collaterali torneranno e mi faranno ridiventare quella crea tura da incubo che ha causato tanta angoscia a mia moglie e alla mia famiglia. Non posso aspettarmi che mia moglie
accetti una situazione del genere ancora una volta, dopo che avevamo trovato una soluzione scoprendo la creazione divina di un'erba così meravigliosa e benefica. Apparentemente la mia unica alternativa è non usare affatto farmaci o droghe, quando sarò rilasciato. Ciò causerà molte tribolazioni inutili non solo a me ma anche a mia moglie, che dovrà convivere con i miei disturbi e con gli stati depressivi che ne conseguono. Posso solo pregare che il nostro governo riconosca gli impieghi edici della marijuana prima della mia scarcerazione. Altrimenti, non posso aspettarmi che Connie mi accetti a casa.

 

Sclerosi multipla

    La sclerosi multipla (SM) è una malattia in cui porzioni di mielina (la guaina protettiva delle fibre nervose) del cervello e del midollo spinale vengono distrutte, così che il normale funzionamento delle fibre nervose viene interrotto. Sembra che si tratti di una reazione autoimmunitaria, nell'ambito della quale il sistema di difesa dell'organismo tratta la mielina come una sostanza estranea. Di solito i sintomi compaiono all'inizio dell'età adulta e da quel momento vanno e vengono imprevedibilmente per anni. Gli attacchi durano da settimane a mesi e la temporanea guarigione è spesso incompleta, con un deterioramento progressivo e con il risultato finale di una grave infermità. Ferite, infezioni o sforzi possono provocare ricadute. Il periodo medio di sopravvivenza è di trent'anni, ma alcuni pazienti subiscono un deterioramento molto più rapido, mentre altri si stabilizzano dopo pochi attacchi.

    I sintomi variano a seconda della parte del sistema nervoso centrale affetta da demielinizzazione. Siccome il cervello e la spina dorsale controllano tutto il corpo, gli effetti possono manifestarsi pressoché in qualsiasi punto di esso. Alcuni sinto mi comuni sono rappresentati da formicolio, torpore, indebolimento della vista, difficoltà nel parlare, spasmi muscolari dolorosi, perdita di coordinazione e di equilibrio (atassia), esaurimento, debolezza o paralisi, tremori, incontinenza urinaria, infezioni delle vie urinarie, stitichezza, ulcerazioni della pelle e grave depressione.

    Non si conosce nessuna cura efficace. I corticosteroidi, in particolare l'ormone adrenocorticotropo (ACTH) e il prednisone alleviano in una certa misura i sintomi acuti, ma inducono anche un aumento di peso e alle volte causano confusione mentale. I farmaci più comunemente usati per curare gli spasmi muscolari sono il diazepam (Valium@), il baclofene (Lioresal@) e il dantrolene (Dalltrium@). Il diazepam e altri farmaci del gruppo della benziazepina, che devono essere somministrati in dosi massicce, causano sonnolenza e possono indurre dipendenza. Sia il dantrolene, sia il baclofene hanno scarsa utilità medica. Il baclofene è un sedativo che talora causa capogiri, debolezza o stati confusionali. Il dantrolene è una risorsa estrema a causa dei danni potenzialmente letali che arreca al fegato; anch'esso ha svariati altri effetti collaterali, tra i quali sonnolenza, capogiri, debolezza, malessere generale, crampi addominali, diarrea, disturbi alle funzioni visive e del linguaggio, colpi apoplettici, mal di testa, impotenza, tachicardia, fluttuazioni della pressione sanguigna, depressione clinica, mialgia, senso di soffocamento e confusione mentale. Comprensibilmente, molti pazienti non riescono a sopportare gli effetti collaterali dei farmaci convenzionali nell'immediato o si preoccupano per gli effetti a lungo termine.

2.4.1 1a Testimonianza - Greg Paufler

    L'uso della marijuana nella cura della sclerosi multipla è descritto in questa testimonianza di Greg Paufler, un uomo di trentasette anni che abita sulle colline alla periferia di New York:

Nel 1973 avvertii una sensazione di torpore al pollice sinistro, che cominciò a diffondersi al resto della mano. Parlai di questi sintomi a un dottore, che mi diagnosticò
una nevrite, disse che il mio problema si sarebbe risolto in pochi giorni e mi prescrisse un supplemento di vitamine. Nel giro di una settimana il torpore era passato, ma cominciavo ad avere difficoltà a mantenere l'equilibrio e alle volte avevo problemi a camminare.

All'inizio della primavera del 1974, la mia salute era molto peggiorata, nonostante continuassi a prendere le vitamine.
Il mio frequente inciampare e cadere divenne motivo di ilarità per i colleghi della compagnia di assicurazioni dove lavoravo come venditore. Altri impiegati erano soliti chiedermi ridendo se avevo bevuto. Il mio capoufficio si lamentava del fatto che visitassi meno clienti e che compilassi meno ordini. Gli dissi che il torpore che avevo alle gambe mi rendeva difficile guidare e che trovavo sempre più faticoso scrivere (non gli confessai che non ero quasi più in grado di scrivere). Lui non sembrò soddisfatto di queste spiegazioni. Poco tempo dopo un collega, mio amico intimo, mi convinse a rivolgermi a un altro medico. Entrando nella sala d'attesa del dottore caddi lungo e disteso a faccia in giù, ferendo mi un ginocchio. L'infermiera mi aiutò a entrare nello studio. Cercai di stare sulle mie gambe e caddi ancora. Spiegai al dottore che avevo acuti spasmi e torpore alle gambe, e che non riuscivo a capire dove fossero i miei piedi se non guardando li. Il dottore, un medico generico, insistette per un ricovero ospedaliero immediato, nonostante le mie proteste; disse che potevo avere un tumore al cervello.

Rimasi in ospedale per sette giorni di osservazioni e analisi mediche, condotte da una squadra di medici capeggiata da un neurologo. Durante quel periodo persi ogni controllo sulle mie membra e provai spasmi gravi e dolorosi. Le braccia e le gambe divennero insensibili. Non ero più in grado di camminare. Mi fecero delle iniezioni endovenose di ACTH, un potènte steroide che non mi fece nulla; mi teneva soltanto sveglio e faceva aumentare enormemente il mio appetito. Il giorno in cui fui dimesso, il neurologo soprintendente mi disse che soffrivo di sclerosi multipla.

Mi disse che non esistevano cure, ma che farmaci come l'ACTH potevano rallentarne il corso della malattia. Poi mi disse di andare a casa e prendermi un bel riposo. Mi fissò un appuntamento perché ci vedessimo nel suo studio: appuntamento che, di fatto, non riuscii a rispettare perché ero troppo debole per muovermi. Allora il dottore fece venire a casa nostra un 'infermiera perché mostrasse a mia moglie come farmi le iniezioni di ACTH.

Poco tempo dopo che ero tornato a casa, mentre ero costretto a letto, alcuni amici vennero a farmi visita e fumammo qualche sigaretta di marijuana. Dopo mi sentii meglio, ma attribuii quell'effetto al leggero stato di euforia. Anche i miei spasmi divennero meno acuti, ma di questo riconobbi il merito alle quotidiane iniezioni di ACTH. Malgrado qualche miglioramento, fui costretto a rimanere a letto e presto cominciai a risentire degli effetti di una terapia continuativa a base di forti dosi di steroidi. Ritenendo i liquidi mi gonfiai; misi su quarantacinque chili in sei settimane in quanto l'ACTH mi rendeva voracemente affamato. Passavo intere notti insonni. Cominciai a perdere concentrazione. Il mio atteggiamento mentale era tetro e diventai depresso. Dopo tre mesi di terapia intensiva le mie condizioni erano a malapena migliorate. Riuscivo a camminare soltanto se venivo sorretto da mia moglie e da un bastone o da un girello.

Il dottore mi disse che dovevo prendere l'ACTH ancora per tre mesi, ma naturalmente era preoccupato per gli effetti collaterali. Mi avvertì del pericolo di un improvviso attacco cardiaco o di un'insufficienza respiratoria. Per ridurre la ritenzione dei liquidi mi prescrisse un potente diuretico riconoscendo tuttavia che poteva causare calcoli renali o persino la morte per insufficienza renale. La terapia con gli steroidi continuava a essere inefficace, e gli effetti collaterali
peggioravano. Il mio peso, che era di settantasei chili prima che cominciassi a prendere l'ACTH, era salito a centotrentacinque chili nel giro di alcune settimane dall'inizio del secondo turno della terapia con ACTH. La respirazione diventò difficoltosa poiché i fluidi premevano sui polmoni. Le gambe e i piedi erano gonfi. Nessuno dei miei vestiti mi andava più bene. Sviluppai una grave, intensa depressione caratterizzata da improvvisi sbalzi di umore. Ero solito turbarmi profondamente senza motivo; improvvisamente mi mettevo a piangere o avevo pensieri violenti. Dopo sei mesi sentivo di aver perso ogni controllo sulla mia vita. In casi eccezionali riuscivo a trascinarmi per la mia stanza da letto appoggiandomi alla parete e usando mia moglie e un girello come sostegni. Anche così, non ero in grado di mantenere l'equilibrio o di reggere il mio peso e spesso cadevo. Per la maggior parte del tempo non potevo far altro che rimanere a letto. Gli spasmi continuavano e le mie membra erano incontrollabili.

Alla fine del sesto mese il dottore mi visitò ancora e io gli dissi che le mie condizioni stavano peggiorando. Lui mi disse che la mia SM era molto grave ed era progredita molto velocemente; solo l'ACTH poteva aiutarmi. Me lo prescrisse per altri tre mesi e aumentò la dose del 50%. Mi prescrisse anche una pillola per dormire e del Valium per ridurre i miei spasmi. Inizialmente fui d'accordo nel dare all'ACTH un'altra possibilità, ma cambiai idea un paio di giorni dopo. Non ce la facevo più a prenderne ancora. Se l'alternativa era la SM o la sua cura, preferivo la SM. Quando smisi di prendere l'ACTH, la vista mi si offuscò ed ebbi episodi di visione "a tunnel". Non riuscivo a concentrarmi e persi la capacità di leggere; la SM mi stava attaccando in un modo completamente diverso. Il mio medico si allarmò molto e immediatamente mi prescrisse il prednisone, un potente steroide da assumere per via orale. Anche quella volta ottenni modesti benefici terapeutici e ci furono inconvenienti perfino più seri; in meno di un mese misi su più di trenta chili. Ma il peggio doveva ancora venire. Sebbene ancora non lo sapessi, gli steroidi stavano sottraendo al mio corpo quell'elemento di fondamentale importanza che è il potassio.

Un giorno, mentre ero seduto in soggiorno, mi resi conto che non riuscivo a parlare. Ero semicatatonico. Mia figlia venne da me e mi parlò. lo la sentivo ma non riuscivo a vederla e non potevo rispondere, se non piangendo. Mia moglie e mia figlia mi portarono immediatamente al pronto Soccorso di un ospedale. Non ho memoria del viaggio e non sapevo dove mi trovavo quando arrivammo. Ricordo di essere stato messo su di una sedia da solo, poi attorniato da quasi una dozzina di medici e infermieri che parlavano concitatamente. Mi fecero delle domande che non sono sicuro di aver sentito. Quando cercavo di rispondere non riuscivo a parlare. Il referto medico riporta che quel giorno fui in punto di morte; il mio corpo era quasi completamente privo di potassio. Mi furono somministrate iniezioni massicce e un supplemento di potassio per via orale.

Quell'esperienza mi rese profondamente disincantato rispetto a farmaci, medici e ospedali. Smisi di prendere qualunque genere di steroide, anche se continuai a usare il Valium e altri farmaci che influenzano gli stati d'animo. Incapace di camminare, leggere e stare con la mia famiglia, cominciai a fumare marijuana per alleviare la noia; fumavo dai quattro ai sei spinelli al giorno. Una sera alcuni vecchi amici vennero a trovarmi e fumammo diversi spinelli. Quando si alzarono per andarsene io mi alzai a mia volta per salutarli. Tutti coloro che si trovavano nella stanza smisero improvvisamente di parlare e mi fissarono. Mi resi conto che mi ero alzato in piedi spontaneamente e senza bisogno di aiuto, come se fosse stata una cosa perfettamente naturale.

Ero sbalordito. Mia moglie e i nostri amici erano sbalorditi.
Riuscii a fare qualche passo senza essere aiutato prima che le mie gambe, deboli per l'atrofia, cedessero. Avevo camminato! Mi chiesi se poteva essere stata la marijuana e lo chiesi al mio dottore, che respinse l'idea e ribadì che la marijuana non aveva effetti benefici sulla SM. Anche mia moglie era scettica, ma io continuai a fare esperimenti.

Presto scoprii che quando non fumavo marijuana i miei spasmi erano più frequenti e intensi. Quando la fumavo le mie condizioni si stabilizzavano, per poi migliorare drasticamente. Potevo camminare senza essere aiutato e la mia vista era meno offuscata. Ma il mio medico e mia moglie rimanevano scettici. In quello che, oggi me ne rendo conto, fu uno stupido tentativo di dimostrare agli altri ciò di cui io ero ormai sicuro, decisi di smettere di fumare marijuana per sei mesi.

Non appena smisi cominciai a perdere tutto quello che avevo guadagnato. Mi vennero forti spasmi ai muscoli dorsali. Dopo quattro mesi avevo perso il controllo su mani, braccia, piedi e gambe. La mia dose di Valium salì a 120 mg al giorno, e cominciai a rendermi conto che mi ero assuefatto, ne ero diventato dipendente. Smisi di prendere il Valium e andai incontro a una grave crisi per l'astinenza da questo farmaco "sicuro" e "accettato dai medici". Persi ogni interesse per la vita; soffrivo di insonnia, ero inquieto e costantemente agitato; sprofondai in una cupa depressione; i miei sbalzi di umore divennero ancora più volubili e accentuati; i miei spasmi diventarono più intensamente dolorosi.

Quando non riuscii più a stare in posizione eretta, e a maggior ragione a camminare, ripresi a fumare marijuana quotidianamente. Nel giro di poche settimane ero di nuovo in grado di camminare senza bisogno di aiuto. Poco dopo ero in grado di percorrere mezzo isolato da solo, anche se con un certo sforzo. Ritrovai le forze facendo esercizio e la vita tornò alla normalità. Dopo sei mesi le mie condizioni erano enormemente migliorate. Gli spasmi erano svaniti e avevo riguadagnato la capacità di leggere, scrivere e camminare. Una sera uscii con i miei bambini e, per la prima volta in due anni, fui in grado di mostrar loro come si tira un pallone da calcio. Riuscivo a calciare un pallone! Mi sentivo rinato.

Eppure non ero ancora convinto che la marijuana fosse responsabile di tutto questo. La marijuana era qualcosa di cui facevo uso per divertimento, una droga di gruppo. Non credevo che una sostanza così semplice e innocua potesse provocare un miglioramento tanto eclatante. Era semplicissimo ignorare ciò che era ovvio, dato che il mio medico e mia moglie continuavano a ridere di questa idea. Per dimostrare a me stesso che in realtà non era la marijuana a farmi bene, decisi di smettere nuovamente di fumare.
Dapprima gradualmente e poi più rapidamente, gli spasmi muscolari ritornarono. Nel giro di poche settimane avevo bisogno di un bastone, poi di un girello. Alla fine fui costretto a letto un'altra volta. Dopo quattro mesi decisi di ricominciare a fumare. Le mie condizioni si stabilizzarono immediatamente, poi cominciarono a migliorare. Ero felice ma al contempo molto perplesso. Fumavo marijuana fino a che le mie condizioni miglioravano, poi smettevo.
Per ragioni che non riesco bene a spiegare, trovavo difficile credere che la marijuana fosse veramente la causa di questi radicali cambiamenti nel mio stato di salute.

Nel 1980 mio fratello mi mostrò un articolo di giornale su un malato di SM di Washington chiamato Sam Diana, che aveva convinto un tribunale legislativo che il suo uso di marijuana era una "necessità medica". Fui sbalordito nell'apprendere che non ero l'unico malato di SM che traeva sollievo dalla marijuana. Era ancora più sorprendente che medici, ricercatori e altri malati di SM avessero sostenuto la rivendicazione del Sig. Diana e che il tribunale avesse emesso una sentenza in suo favore. Non avvertii più l'esigenza di dimostrare a me stesso o a chiunque altro che la marijuana fosse benefica; cominciai ad ascoltare il mio corpo e ripresi a fumarla regolarmente. Negli ultimi sette anni la mia SM è stata contenuta adeguatamente, tranne quando mi è capitato di finire la marijuana e di non riuscire a trovarne (o di non potermene permettere) dell'altra.

Nella maggior parte dei casi, i malati di SM diventano progressivamente più deboli e menomati; io sono migliorato. Posso stare in equilibrio su una gamba sola con gli occhi chiusi. Cammino senza bisogno di nessun aiuto Riesco perfino a correre! Tutto questo potrà sembrare insignificante a qualcuno che non sia mai stato costretto a letto, menomato e incapace di muoversi o di parlare, ma per me è un miracolo. Oltre a tutto ciò, la marijuana mi permette di mantenere un'erezione abbastanza a lungo da portare a termine l'atto sessuale. Non ho mai sviluppato dipendenza fisica dalla marijuana e non ho sintomi da astinenza quando smetto di fumare. Paragonata agli steroidi, ai tranquillanti e ai sedativi comunemente prescritti ai malati di sclerosi multipla, la marijuana è notevolmente innocua e benefica.

Il mio medico è sbalordito dal miglioramento delle mie condizioni. In una scala da 1 a 100, lui valuta la mia salute fisica e mentale a 95. Non insiste più sul fatto che la marijuana sia inutile. Al termine del nostro ultimo incontro mi ha guardato ne gli occhi e mi ha detto di continuare a fare quello che sto facendo, qualunque cosa sia, perché funziona. Non mi piace violare la legge. Non mi fa piacere pagare somme esorbitanti a spacciatori di droga che mi vendono un prodotto deregolamentato e non soggetto a controlli. Ma vi assicuro che mi piace camminare, parlare, leggere, scrivere e vederci. Oggi il mio medico e io stiamo valutando la possibilità di ottenere un'autorizzazione all'uso legale di marijuana attraverso un programma "Compassionate IND" della FDA, nonostante la procedura prevista sia incredibilmente lenta e complicata.

2.4.2 2a Testimonianza - Letteratura Medica D.B. Clifford, Annals of Neurology

Oggi, la maggior parte dei malati di SM negli Stati Uniti viene a sapere degli effetti benefici della marijuana grazie ai gruppi di sostegno o al passaparola. Molti aneddoti testimoniano la sua capacità di lenire i tremori e la perdita di coordinazione muscolare. Spesso i neurologi ne vengono a conoscenza dai loro pazienti. A tutt'oggi la letteratura medica comprende soltanto pochi casi, come il seguente, riportato nel 1983:

Un uomo di trent'anni soffriva di SM da dieci anni, con fasi alterne di esacerbazione e remissione, che avevano causato paraparesi, diplopia, atassia, torpore e pareste sia in tutti gli arti, ritenzione dell'urina, incontinenza e impotenza. Le cure mediche avevano comportato l'uso di ACTH, corticosteroidi e azatioprina. Un tremore disabilitante era stato un problema costante per più di un anno. Il tremore più intenso era localizzato nel capo e nel collo e arrecava particolari problemi alla nutrizione, poiché aumentava di intensità quando ci si sforzava di introdurre del cibo in bocca. Il tremore diminuiva, ma non cessava, quando il paziente stava supino e la sua testa veniva sorretta; scompariva con il sonno. Le cure con diazepam, alcol, propranololo e fisostigmina furono tutte senza successo.

La marijuana era stata usata per contenere il tremore, con somministrazione quasi quotidiana per almeno un anno intero prima di questo studio, senza evidenze di una diminuzione degli effetti nel tempo. La dose iniziale di 5 mg di THC aveva come risultato una diminuzione del tremore al capo e al collo nel giro di 30+60 minuti e la durata dell'effetto era di circa sei ore. La dose procurava al paziente uno stato di ebbrezza assai blando, che non sembrava indebolire la capacità di discernimento. La leggera atassia delle mani osservata nelle prove dito-naso era pressoché immutata, ma la capacità del paziente di scrivere ne era notevolmente accresciuta (si veda la figura 1) e il suo uso delle posate risultava nettamente migliorato. Quando le pillole venivano sostituite con dei placebo non si registravano miglioramenti, nonostante la sensazione di euforia. Prove ripetute con la sostanza attiva in due casi confermarono ancora questo tipo di reazione.

Figura 1. Prove calligrafiche e rappresentazione grafica dei movimenti della testa,
registrate prima e novanta minuti dopo l'ingerimento di 5mg di tetraidrocannabinolo.
Riprodotto da D.B. Clifford, "Tetrahydrocannabinol for Tremor in Multiple
Sclerosis", Annals of Neurology 13 (1983): 669-671.

2.4.3 3a Testimonianza - Letteratura Medica H.M. Meinck, P.W. Schijnle e B. Conrad, Journal of Neurology

    Un altro rapporto recente è stato pubblicato da alcuni neurologi dell'Università di Gottingen in Germania, che avevano notato che uno dei loro pazienti, un uomo di trent' anni affetto da sclerosi multipla, faceva uso di sigarette di marijuana per curare i suoi handicap motori e sessuali. Essi lo misero alla prova con analisi cliniche, analisi elettromiografiche dei riflessi delle gambe e registrazioni elettromagnetiche dei suoi tremori alle mani (figura 2). La loro conclusione fu che la cannabis meritava una maggiore considerazione come cura sia degli spasmi muscolari, sia dell'atassia (perdita di coordinazione).

Figura 2. Registrazione elettromagnetica del tremore da contrazione muscolare che interessa le dita e la mano in un e,esercizio di indicazione condotto alla mattina, prima di aver fumato una sigaretta di marijuana, e alla sera, dopo averla fumata.
Riprodotto da H.M. Meinck, P.W. Schijnle e B. Conrad, "Effect ofCannabinoids on Spasticity and Ataxia in Multiple Sclerosis", Journal ofNeurology 236 (1989): 120-122

2.4.4 4a Testimonianza - Debbie Talshir

Debbi Talshir è una donna divorziata di trentanove anni che per quattordici anni ha curato la sua sclerosi multipla grazie alla
marijuana. Eccola raccontare la sua storia:

La sclerosi multipla mi fu diagnosticata nel 1977. Uno dei suoi primi sintomi fu la nevrite ottica. Il nervo ottico collega il cervello all'occhio, e la nevrite ottica è una degenerazione di quel collegamento. Può causare una parziale cecità. Dapprima una grande nuvola comparve nel mio campo visivo e cominciai a non vederci più bene; poi la nuvola nell'occhio destro diventò nera.
Per la nevrite mi diedero l'ACTH. Misi su circa 45 chili perché ritenevo l'acqua e il mio appetito era aumentato in maniera impressionante (morivo sempre di fame). l'ACTH causava anche sbalzi di umore che mi resero insopportabile a colleghi e amici. Persino io ne ero spaventata. Alla fine andarono calando, solo per ritornare un anno e mezzo dopo, assieme alla nevrite ottica. Stavolta un collega mi consigliò la marijuana e provai a fumare un paio di sigarette al giorno. Non guadagnai peso né ebbi sbalzi di umore e la nevrite ottica si placò nel giro di tre settimane.
Poiché la SM progrediva, mi fu prescritto il Lioresal (baclofene) per gli spasmi muscolari. Sì, causò effetti collaterali: sonnolenza e letargia generale. Ho scoperto che la marijuana arresta gli spasmi e rilassa i muscoli, ma non tanto da metterli fuori uso. Il mio neurologo al Massachusetts GeneraI Hospital, dove mi è stata fatta la prima delle diagnosi, e il neurologo presso il quale sono attualmente in cura qui a Capo Cod sanno che faccio uso di marijuana per contenere quei sintomi, e non solo quelli. È un dato che risulta dalla mia cartella clinica, eppure loro non intendono
[non possono] rilasciarmi prescrizioni legali di marijuana: molto scoraggiante, ma comprensibile nell'attuale clima di guerra alla droga. Dal 1980 sono costretta sulla sedia a rotelle. Non riesco a mangiare se prima non fumo un po' di marijuana; rilassa i muscoli sfinterici dello stomaco e dell'esofago. La mia perdita di appetito è profonda, ma se fumo una sigaretta di marijuana sono rilassata e riesco a tenere giù il cibo. Spesso ho difficoltà a respirare. Non vedo perché fumare dovrebbe rilassare i meccanismi respiratori, eppure la marijuana ci riesce.
Per me la marijuana è essenziale. Non tremo più, posso mangiare, posso respirare. Ha un effetto molto benefico perfino sulla mia vescica neurogena - un problema neurologico per il quale una persona perde il controllo sui muscoli sfinterici della vescica. Se c'è anche una sola goccia di urina nella vescica, i muscoli sfinterici cominciano ad avere gli spasmi e si hanno perdite di urina. La marijuana non risolve il problema, ma aiuta. Generalmente fumo cinque sigarette di marijuana al giorno.
Sono molto arrabbiata per il fatto di trovarmi ad avere a che fare con persone con le quali normalmente non socializzerei, come gli spacciatori di droga. Devo anche risparmiare delle belle somme se voglio procurarmi la marijuana, che sta diventando sempre più difficile da trovare. Mi ritrovo a correre di qua e di là, a fare telefonate e a dedicare la maggior parte del mio tempo alla ricerca della marijuana.

2.4.5 5a Testimonianza - Testimonianza Anonima di uno Psichiatra

Il caso di una paziente la cui perdita di coordinazione muscolare si era rivelata un sintomo precoce della sclerosi multipla ci è stato sottoposto dal suo psichiatra. Per diversi anni, questi aveva cercato di indurla ad abbandonare l'abitudine di fumare la modica quantità di marijuana di cui lei si serviva, all'ora di andare a letto, per scongiurare la sua insonnia cronica. Dopo averla convinta a smettere, egli venne da noi a chiedere consigli quando si rese conto che la cannabis aveva sempre tenuto nascosti i sintomi della sclerosi multipla, che non le era mai stata diagnosticata in precedenza; l'atassia si presentò quando lei smise di fumare e scomparve quando lei riprese. Lo psichiatra era preoccupato perché pensava che la marijuana fosse altamente tossica; gli assicurammo che non lo era, e questo lo sollevò dai suoi timori. La sua paziente racconta la sua storia:

Finalmente ero arrivata dove volevo. Alle carenze della mia istruzione avevo sopperito con lunghe ore di duro lavoro e con l'aiuto del capo che tutte le giovani donne d'affari sognano. A vendo cominciato a ventun anni come l'impiegata peggio retribuita in una piccola società della mia città, mi ritrovavo ora, a quarantacinque anni, a essere uno degli amministratori finanziari di un 'impresa di elettronica con un fatturato da miliardi di dollari.

Il lavoro era duro, frenetico e impegnativo, ma molto soddisfacente. Scendere di giri alla fine della giornata era difficile, e trovavo che fumare una piccolissima quantità di marijuana all'ora di andare a letto mi permettesse di rilassarmi e prender sonno. Nel 1986 erano ormai circa quindici anni che fumavo e non mi preoccupavo della possibilità che una quantità così modesta mi facesse male. In merito a questo, dal 1986 al 1989 non ho fatto che combattere una pacifica battaglia con il mio psichiatra. Sentivo che la mia esperienza era del tutto positiva e che qualsiasi effetto negativo avrebbe già dovuto manifestarsi, nell'arco di quindici anni. Il mio dottore, comunque, pensava che non avrei dovuto fare uso di una droga non controllata e, tra parentesi, illegale.

Nell'ottobre del 1989 acconsentii a sostituire la marijuana con il Desyrel [trazodone, un antidepressivo con proprietà sedative]. Anche se non era altrettanto efficace e al mattino mi risvegliavo con il cerchio alla testa, la sostituzione sembrò accettabile per qualche giorno. La sesta mattina, tuttavia, mi resi conto che avevo perso gran parte della mia capacità di stare in equilibrio. Riuscivo a malapena a mettermi in posizione eretta o a camminare senza sostegno. Mentre stavo guidando, diretta allo studio del mio dottore, scoprii anche che quello che chiamo "il mio pilota automatico" era stato disattivato. Le attività che normalmente svolgevo in modo inconscio, come guidare, ora richiedevano un impegno consapevole. Dovetti perfino riimparare da quale parte girare la chiave per aprire la macchina. Inoltre mi sentivo più stanca di quanto non fossi mai stata prima.

Nelle sei settimane seguenti non presi nessun tipo di medicinale, nemmeno l'aspirina, mentre i dottori mi sottoponevano a esami per ogni malattia nota alla medicina occidentale. Durante questo periodo le mie condizioni non migliorarono. Dopo le analisi ricevetti la notizia devastante che soffrivo di sclerosi multipla, una malattia nervosa incurabile contro la quale c'erano poche possibilità di impostare una terapia sensata. Sebbene mi fosse stato detto che i sintomi della SM vanno e vengono senza preavviso, l'evidente coincidenza mi intrigava, e con esitazione sollevai la questione della marijuana con un neurologo. Ricevetti una rabbiosa lavata di capo e un invito a ritornare solo quando fossi stata in grado di superare un esame antidroga.

A quel punto non potevo lasciar perdere. La logica imponeva che almeno provassi a fumare marijuana. Il mio dottore [lo psichiatra] era ancora contrario, ma in realtà manifestò un certo interesse per ciò che sarebbe potuto succedere, così decisi di cominciare. Circa una settimana dopo notai un miglioramento, e poche settimane più tardi ero in grado di tornare al lavoro alI '85% circa del mio normale rendimento.
Il miglioramento poteva anche essere stato spontaneo -la SM è molto volubile -ma io non ero in vena di correre rischi e continuai a fumare fino alla primavera del 1990, quando rimasi senza marijuana e non riuscii a procurarmene dell'altra. Nel giro di una settimana tutti i miei disturbi erano nuovamente gravi.

I miei medici pensavano ancora che fosse una coincidenza, ma io non la pensavo allo stesso modo. Cominciai una ricerca a scala nazionale per potermi rifornire di marijuana e per trovare un neurologo che almeno ascoltasse la mia storia a mente aperta. Trovai la marijuana, ma non il neurologo. Siccome è contro la legge condurre esperimenti che prevedono l'uso di marijuana, non ci sono prove scientifiche delle sue proprietà terapeutiche; e, siccome non ci sono dimostrazioni scientifiche delle sue proprietà terapeutiche, il governo non autorizzerà la sperimentazione.

Quando alla fine ricevetti un po' di marijuana da un amico e ripresi a fumare, ritornai soltanto al 60% della mia normale efficienza, sicché potevo lavorare soltanto a casa. In seguito, sempre nel 1990, si ripeté la stessa sequenza di eventi, e stavolta ritornai a meno del 50% del mio normale rendimento. Non ero più in grado di lavorare per più di mezz' ora alla volta. All'inizio del 1991 mi hanno messa a riposo riconoscendomi disabile al 100%.
Ho ancora una piccola scorta di marijuana, e ho paura di quello che succederà quando l'avrò finita. Nel frattempo sto cercando un neurologo che faccia richiesta per me di un "Compassionate IND", e sto pregando perché le leggi vengano cambiate.

    Da questo caso e da altri emergono allusioni al fatto che la cannabis non solo attenui i sintomi della sclerosi multipla spasmi muscolari, tremori, perdita di coordinazione muscolare (atassia) e incontinenza urinaria, insonnia -ma ritardi anche la progressione della malattia. La sclerosi multipla è un disturbo causato da un sistema immunitario sovreccitato; le cure convenzionali prevedono l'uso di steroidi che sopprimono le funzioni immunitarie. Sebbene la marijuana apparentemente non accresca la suscettibilità alle malattie infettive, ci sono evidenze del fatto che il THC abbia un effetto immunodepressivo. Tenendo in mente questo dato, un gruppo di ricercatori ha messo alla prova la propria capacità di scongiurare l'encefalomielite allergica sperimentale (EAE), una malattia che è stata usata come modello di laboratorio della sclerosi multipla sui porcellini d'India. Quando gli animali venivano esposti alla malattia e poi curati con un placebo, tutti sviluppavano gravi forme di EAE e più del 98% moriva. Gli animali curati con il THC avevano sintomi molto blandi o assenti, e più del 95% sopravviveva. A un attento esame, il tessuto cerebrale degli animali curati con il THC si era rivelato molto meno infiammato.

 

2.5 Paraplegia e quadriplegia

    La paraplegia è una forma di indebolimento o di paralisi dei muscoli nella metà inferiore del corpo, provocata da affezioni o lesioni nella parte mediana o inferiore del midollo spinale. Se la lesione è localizzata vicino al collo, anche le braccia ne sono affette quanto le gambe, e si manifesta la quadriplegia. Paraplegia e quadriplegia sono spesso accompagnate da dolori e spasmi muscolari; le cure convenzionali sono a base di oppiacei per i dolori, di baclofene e diazepam per gli spasmi muscolari. Molti paraplegici e quadriplegici hanno ormai scoperto che la cannabis non solo allevia i loro dolori in modo meno pericoloso di quanto non facciano gli oppiacei, ma elimina con efficacia i loro tremori e tic muscolari.

2.5.1 La seguente testimonianza di Chris Woiderski è, in questo senso, eloquente:

Nel giugno del 1989, avevo ventisette anni ed erano cinque anni e mezzo che lavoravo, con successo, come tecnico del settore industriale: vendevo apparecchiature pneumatiche e per l'automazione a fabbriche e industrie manifatturiere. Per diversi anni, a fasi alterne, avevo fatto uso di mari juana per distendermi. Dopo una lunga, faticosa giornata ero solito rincasare, cenare con la mia ragazza, fumare marijuana e rilassarmi. Abitualmente passavo la serata nel mio studio di casa, e trovavo che fumare marijuana non solo mi distendeva ma mi aiutava anche a concentrarmi sul lavoro.

Alle volte pensavo che le cose non avrebbero potuto andarmi meglio. Avevo un buon lavoro, guadagnavo un bel po' di soldi e vivevo con la donna che avrei sposato di lì a pochi mesi. Poi, nel giugno del 1989, riportai accidentalmente una ferita da arma da fuoco. Fui portato di corsa inospedale e operato d'urgenza. Mi svegliai la mattina seguente in uno stato semi-confusionale, sentendo il dolore causato dai tubicini che avevo nel torace e in gola. Dopo dieci giorni passati nel reparto di terapia intensiva, un neurologo mi disse che non c'era nulla da fare per me.

Anche se il proiettile aveva mancato il midollo spinale, il trauma mi aveva lasciato paralizzato per sempre dal torace in giù. Quando alla fine mi resi conto che non sarei mai guarito, mi prese una rabbia che non mi abbandonò più.
Non ero più in grado di lavorare, perciò supplii con una magra pensione della previdenza sociale. Fortunatamente,avevo prestato servizio nella Marina e avevo i requisiti per poter ricevere medicinali e assistenza medica dalla Veterans' Administration [VA]. La mia ragazza, dopo essere rimasta per due mesi ad assistere ai miei tentativi di svolgere le attività più elementari (vestirsi, fare la doccia, entrare e uscire dal letto), non riuscì a sopportare oltre la situazione e tornò a casa dei suoi genitori.

Quattro mesi dopo l'incidente cominciai a provare quelle strane, in un certo senso dolorose, sensazioni note come spasmi muscolari. Dapprima gli spasmi interessarono solo i piedi e le gambe sotto il ginocchio, ma presto li avvertii in tutti i muscoli paralizzati. Mi diedero un farmaco chiamato baclofene, ma anche la massima dose consentita non arrecava grandi benefici. In compenso, c'era una gran quantità di effetti collaterali spiacevoli: sonnolenza, forti mal di testa, sudorazione eccessiva, insonnia, arsura della bocca. I miei spasmi diventavano sempre più violenti, e una notte mi fecero cadere dal letto. Dopo quella volta il dottore mi prescrisse 20 mg al giorno di Valium, poi altri 20 mg. Stavo diventando uno zombie farmaceutico.

C'erano molti altri pazienti paralitici all'ospedale della VA. Alcuni erano paraplegici da più di vent'anni. Mi raccontarono che avevano buttato via da anni i medicinali prescritti contro gli spasmi, e ora invece usavano la marijuana. Dicevano che funzionava meglio e che aveva di gran lunga meno effetti collaterali. La provai. Una sigaretta di marijuana mi diede immediato sollievo senza gli effetti collaterali debilitanti del Valium e del baclofene. Attività quotidiane come farsi la doccia e vestirsi diventarono notevolmente più semplici da svolgere. Da allora, ogni volta che riesco a procurarmi la marijuana, ne fumo dalle tre alle quattro sigarette al giorno. Non ho quasi più spasmi, e posso fare a meno di prendere ogni giorno dodici pillole, altamente tossiche e capaci di indurre dipendenza. Ho anche scoperto di poter raggiungere l'erezione quando fumo marijuana; l'unico modo in cui potevo riuscirci prima era iniettarmi della prostaglandina direttamente nel pene.

Circa due terzi dei pazienti paralitici che ho conosciuto usano la marijuana per lenire gli spasmi e i dolori muscolari. Le attuali norme della Drug Enforcement Administration proibiscono ai nostri medici di prescriverci la marijuana. In questi giorni il governo sta alimentando una guerra alla droga che in pratica va a colpire me e altri paralitici. Questo non è soltanto irragionevole e scorretto, ma clamorosamente immorale. Solo perché scegliamo di impiegare la sostanza più efficace e innocua per curare i nostri disturbi, il governo ci colloca ingiustamente nella stessa categoria criminale degli eroinomani.

Ho presentato alla Food and Drug Administration una richiesta di Investigational New Drug (IND). È la stessa procedura che è stata seguita da molti altri americani che si sono conquistati il diritto di fumare marijuana legalmente per scopi medici. Spero che la mia richiesta venga accolta favorevolmente. Altrimenti, continuerò a fumare marijuana in ogni caso e rischierò di essere arrestato, processato e incarcerato ingiustamente.

    Chris Woiderski riferisce che la marijuana gli permetteva di raggiungere un'erezione normale. Un rapporto tratto dalla letteratura medica conferma questo effetto.
    Un paziente di trent'anni soffriva di sclerosi multipla da sei anni ed era stato costretto sulla sedia a rotelle a causa dei suoi spasmi muscolari e atassia. Le sue erezioni duravano meno di cinque minuti, e non era in grado di eiaculare. Quando fumava marijuana, sia le sue capacità motorie, sia le sue funzioni sessuali miglioravano immediatamente. Ora può sostenere un'erezione per più di mezz'ora e la sua vita sessuale è soddisfacente.

    Ancora una volta, molti pazienti hanno scoperto, per passaparola o grazie ai gruppi di sostegno, un uso medicinale della marijuana del quale i medici non potrebbero informarli. L'odore del fumo di mari juana è, a quanto dicono, onnipresente in alcune corsie del reparto di paraplegia e quadriplegia dell'ospedale della VA. un'indagine condotta nel 1982 su quarantatré persone con lesioni al midollo spinale mise in evidenza che ventidue di loro stavano facendo uso di marijuana per curare i loro spasmi muscolari. La percentuale è probabilmente aumentata nel decennio scorso. Tuttavia, ancora oggi, pochissimo appare in merito a questo argomento nella letteratura medica. Siamo riusciti a trovare un solo studio recente. Nel 1990 tre neurologi svizzeri hanno pubblicato un resoconto sulla cura di un paziente paraplegico, soggetto a spasmi dolorosi a entrambe le gambe, che venivano curati con la continua somministrazione di baclofene e clonazepam (un farmaco ansiolitico paragonabile al Valium), oltre alla codeina per i dolori. Gli esperimenti si svolsero in due fasi. Nella prima fase il paziente prese il THC per via orale invece della codeina, quattordici volte nell'arco di tre mesi. Nella seconda fase gli furono dati o 5 mg di THC per via orale, o 50 mg di codeina per via orale, o un placebo. Le tre condizioni sperimentali furono applicate diciotto volte ciascuna nell'arco di cinque mesi. Il paziente continuò a prendere baclofene e clonazepam per tutta la durata dell'esperimento. Messi a paragone con il placebo, la codeina e il THC migliorarono la qualità del sonno ed entrambi produssero un effetto analgesico, ma solo il THC attenuò gli spasmi muscolari. Sia il THC, sia la codeina attenuarono l'incontinenza urinaria del paziente, migliorarono il suo umore e la sua capacità di concentrarsi nel lavoro intellettuale. Poiché il THC era efficace quanto la codeina sotto la maggior parte degli aspetti, e migliore nella prevenzione degli spasmi muscolari, i neurologi conclusero che avrebbe dovuto essere preso in considerazione nella cura dei paraplegici.


2.6 AIDS

    In America l'epidemia di AIDS balzò all'attenzione generale per la prima volta nel 1981, quando si scoprì che cinque omosessuali di Los Angeles avevano sviluppato un'immunodeficienza misteriosa e profonda che veniva sfruttata da infezioni opportuniste (microrganismi normalmente innocui che però diventano pericolosi quando il sistema immunitario è indebolito). Nel 1984 il virus dell'immunodeficienza umana (HIV) fu riconosciuto come la causa dell'AIDS. Fino a oggi più di 150.000 americani sono morti di questa malattia; circa 2 milioni sono infetti dal virus ("sieropositivi", N.d.T.) e forse 250000 sono malati conclamati. Sebbene la diffusione dell'AIDS tra gli omosessuali sia rallentata, la riserva di malati potenziali è così vasta che il numero dei casi sicuramente aumenterà. Donne e bambini, tanto quanto uomini sia eterosessuali sia omosessuali, oggi ne sono colpiti; la malattia si sta propagando con la massima rapidità tra i tossicodipendenti che fanno uso di siringhe, e in particolare tra quelli di colore e latino-americani delle aree urbane degradate, oltre ai partner con cui hanno rapporti sessuali.

    Il periodo di incubazione (tra il contagio e la manifestazione dei sintomi) è variabile, ma in media dura dagli otto ai dieci anni. Si ritiene che quasi tutti i soggetti contagiati diventeranno, prima o poi, malati conclamati. Non si conoscono cure. Le infezioni opportunistiche e i neoplasmi (crescite cancerose) possono essere curate con metodi convenzionali, e il virus stesso può essere attaccato con farmaci antivirali, tra i quali il più conosciuto è la zidovudina (AZT). Sfortunatamente l'AZT interrompe la produzione dei globuli rossi da parte del midollo osseo, fa diminuire il numero dei globuli bianchi e ha molti effetti dannosi sull'apparato digerente. Alle volte provoca una forte nausea che aumenta il pericolo di semi-inedia per pazienti che già soffrono di nausea e perdono peso a causa della malattia.

2.6 Ron Mason, di trentatré anni, racconta la sua storia:

    Il 19 ottobre 1983 scoprii di avere l'epatite B. Era già da un po' che notavo un'inserzione a tutta pagina sulla rivista Gay Chicago, ma evitavo di leggerla perché sembrava troppo deprimente (raffigurava un uomo in ospedale che veniva nutrito con la flebo). Quando alla fine cedetti e la lessi, scoprii che si trattava di una lettera aperta indirizzata alla comunità gay dalla Liver Foundation del New Jersey. Diceva che due terzi dei maschi gay, che lo sapessero o no, avrebbero prima o poi contratto l'epatite B (questo accadeva molto tempo prima del "sesso sicuro"). Il cinquanta per cento delle persone contagiate dal virus manifesta dei sintomi, alcuni leggeri, alcuni gravi. Il novanta per cento sviluppa anticorpi dopo un'infezione e non è più soggetto a contagio; il 1O per cento diventa portatore e il 2 per cento muore. L'inserzione diceva che era disponibile un vaccino. Così, la prima volta che ebbi occasione di andare alla clinica gay VD, chiesi all'impiegato dell'accettazione di fare un esame degli anticorpi. Venne fuori che avevo proprio quell'infezione. Era troppo tardi per la vaccinazione. In quel momento compresi perché mi sentivo nauseato, vomitavo spesso e mi stancavo facilmente. Sebbene non avessi appetito, il dottore mi disse che dovevo mangiare. Siccome avevo una malattia al fegato, naturalmente smisi di bere (non avevo mai bevuto molto comunque) e a quel punto cominciai a fumare marijuana più spesso. Mi accorsi che il mio appetito aumentava enormemente dopo che avevo fumato. Cominciai a fumare tutti i giorni e guadagnai peso con rapidità. Due anni dopo non avevo ancora Prodotto gli anticorpi e fui ufficialmente classificato come portatore di epatite.

Il 23 dicembre 1986 è un giorno che mi ricorderò per tutta la vita: il giorno in cui feci gli esami dell'HIV e scoprii di essere sieropositivo. Le grandi chiazze rosso porpora che avevo sulle gambe - lo avrei appreso in seguito - erano il risultato di emorragie provocate dall 'infezione da HIV. L'HIV era la causa anche della mia grave psoriasi. Già nell'aprile del 1984, i dottori di una clinica gay VD mi avevano affidato a quella che in seguito sarebbe diventata famosa come la clinica dell'AIDS di Chicago. Rimasi in terapia presso i medici di quella clinica per sette anni e misi su 18 chili, raggiungendo un peso normale. I medici sapevano che fumavo marijuana e non me lo proibivano, anche se raccomandavano una certa moderazione. lo non sono in grado di tollerare l'AZT a causa della mia anemia. Tutti gli altri farmaci antivirali sono dannosi per il mio fegato affetto da epatite.

Tre anni fa uno dei miei dottori mi ha detto che faccio parte di un esiguo gruppo di persone che sono state in cura presso la clinica per diversi anni e non sono morte né sono gravemente malate; i medici non sanno perché. lo attribuisco parte di questo buon risultato al fatto che fumo marijuana. Mi fa sentire come se io stessi vivendo, anche con l'AIDS, piuttosto che semplicemente esistere. Mi torna l'appetito e, una volta che ho mangiato, non sento più la nausea. La marijuana migliora la mia disposizione d'animo, e questo mi fa sentire meglio anche fisicamente.

Ho rischiato per due volte di morire a causa di reazioni allergiche al Composto Q di Reichstein (deossicorticosterone, N.d.T.), un estratto della radice del cetriolo selvatico cinese che distrugge le cellule immunitarie infette. Il Composto Q è illegale, ma il governo preferisce far finta di guardare dall'altra parte. Perché non può fare la stessa cosa con la marijuana? Entrambe le sostanze sono illegali ed entrambe sono usate nella cura dei malati di AIDS. Una può metterti nei guai, è l'altra no. Che ridere!

Nella primavera del 1990, alla periferia di Chicago, sono stato arrestato per possesso di marijuana e la macchina mi è stata sequestrata. Non solo ho perso la mia medicina, ma ora trovo difficile raggiungere la clinica dell'AIDS nel centro di Chicago. Il mio appetito non è più quello di una volta, ho perso più di sei chili, mi stanco più facilmente e alle volte sono così debilitato che mi sento come se dovessi vomitare. Sto prendendo il Prozac (fluossetina, un antidepressivo) prescritto da un medico di periferia che non sa praticamente nulla dell'AIDS o dell'epatite B. Sono molto depresso e diverse volte ho meditato il suicidio. Ho dovuto attingere al mio credito bancario per un totale di tremila dollari per pagare le spese legali di due cause. L'accusa di reato è stata respinta, e ora sto cercando di riavere indietro la macchina (questa è la causa civile federale) in modo da poter andare alla clinica dell'AIDS. Il mio avvocato mi dice che potrei spuntarla. Ma anche se così fosse, come potrò alleviare la nausea e stimolare l'appetito in modo da sentirmi meglio? Ho provato il Marinol e non ha avuto effetto. Cosa dovrei fare? Non far niente? Se per me l'unico modo di stare in salute è fumare marijuana e, di conseguenza, sentirmi abbastanza bene da riuscire a mangiare, perché non mi è consentito? Mi auguro che il governo la smetta di essere così ipocrita e mi permetta di fare ciò di cui ho bisogno per vivere il resto dei miei giorni nel massimo benessere possibile.

2.6.2 2a Testimonianza - Dottor Z (Anonimo)

    Un prodromo dell'AIDS è il complesso di sintomi correlati all'AIDS, o ARC. I suoi sintomi comprendono rigonfiamento dei linfonodi, febbre, nausea, diarrea, dolori ed esaurimento. l'ARC può durare molto tempo, oppure evolvere rapidamente nell'AIDS. Quando il "dottor Z", un medico che soffriva di ARC, cominciò una terapia con AZT circa due anni fa, il suo CBC (conteggio completo delle cellule ematiche,N.d.T.), il conteggio dei linfociti T, gli LFT (esami delle funzioni epatiche) e altri parametri immunologici si stabilizzarono. Sfortunatamente, cominciò anche a soffrire di gravi forme di nausea e diarrea (da otto a dodici attacchi di diarrea al giorno). Il suo medico personale gli prescrisse prometazina e proclorperazina contro la nausea; argilla caolinitica, difenossilato con atropina, loperamide e ranitidina contro la diarrea e l'iperattività dell'apparato gastrointestinale. Nessuno di questi medicinali ebbe un effetto adeguato. Poi il dottor Z scoprì che piccole quantità di cannabis, fumate nell'arco di tutta la giornata, eliminavano completamente la nausea e riducevano il numero degli attacchi di diarrea a due o tre al giorno, senza bisogno di prendere nessun altro farmaco. Egli aveva risentito anche di un grave esaurimento che interferiva con molte attività quotidiane. La cannabis placò anche questo stato di esaurimento. Di seguito riportiamo il suo resoconto:

    A causa dell'isterismo irragionevole che ha contagiato gli Stati Uniti per quanto riguarda l'AIDS e la guerra alla droga, ho scelto di rimanere anonimo. Sono un medico malato di ARC e credo che la marijuana riesca ad alleviare meglio di ogni altra sostanza molti dei disturbi associati all'AIDS. Alcune informazioni preliminari sono necessarie per porre questa discussione in una prospettiva corretta. Come molti altri, ho provato la marijuana per la prima volta in college. Quell'esperienza mi era piaciuta, ma un laureando in medicina in un rispettato college della Ivy League aveva poco tempo per simili distrazioni. In tutto, avrò fumato probabilmente meno di una dozzina di volte in college. La MedicaI School, l'internato e il tirocinio seguirono senza che io facessi ulteriore uso di marijuana. Poi avviai un'attività nella piccola cittadina dove vivo ancora oggi, anche se non sto più esercitando la professione.

Circa due anni fa mi diagnosticarono l'ARC. I miei sintomi comprendevano esaurimento, mal di testa, forti crampi alle gambe, nausea e occasionali eccessi di sudorazione. l'AZT non riusciva a placare nessuno di questi sintomi (anzi, rendeva più acuta la nausea), ma effettivamente rallentò il progresso della malattia. Avevo l'armadietto dei medicinali pieno di barbiturici e narcotici, tutti potenti farmaci legali della Classe [Tabella] II, contro i dolori e il malessere. Sebbene questi farmaci fossero d'aiuto, spesso mi lasciavano ancora più affaticato e letargico. Le pillole che prendevo per i dolori alle gambe mi mettevano sottosopra l'intestino. Questo problema, unito alla nausea provocata dall'AZT, rendeva necessaria un'altra pillola, un antiemetico. Tutto sommato, tra pillole, dolori e nausea, non era uno stile di vita che mi rendesse impaziente di cominciare una nuova giornata.

Continuai a "vivere" in questo modo finché non fui invitato a una festa da amici che non vedevo da un po' di tempo. Ero alquanto riluttante ad andare, dato che avevo il solito mal di testa pulsante e i crampi alle gambe, ma sentivo il bisogno di socializzare. Qualcuno tirò fuori un po' di erba, e presto mi ritrovai senza mal di testa e con appena un lievissimo disagio alle gambe. Non potevo crederci: libero dai dolori senza gli effetti collaterali dei narcotici. In effetti, mi sentivo meglio di quanto non mi fossi mai sentito dal momento della diagnosi. Fidatevi di me, non ero nemmeno in uno stato semicomatoso. Non ero più rilassato di quanto non sia dopo un paio di Martini, più accettabili sul piano sociale.
Chiedendomi se la mia scoperta avesse qualche fondamento concreto, parlai della marijuana con altri malati di AIDS. In modo quasi unanime, mi dissero che li faceva stare meglio.

Sfortunatamente, data l'attuale politica statunitense, la maggior parte dei pazienti (me compreso) non vuole rischiare una denuncia e una causa. È abbastanza tragico affrontare una diagnosi di AIDS, ma affiancare a questo problema anche le accuse di reato sarebbe insopportabile. Così dobbiamo continuare a usare narcotici e barbiturici della Classe II, potenti e in grado di indurre dipendenza, quando una droga illegale offrirebbe maggiore sollievo.

Recentemente ho visitato Amsterdam, una città dove l'uso della marijuana è tollerato. Non è legale in senso stretto,ma non è punito come reato. Credetemi, mi sentivo come se fossi guarito dall'AIDS. Nonostante io prenda abitualmente dalle otto alle dodici pillole al giorno, non ne ho praticamente prese finché sono stato là. Fumavo ogni volta che ne sentivo il bisogno, generalmente quando mi veniva la nausea o avevo crampi alle gambe o mal di testa: due o tre sigarette al giorno. Spesso ero libero da sintomi per la maggior parte della giornata, senza dovermi preoccupare di essere arrestato. Potevo comportarmi da adulto responsabile e fare uso di marijuana quando ne avvertivo la necessità, così come usavo le pillole a casa. Mi sentivo ancora una volta completamente vivo -una rarità quando si è malati di AIDS.

Sfortunatamente, la cura fu di breve durata. Di ritorno negli Stati Uniti dovetti ricominciare a usare gli antinevralgici e antiemetici legali.
Essere contemporaneamente medico e paziente affetto dall'HIV è stata una fortuna a metà. Ho visto molte persone soffrire e morire e mi rendo conto che, probabilmente, questo sarà anche il mio destino. Ma so anche che c'è una medicina, e cioè la marijuana, che lenisce almeno in parte la sofferenza e può rendere più producente la vita di un malato di AIDS. Tuttavia la marijuana, in questa dolce e gentile America, non può essere prescritta. Una cosa del genere è assolutamente INCONCEPIBILE. Al tasso con cui l'epidemia si sta diffondendo, presto toccherà a tutti noi conoscere qualcuno che è affetto dall 'HIV o che lo sarà. La nostra società è così disumana da continuare a permettere che la "guerra alla droga", voluta da questo governo, costringa persone così gravemente sofferenti a diventare criminali o a continuare a soffrire inutilmente?

    Poiché la marijuana è illegale, il dottor Z ha deciso di cercare di ottenere una prescrizione di dronabinolum (Marinol@). Si rivolse al suo medico personale, che sapeva poco sul dronabinolum ed era riluttante a prescriverlo per paura della "dipendenza" e della possibile "euforia". Alla fine, compilò una prescrizione di 5 mg al giorno, metà della dose raccomandata da un rappresentante dell'industria farmaceutica che produce il Marinol. Ci sono voluti dieci anni perché l'opinione pubblica si rendesse conto di quanto sia grave la pericolosità dell'epidemia da HIV. Sfortunatamente, potrebbero volerci altri dieci anni perché i medici prendano atto delle possibili cure.

    Il dottor Z si rivolse a quattro farmacie prima di trovarne una che gli fornisse il farmaco prescritto. Dopo un'attesa di cinque giorni, ottenne la dose stabilita. Cinque giorni di prova si rivelarono inutili. Allora, di sua iniziativa, aumentò le dosi fino a 5 mg due volte al giorno e constatò qualche miglioramento.
Eppure, presto tornò a fare uso di marijuana, malgrado le sanzioni previste dalla legge. Fumare marijuana gli permetteva di regolare la dose per un tasso costante nel sangue e la marijuana illegale alleviava i suoi sintomi meglio di quanto non facesse il Marinol legale: un fatto, questo, ben noto ai pazienti che hanno provato entrambe le sostanze.

    L'unico studio pubblicato fino a oggi sull'applicazione del dronabinolum alla cura dell'AIDS ha dimostrato la sua utilità per pazienti con infezioni sintomatiche da HIV. Oltre ad alleviare la nausea, il dronabinolum ha indotto un significativo aumento di peso nel 70% dei pazienti. Comunque, circa un quinto dei
pazienti ha smesso di prendere il farmaco a causa dei suoi spiacevoli effetti psicotropi.

    Questi risultati sono più o meno concordi con quelli ottenuti dagli esperimenti con il Marinol nella cura della nausea e del vomito che accompagnano la chemioterapia. La maggior parte di quei pazienti preferiva fumare marijuana, e si può sospettare che lo stesso accadrebbe con i malati di AIDS, proprio come nel caso del dottor Z.

    La più recente acquisizione dell'arsenale anti-AIDS è un farmaco chiamato foscarnet sodico (Foscavir@). Circa il 20% dei malati di AIDS sviluppa il cytomegalovirus retinitis, una malattia infettiva dell'occhio che può portare alla cecità. Il foscarnet sodico è stato messo a punto per curare questa malattia; con uno studio recente si è scoperto che inoltre prolunga considerevolmente la vita dei malati di AIDS.21 Sfortunatamente, tra gli altri gravi effetti collaterali, provoca nausea. Ci sono tutte le ragioni per ritenere che questa nausea possa 'essere attenuata grazie alla cannabis. Se le cose stanno così, e se le speranze riposte nel foscarnet sodico produrranno oro, ci sarà una ragione di più perché i malati di AIDS facciano uso di marijuana.

    Chi ne fa uso a scopo ricreativo sa bene che la marijuana stimola l'appetito. Queste persone sono da tempo consapevoli che l'effetto della marijuana non si limita ad accrescere il loro appetito, ma esalta il sapore del cibo e il piacere di mangiare. Questo effetto è stato dimostrato sperimentalmente più di una volta. In uno studio condotto nel 1971, a quattro gruppi di soggetti furono somministrati estratto di marijuana, alcol, destroamfetamina o un placebo dopo dodici ore di digiuno. Poi si offrivano loro dei frappé a intervalli di tempo prestabiliti e ci si informava sul loro appetito e sul loro apprezzamento del cibo. I soggetti che avevano ricevuto la marijuana si sentivano più affamati e mangiavano di più; quelli che avevano preso la destro-amfetamina si sentivano meno affamati e mangiavano di meno; l'alcol aveva un effetto trascurabile.

    In uno studio successivo, il peso corporeo e l'apporto calorico di ventisette fumatori di marijuana e di dieci soggetti di controllo furono messi a paragone per ventuno giorni nel reparto di ricerca di un ospedale. I fumatori di marijuana mangiavano di più e misero su peso (i soggetti di controllo no). Quando smisero di fumare marijuana, cominciarono immediatamente a mangiare di meno. La capacità della marijuana di stimolare l'appetito è stata dimostrata ancora in tempi più recenti. Nove soggetti fumarono dalle due alle tre sigarette di placebo ogni giorno, per poi passare a sigarette di marijuana di potenza media. Il loro consumo di cibo aumentò in modo significativo, principalmente a causa di spuntini più frequenti piuttosto che di pasti più abbondanti.


2.7 Dolori cronici

Nelle loro forme più gravi, i dolori cronici vengono curati con narcotici derivati dall'oppio e con vari analgesici sintetici, ma queste sostanze presentano numerose limitazioni. Gli oppiacei inducono dipendenza e determinano l'insorgere del fenomeno della "tolleranza"; gli analgesici sintetici che non inducono dipendenza spesso non sono abbastanza efficaci. Ci si sarebbe potuti aspettare che gli specialisti di questi dolori dessero un'altra chance alla cannabis, ma ancora una volta la letteratura medica indica una scarsa riconsiderazione fino al 1975, quando all'Università dello Iowa fu condotto uno dei pochi esperimenti moderni sull'impiego della cannabis nella cura dei dolori. I ricercatori di quell'istituto somministrarono a caso THC in pillole e placebo a malati di cancro ricoverati in ospedale, che soffrivano di forti dolori. Il THC attenuava i dolori per diverse ore anche con dosi modeste come 5+ lO mg, e per tempi anche più lunghi con dosi di 20 mg. In questa dose e in questo contesto, il THC dimostrò di avere anche un effetto sedativo. Inoltre, comportava effetti collaterali sul fisico minori rispetto ad altri analgesici di uso comune.

    In un altro esperimento condotto nel 1975, furono messi a confronto gli effetti della codeina, del THC e di un placebo su trentasei pazienti con un cancro in forma avanzata. Codeina e THC furono efficaci in ugual misura, ma alcuni pazienti trovarono spiacevoli gli effetti psicoattivi del THC (20 mg, contro 120 mg di codeina). Bisognerebbe tener presente che nessuno di quei pazienti sapeva quale sostanza stesse prendendo; la maggior parte di loro non aveva mai fatto uso di marijuana ed era impreparata di fronte all'alterazione dello stato di coscienza. Se fossero stati preparati, avrebbero potuto non trovarsi a disagio.

    Nello stesso anno, alcuni ricercatori canadesi studiarono l'effetto analgesico della marijuana, consumata sotto forma di sigarette, su soggetti sani, metà dei quali aveva già fatto uso di cannabis in passato. La loro sopportazione del dolore prodotto da una pressione sull'unghia del pollice aumentava in misura significativa dopo che avevano fumato marijuana, e l'effetto analgesico era maggiore tra i consumatori più esperti.

    La cannabis può essere particolarmente utile nell'attenuazione di alcuni tipi specifici di dolore cronico. La seguente testimonianza è stata scritta da un uomo che soffre di pseudopseudoipoparatiroidismo, una malattia ereditaria che si deve a reazioni anormali a un ormone secreto dalle ghiandole paratiroidi. Questo ormone regola il contenuto di calcio nel corpo. Quando la sua secrezione è insufficiente o quando qualche tessuto corporeo reagisce a esso in maniera inadeguata (ipoparatiroidismo), si possono manifestare vari sintomi, tra i quali spasmi muscolari, convulsioni e, nella variante nota come pseudopseudoipoparatiroidismo, lo sviluppo di speroni ossei che crescono nei tessuti muscolari e nervosi provocando dolori lancinanti.

2.7.1 Irvin Rosenfeld è un agente di cambio trentanovenne di North Lauderhill, Florida. Questa è la sua storia:

Ho goduto di un'infanzia normale fino all'età di dieci anni. Poi, un giorno, mentre stavo giocando a baseball nella Little League, mi capitò di eliminare un avversario nella prima parte della partita, per poi rimanere col braccio paralizzato per un po' di tempo. L'incidente preoccupò i miei genitori, così ci rivolgemmo al nostro medico di famiglia, che mi fece una radiografia al braccio. La radiografia sembrava mostrare una frattura che fosse guarita lasciando dei frammenti scheggiosi di osso. Non aveva senso; non mi ero mai rotto il braccio. Il dottore mi mandò da un ortopedico, che rimase altrettanto perplesso e mi affidò all'Ospedale dei Bambini di Boston. Dopo una lunga serie di analisi, i medici di quell'ospedale conclusero che soffrivo di esostosi multiple cartilaginee: una malattia rara, a causa della quale le ossa sviluppano piccole protuberanze o speroni che crescono o all'esterno, nelle fibre muscolari e nervose circostanti, o all'interno, dentro l'osso stesso.

I dottori dell'Ospedale dei Bambini mi trovarono più di 250 tumori ossei tra braccia, gambe e bacino. In questa malattia ciascun tumore può diventare maligno, ma nel mio caso ce n'erano così tanti che non era possibile rimuoverli chirurgicamente tutti. La crescita rapida e irregolare del tessuto osseo è acutamente dolorosa e può causare lesioni menomanti. Gli speroni ossei premono contro i fasci nervosi, fanno impigliare le arterie e impediscono un funzionamento sciolto dei muscoli. Se gli speroni sono frastagliati, lacerano il tessuto muscolare e provocano emorragie interne. Se spuntano all'improvviso e crescono rapidamente, possono interferire con una crescita normale e causare malformazioni e deformità. L'unica nota positiva è che le esostosi multiple cartilaginee non durano per tutta la vita. Al termine dell'età dello sviluppo, attorno ai diciassette anni, gli speroni ossei cessano di formarsi e di crescere. In teoria, la malattia tende a placarsi, se non si muore dissanguati o non si rimane storpi in giovane età.

Per evitare una simile evenienza, affrontai tre operazioni alla gamba sinistra e una al polso destro tra i dieci e i diciassette anni. Eppure continuai ad avere problemi, principalmente a causa delle emorragie e delle lacerazioni muscolari. Già a dodici anni ero spesso incapace di camminare e di muovermi normalmente. Fui costretto a lasciare la scuola pubblica all'ottavo anno, ma lo Stato della Virginia mi affidò a dei tutori formidabili fino al diploma. C'erano giorni in cui riuscivo a camminare e persino a correre, ma per lunghi periodi potevo a malapena muovermi. Il dolore era costante e spesso insopportabile; a partire dall'età di quattordici anni mi furono necessari dei potenti narcotici per attenuarlo. A diciannove anni prendevo 300 mg al giorno di Sopor [metaqualone, un potente sedativo] e forti dosi di Dilaudid [idromorfone, un narcotico oppiaceo]. Questi fannaci riducevano il dolore, ma facevano anche diminuire la mia lucidità mentale e interferivano con la mia vita. Non sviluppai dipendenza, ma ero estremamente affaticato e a volte "sconvolto". Se riducevo le dosi con l'intento di recuperare la lucidità, il dolore ritornava. Tutto quello che ricordo, a parte il dolore, è quel senso di attesa; attendevo che la mia crescita terminasse.

Quando avevo diciassette anni, le visite e le radiografie indicarono che i tumori ossei avevano cessato di crescere. Nonostante il dolore persistente, avevo la sensazione di aver superato la crisi e pensavo che le mie condizioni si sarebbero stabilizzate in breve tempo. Ma poi, a vent' anni, un altro massiccio sperone osseo spuntò nella mia caviglia destra. I medici supposero che fosse una manifestazione tardiva di una crescita latente, e lo rimossero. Dissero che probabilmente sarebbe stato l'ultimo tumore osseo che avrei mai avuto. Invece, ricomparve e crebbe con sconcertante rapidità, finché non si estese per tredici centimetri su per la gamba, creando un ponte di tessuto osseo che fuse caviglia e gamba insieme. L'intervento chirurgico era impossibile; il tumore era troppo grande. I dottori decisero di amputarmi il piede destro da sopra la caviglia.

A quel punto, per la prima volta, misi i miei dottori in discussione. Era sempre più chiaro che i tumori continuavano a crescere e che nuovi speroni si sviluppavano. Se avessi acconsentito in quell'occasione, che cosa avrebbero dovuto amputarmi la volta dopo? Un braccio? Un pezzo di gamba? Dissi di no. Nessuna amputazione. Se il tumore che stava crescendo rapidamente avesse dovuto rivelarsi maligno, che fosse. Ero troppo giovane per rimanere storpio per il resto di quella che avrebbe potuto essere una vita breve. Decisi di vivere come meglio, come più pienamente potevo per il maggior tempo possibile.

Quando avevo ventidue anni un altro tumore spuntò dal mio bacino e si sviluppò nell'inguine. Questo tumore venne asportato con un intervento chirurgico. Nel frattempo cominciai a cercare altre opinioni sulla natura del mio male. Consultai senza esito la clinica Mayo, il MedicaI College dell 'Università della Virginia, gli istituti nazionali della sanità (NIH) e l'istituto nazionale dei tumori (NCI). In quel periodo il mio consumo di farmaci era enorme. Prendevo 140 tavolette di Dilaudid, 30 o più Sopor, e dozzine di miorilassanti e di altre pillole ogni mese. Sentivo che mi stavo rovinando quel po' di salute che mi rimaneva, e spesso gironzolavo in uno stato di disagio. Era difficile condurre una vita normale; se prendevo farmaci in quantità sufficiente a contenere il dolore, avevo difficoltà a concentrarmi sul lavoro.

La situazione mi fece detestare con forza i farmaci e le droghe. Quando ero alle superiori scrissi dei temi contro l'uso delle droghe illegali. Mi sconcertava il fatto che persone che stavano bene introducessero una droga nel proprio corpo per divertimento! Ero ancora di questo parere quando entrai in college in Florida, dove la maggior parte delle persone che incontrai fumava marijuana. Dapprima resistetti con fermezza all'idea di "provare" la marijuana. Stavo già "provando" i farmaci, più di quanti il mio corpo ne potesse sopportare. Ma l'influenza degli amici si fa sentire, e così cominciai a fumare marijuana alle feste, sebbene non abbia mai avuto la più pallida idea di che cosa intenda la gente quando parla dello sballo. Forse io non mi sballo perché ho passato la maggior parte della mia vita prendendo sostanze di gran lunga più potenti della marijuana.

Una sera fumai marijuana con un amico mentre giocavamo a scacchi. I tumori nella parte posteriore delle gambe mi rendevano difficile stare seduto per più di cinque o dieci minuti consecutivi. Ma quella volta mi lasciai talmente assorbire dalla partita, che rimasi seduto per più di un'ora senza provare alcun dolore. Avevo la sensazione di trovarmi in una di quelle vignette intitolate "cosa c'è che non va in questa figura?". Quando sei condizionato dal dolore a vivere nel dolore e all'improvviso non senti più dolore, immediatamente cominci a chiedertene il perché. L'unica cosa insolita che avevo fatto era stata fumare marijuana. Non mi sono mai messo d'impegno a dimostrare a me stesso che mi facesse bene, ma dopo un po' diventò semplicemente ovvio che anche una piccola quantità di marijuana mi offriva una qualità di attenuazione del dolore che non avevo mai provato prima.

Ne parlai al mio dottore, e lui mi suggerì di fare uso di marijuana per sei mesi. Se oltre quel termine avessi avuto ancora la sensazione che mi facesse bene, ne avremmo riparlato. Per i sei mesi successivi fumai regolarmente. La marijuana non solo migliorava enormemente la qualità dell'attenuazione del dolore, ma faceva anche diminuire drasticamente la mia dipendenza dai narcotici oppiacei e dai sonniferi in pillole. Diventai meno ritirato dal mondo e fui in grado di condurre una vita normale.

Allo scadere dei sei mesi feci un resoconto al mio dottore e discutemmo la possibilità di ottenere la marijuana legalmente. Sfortunatamente, egli morì poco tempo dopo questa discussione e io fui costretto a mettermi in cerca di un nuovo medico. Scrissi a un mio zio, un pediatra che viveva in Connecticut. Mi mandò un sacco di materiale sugli impieghi medici della marijuana, ma disse che non sapeva proprio se la si potesse ottenere legalmente o no.

Nel frattempo ero tornato a Portsmouth, in Virginia, dove ero stato cresciuto, e avevo aperto un negozio di arredamento. Questo lavoro mi costringeva in piedi, a spostare mobili, per tutta la giornata. Mi laceravo i muscoli e avevo emorragie quasi quotidianamente. Alle volte questi problemi diventavano molto seri. Quando ricevetti il materiale di mio zio, lo portai al Dipartimento di Polizia di Portsmouth e spiegai al comandante quali fossero le mie condizioni di salute. Gli dissi che non potevo permettermi di comperare la marijuana in strada e gli chiesi l'autorizzazione a fumare la marijuana sequestrata dalla polizia durante le retate. Il comandante disse che si sarebbe interessato per vedere cosa si poteva fare. Dopo aver parlato con un bel po' di gente in città - Portsmouth è una città piccola e i miei genitori godono di buona reputazione - mi disse che non poteva autorizzarmi a fare uso di marijuana sequestrata, ma che avrebbe detto ai suoi uomini di lasciarmi in pace, almeno finché non mi fossi messo a vendere la marijuana ma mi fossi limitato a comprarla come medicinale. C'era un'altra condizione: non avrei mai parlato con nessuno di questo accordo informale. Accettai senza esitazioni la proposta del comandante e lo ringraziai.

Il mio nuovo dottore, quando entrai per la prima volta nel suo studio, fece una serie di osservazioni apparentemente banali: uno dei miei mignoli era insolitamente grande, le braccia si curvavano verso l'interno, avevo un collo corto, e così via. Poi mi guardò e disse "pseudopseudoipoparatiroidismo". Mi chiesi se fosse del tutto in sé. Prese un libro di medicina da uno scaffale e mi lesse una descrizione dettagliata della malattia; corrispondeva perfettamente, perfino per quanto riguardava il rapporto con le esostosi multiple cartilaginee. Il dottore si fece improvvisamente molto pacato, e allora gli chiesi cosa c'era che non andava. Mi disse che gli speroni di tessuto osseo avrebbero continuato a svilupparsi per tutto il resto della mia vita, e che ciascuno di essi poteva diventare maligno in qualsiasi momento. Il risultante tumore si sarebbe propagato con rapidità e io sarei morto. Se il cancro non mi avesse ucciso prima, uno sperone osseo avrebbe potuto premere sul midollo spinale e lasciarmi paraplegico, spuntare in una grossa arteria e provocare un'emorragia mortale, o produrre lacerazioni in un organo interno causando lesioni permanenti e magari fatali. E il dolore sarebbe diventato insopportabile.

Chiesi al dottore se sapeva niente sull'uso della marijuana per attenuare il dolore e la spasticità muscolare. Mi chiese cosa ne sapessi io. Lo misi al corrente delle informazioni che avevo ricevuto da mio zio. Il dottore promise che avrebbe esaminato il materiale in mio possesso e disse che gli sarebbe piaciuto occuparsi del mio caso, ma non sapeva come avrebbe potuto procurarmi la marijuana legalmente. Questo dottore mi piaceva molto. Non solo era il primo che sapesse esattamente cosa avevo, ma neppure aveva rifiutato di primo acchito l'idea che la marijuana potesse farmi bene. Disse che, se volevo, potevo continuare a fumare mettendo lo al corrente di ogni eventuale complicazione. Era abbastanza chiaro, comunque, che dubitava delle proprietà medicinali della mari juana e riteneva che io stessi beneficiando di un effetto placebo.

Continuai a fumare marijuana illegalmente per alcuni anni (1976-1979). Sebbene non dovessi temere di essere arrestato, l'assottigliamento del mio capitale era preoccupante; spendevo in marijuana almeno tremila dollari all'anno. Il mio dottore era ormai d'accordo ad aiutarmi, se fossi riuscito a scoprire cosa bisognava fare per ottenere un nullaosta ufficiale. L'unica condizione era che la sua identità rimanesse segreta. C'era troppa irragionevolezza attorno a questo argomento, e lui non voleva rischiare la sua carriera venendo bollato come un "dottor Canna". Lo offendeva il fatto che, come medico abilitato a esercitare la professione, poteva prescrivere la morfina ma non la marijuana. Era una situazione esasperante.
Lui diceva di non avere tempo per compilare una grande quantità di moduli, stendere elaborati protocolli di ricerca, o soddisfare tutte le condizioni di carattere amministrativo poste dall'PDA e dalle altre organizzazioni federali che detengono la giurisdizione in materia di marijuana. Ma era disposto a mettere la sua firma in calce ai moduli se io mi fossi occupato di andare in giro per gli uffici, far compilare i moduli e contattare i funzionari competenti. Non potevo avere idea di quanto tutto ciò sarebbe stato difficile, né di quanto tempo avrebbe richiesto. Ci vollero parecchie centinaia di telefonate e, in termini di tempo, non settimane o mesi, ma anni.

La legge prevede che l'PDA abbia trenta giorni di tempo per rispondere a un protocollo di tipo Investigational New Drug. Quarantacinque giorni dopo aver spedito la richiesta a nome del mio dottore, non avevamo ancora ricevuto notizie dall'PDA, perciò telefonai. Gli impiegati mi dissero cortesemente che avevano qualche problema con il mio IND, ma non potevano dirmi di quali problemi si trattasse; dopotutto, ero solo un paziente. Avrebbero contattato il mio dottore appena pronti. Dopo un'altra lunga attesa, il mio dottore telefonò, fece la stessa domanda e ricevette la stessa, vaga risposta. Diversi mesi più tardi, dopo molte altre telefonate da parte mia, l'PDA spiegò al mio dottore quali fossero i problemi. Erano tutti trascurabili, nella maggior parte dei casi insignificanti. Intuii che il governo sperava che il mio dottore si stancasse e ritirasse la richiesta. Chiaramente, l'PDA nutriva scarso interesse per l'IND e ancor meno per la mia assistenza medica.

L'approvazione arrivò, finalmente, circa un anno dopo la presentazione della richiesta e la prima spedizione di marijuana legale non arrivò che diversi mesi dopo. Dovevamo effettuare esami laboriosi per stabilire di quali benefici stessi godendo; per esempio, una volta alla settimana andavo dal mio dottore per fare un'elettromiografia (EMG), che registra la tensione e la spasticità dei muscoli. Dopo aver ottenuto una lettura di riferimento uscivo dallo studio, andavo al parcheggio e fumavo una o due sigarette di marijuana. Poi rientravo e facevo un'altra EMG.

Ho fumato marijuana (al 2% di THC) nella legalità per quattro anni e mezzo, a un ritmo di dieci sigarette al giorno. Ho avuto problemi con la giustizia solo una volta, a una riunione d'affari in Florida. Ero rimasto in piedi tutto il giorno e non avevo avuto l'occasione di fumare abbastanza marijuana, perciò, ora di sera, le gambe mi facevano male. La cena sarebbe stata servita nella sala da pranzo di un albergo. Non ho mai saputo come cavarmela in situazioni di questo tipo, perché non voglio urtare la suscettibilità della gente. Poi, però, mi accorsi che altre persone attorno a me stavano fumando tabacco, e alla fine decisi che anch'io dovevo fumare. Mia moglie mi suggerì di andare al gabinetto degli uomini in modo da poter avere un po' di privacy ed evitare di infastidire qualcuno. Mentre mi trovavo là, entrò un garzone che si accorse dell'odore di marijuana e mi chiese se poteva fare un paio di "tiri" dalla mia sigaretta. Gli dissi di no. Lui si arrabbiò e uscì.

Mi resi conto di quanto si era arrabbiato pochi minuti più tardi, quando il gabinetto fu invaso dalla squadra narcotici di Orlando. La polizia si precipitò all'interno e cominciò a farmi domande. Ci fu scompiglio tra i miei soci d'affari quando fui condotto fuori dal bagno. lo cercai di spiegare che facevo uso di marijuana fornita dal governo, nella legalità, per scopi medici. Mi dissero che tutto ciò non aveva importanza, dal momento che la marijuana era illegale ai sensi delle leggi della Florida.

Fui arrestato e portato in prigione. Mentre stavo entrando nella stazione di polizia inciampai su un gradino di cemento, caddi e mi ruppi un vaso sanguigno, procurandomi un'emorragia interna. Non si vedeva sangue, ma la caviglia si stava gonfiando e non potevo camminare. Gli agenti di polizia si fecero tutti intorno a me, mi ordinarono di alzarmi e presero a battersi le palme delle mani con i manganelli. Cominciavo a sentirmi come se stessi recitando la parte del cattivo in un film di serie B.

Alla fine riuscii a convincere gli agenti che non ce la facevo ad alzarmi e che avevo bisogno di assistenza medica. Fu chiamata un 'infermiera. Lei telefonò a un medico, il quale le consigliò di non prendersela troppo. La mia richiesta di essere portato in ospedale fu respinta. Mi procurarono una sedia a rotelle e, seduto su di essa, fui condotto di fronte a una cella. La polizia sequestrò sette sigarette di marijuana preconfezionate dalla NIDA e mi accusò di esserne in possesso. Mi schedarono scattandomi le foto e prendendomi le impronte digitali. lo versai 250$ di cauzione e chiesi di riavere le mie sigarette di marijuana, ma mi fu detto che sarebbero state trattenute come corpo del reato. lo dissi che andava bene, tanto ne avevo un barattolo intero (circa trecento sigarette) nella mia stanza, al motel. A quel punto, evidentemente, la polizia stava ormai cominciando a temere di aver commesso un errore, dato che non cercarono di ottenere un mandato di perquisizione.

L'arresto era avvenuto di venerdì sera. Il lunedì mattina seguente riuscii a contattare un avvocato dell 'FDA che disse che avrebbe "sistemato le cose". Poco tempo dopo le autorità dello Stato della Florida mi fecero sapere che avrebbero lasciato cadere il procedimento e che avrebbero cancellato la registrazione del mio arresto. La polizia mi restituì il denaro della cauzione ma non le mie sette sigarette di marijuana.

Dai rapporti annuali del mio medico inoltrati all'FDA e per mia esperienza, so che la marijuana ha attenuato i miei dolori in modo efficace e mi ha permesso di ridurre il mio consumo di farmaci convenzionali (e di gran lunga più pericolosi) come Sopor, Dilantin e Dilaudid. L'unico problema è che la NIDA alle volte viene meno ai suoi impegni e mi fornisce marijuana troppo leggera. Quando ciò accade, sono costretto a fumare così tanto che mi fanno male i polmoni. Per il resto non ho mai avuto inconvenienti gravi.

2.7.2 L'utilità della marijuana nella cura dei dolori e di altri sintomi conseguenti alla chirurgia cerebrale è descritta da Karen Ross nella seguente testimonianza:

    Nel 1988 mi sono sottoposta a un intervento chirurgico a causa di un tumore maligno al cervello, un oligodendroglioma. Il nome è altrettanto opprimente quanto ciò che comporta.

Due giorni dopo l'operazione lessi un articolo del Boston Globe sugli impieghi in medicina della marijuana, in particolar modo per le persone sottoposte a cure contro il cancro come le radiazioni e la chemioterapia. Ero stata una consumatrice moderata di marijuana prima della mia gravissima malattia, e presi quell'articolo in seria considerazione, visto che mi accingevo a sottopormi a una terapia con radiazioni.

Dopo l'intervento mi era stato prescritto il desametasone, un farmaco antinfiammatorio, per il rigonfiamento del cervello, e lo Zantac [ranitidina] per proteggere lo stomaco dagli effetti del desametasone. Nel giro di pochi giorni dal mio ritorno a casa cominciai ad avere forti crisi di ansia. Alle volte pensavo che sarei impazzita. A fasi alterne, mi sentivo come se il petto mi dovesse esplodere o essere schiacciato. Il mio udito era così sensibile che riuscivo a sentire le bollicine in una lattina di soda. I miei discorsi erano confusi e indistinti, e inoltre mischiavo tra di loro suoni diversi in modo che le parole della gente sembravano dei mormorii a meno che non stessero parlando direttamente con me. Spesso, per poter seguire un discorso, dovevo basarmi sul movimento delle labbra del mio interlocutore. Contro questi disturbi il dottore mi diede da prendere lo Xanax [alprazolam], un tranquillante, e l'Elavil [amitriptilina], un antidepressivo. I farmaci mi furono di qualche aiuto, ma ancora non stavo bene.

La mia famiglia mi procurò un po' di marijuana e cominciai a usarla assieme a Xanax ed Elavil. Ero solita fare al massimo due "tiri" un paio di volte al giorno. Trovavo che la marijuana mi rilassasse e mi permettesse di concentrare l'attenzione, così che mi sentivo meno ansiosa e riuscivo a riposare più facilmente. Inoltre attenuava la pressione che mi sentivo nella testa meglio di quanto non facesse il desametasone. Non provai mai lo "sballo". Mi trovavo già in uno stato di sovraeccitazione emotiva e fisica, e la marijuana mi portava a velocità di crociera, regolare e costante. Col tempo fui in grado di ridurre il mio consumo di Xanax e di smettere completamente di prendere l'Elavil. Sei settimane dopo l'intervento chirurgico cominciai la cura con le radiazioni e continuai a sottopormi a essa per cinque giorni alla settimana, per sei settimane. Prima e dopo ogni seduta fumavo marijuana. Mi permetteva di dormire durante la cura ed eliminava la sensazione di costrizione e formicolìo che ero solita sentirmi dopo nella testa.

Il desametasone mi fece guadagnare più di venticinque chili. Inoltre si manifestarono debolezza dei muscoli, particolarmente nelle ginocchia, insonnia, sbalzi di umore, alterazioni della personalità, perdita di potassio e crescita dei peli facciali. Quando la somministrazione di desametasone venne finalmente interrotta, sei settimane dopo la fine della cura con le radiazioni, persi buona parte del peso in eccesso e riguadagnai la maggior parte della mia forza fisica. Anche il mio modo di parlare diventò più chiaro (ancora oggi ho scarsa sopportazione per i rumori e devo ancora leggere i movimenti delle labbra per seguire una conversazione).

Per tutto quel periodo avevo continuato a fare uso di marijuana. Alla fine tornai a lavorare a part time, ma poco dopo la marijuana diventò irreperibile. I miei mal di testa, la pressione in eccesso nella testa e negli occhi, l'intorpidimento facciale, le crisi di ansia e i discorsi indistinti ritornarono. Un esame del cervello non mostrò mutamenti nel tumore. Quando riuscii ad acquistare un po' di marijuana e a fumarla, tutti i sintomi scomparvero nel giro di un giorno. Un paio di mesi dopo la marijuana tornò a essere irreperibile e i sintomi ritornarono, puntuali come orologi. A quel punto ero sicura del perché.

I miei amici riuscirono a trovare un po' di marijuana e a rimettermi in pista. Cominciai a comprarne un po' di qua, un po' di là, giusto per essere sicura che non mi sarei più fatta trovare senza. Al medico che aveva impostato la terapia di prima attuazione, dissi che prendevo marijuana per il mal di testa, la pressione alta e la difficoltà nel parlare. Mi disse che non poteva passarci sopra, soprattutto perché era illegale, ma non cercò di fermarmi. Ormai ero in grado di affrontare i miei mal di testa con l'uso regolare di Tylenol, Xanax e marijuana. In media, un solo spinello mi durava dai tre ai quattro giorni. Certi giorni non fumavo affatto.

Dieci mesi più tardi rimasi ancora una volta senza marijuana, e i mal di testa e l'ansia ritornarono. Cominciai a prendere Tylenol e codeina insieme. Ero impegnata a imballare in vista di un trasloco dopo dodici anni che vivevo nella mia vecchia casa, e pensavo che lo stress da trasloco potesse avere qualcosa a che fare con i miei problemi. Lo dissi al mio oncologo e lui suggerì un ulteriore esame del cervello, che non rivelò mutamenti.

In seguito, mi incontrai con il mio neurologo. A quel punto i dolori e l'eccesso di pressione nella testa stavano diventando più fastidiosi e i miei discorsi erano più sconnessi. Il neurologo concluse che soffrivo di crisi epilettiche e mi prescrisse il Dilantin [difenilidantoina, un anticonvulsivante], che non ebbe effetto. Peggiorai soltanto. Mi causava insonnia, confusione mentale e perdita di coordinazione. Cominciavo a essere frustrata e arrabbiata.

Telefonai al neurologo e lui mi prescrisse ancora il desametasone. Neanche quello ebbe effetto. Lui diceva che avevo già ricevuto il massimo di radiazione tollerabile. Su questo tipo di tumore la chemioterapia non ha effetto, e non era detto che un ulteriore intervento chirurgico sarebbe stato efficace. Mio marito e io lasciammo il suo studio sentendoci come se avessimo avuto novanta chili di mattoni sulle spalle. Due giorni dopo alcuni amici mi fecero visita e portarono della marijuana. Feci due tiri. Dieci minuti più tardi la pressione in eccesso che avvertivo all'interno degli occhi era scomparsa, non avevo più mal di testa, l'intorpidimento facciale se n'era andato e il mio modo di parlare era tornato normale.

Quattro giorni dopo la visita dal neurologo, mio marito e io tornammo dall'oncologo. Disse che avrebbe potuto sottopormi ad altre sedute di radiazioni, dato che era disponibile una tecnologia più avanzata, e che alla chirurgia si poteva sempre ricorrere come a una risorsa estrema. Fummo alleggeriti di un po' del peso che ci portavamo sulle spalle. Il dottore si accorse che le mie condizioni erano migliorate, e io gli raccontai della marijuana. Replicò: "Non ho intenzione di dirle di non farlo, e non ho intenzione di dirle di farlo, ma se funziona - ed è evidente che funziona - chi sono io per avere qualcosa in contrario?".

Lasciammo che le cose andassero così. Decisi di smettere di prendere tutte le medicine che mi erano state prescritte (Dilantin, desametasone e Tylenol con codeina) non solo perché non erano efficaci ma soprattutto perché ero preoccupata per gli effetti collaterali. La marijuana non aveva nessun effetto collaterale di cui io mi potessi accorgere. La mattina dopo la visita dall'oncologo, chiamai ancora il mio neurologo. Era soddisfatto perché il mio modo di parlare era ritornato quello di una persona normale e perché sembravo più vivace. Gli dissi che tutti quei miglioramenti non avevano nulla a che fare con i farmaci che lui mi aveva prescritto, e che io non avevo più intenzione di prendere. Mi rispose come mi aspettavo, dicendo che non era d'accordo e che la marijuana era illegale. Proseguì: "Se questa è la sua decisione non c'è nulla che io possa fare per fermarla". Mio marito e io lo incontrammo ancora un paio di settimane dopo e io gli raccontai un'altra volta tutta la storia. Lui fu molto critico e sprezzante. Mi disse che non avrei dovuto guidare e che la marijuana è dannosa per la memoria a breve termine. Si comportava come se io passassi tutto il mio tempo a sballarmi. Cercai di spiegargli che fumavo solo al mattino o alla sera o quando i miei disturbi erano particolarmente forti, e che non provavo nessun genere di "sballo", Penso che abbia reagito in quel modo perché ero io, e non lui, ad avere il controllo sulla mia cura.

Abbiamo deciso di trovarci un altro dottore che non sia così inflessibile, di vedute ristrette e pessimista e che, oltretutto, sia meglio informato sulla nuova tecnologia delle radiazioni. Voglio vivere ogni mia giornata con speranza, felicità, e con tutto il piacere che la vita può offrirmi. So che i miei problemi sono lungi dall'essere finiti e probabilmente non finiranno mai, ma so anche che sono preparata a gestire la mia vita e la mia cura, e rifiuto di essere trattata come se non lo fossi. Continuerò a mantenermi in salute a modo mio con l'aiuto della marijuana.

    L'ironia più grande, per chi condanna l'uso della cannabis nell'attenuazione del dolore, è che le migliori alternative sono oppiacei capaci di indurre dipendenza e talora debilitanti. Una donna che ci ha descritto il suo caso soffre di meloreostosi, una malattia rara e incurabile che comporta forti dolori alle articolazioni. Quando ebbe i primi sintomi di questo male, il suo medico le prescrisse dosi massicce di Darvocet, una combinazione di propossifene (un oppiaceo sintetico) e Tylenol #3 (codeina e acetamminofene). La donna aveva bisogno anche di quindici Darvocet al giorno per alleviare i suoi dolori, finché non cominciò a fumare marijuana. Ha così scoperto che "fumando marijuana, non appena i dolori si presentano, riesco a farli cessare. Altrimenti aumentano di intensità molto in fretta; comincio a sentirmi nauseata e ho sudori caldi e freddi, dovuti semplicemente al dolore". Normalmente, riesce a contenere i dolori con uno o due spinelli al giorno. "Ma è un articolo da mercato nero, e quando paghi una media di 75 $ per un quarto di oncia e hai un'entrata di soli 444 $ al mese, non ne compri molta. Sento che non dovrei vivere come una delinquente a causa dell'ignoranza dei politici. Sono nella condizione di dover essere terrorizzata all'idea che la polizia venga a perquisire la mia casa. Andrò a perdere la mia casa e i miei bambini solo perché ho trovato qualcosa che mi rende capace di affrontare il mio male?"

    Come trentaduenne madre di tre bambini piccoli, ha riscontrato che la cannabis non compromette le sue facoltà allo stesso modo in cui le compromettevano le forti dosi di oppiacei: "Per qualche ragione, la marijuana rilassa il sistema nervoso e mi permette di lavorare mentalmente a un livello normale. Quando prendo il Darvocet o il Tylenol divento una persona diversa. Mi sveglio sentendomi drogata, vado a dormire sentendo mi drogata, mi muovo come una persona drogata. Mi lascio dietro pezzi di famiglia perché sono talmente sconvolta dai farmaci che non sono in grado di fare quello che dovrei, nemmeno starmene seduta a parlare con i miei figli o a leggergli una storia. Come madre non ho tempo da perdere con i miei bambini per colpa di uno stato mentale indotto dai farmaci". Questa donna fa eco a quanto era già noto nel XIX secolo, e cioè che la cannabis, sebbene non attenui il dolore altrettanto efficacemente quanto gli oppiacei, ha meno effetti collaterali seri e non crea il rischio della dipendenza.


2.8 Emicrania

    L'emicrania è un forte mal di testa che dura per ore o per giorni ed è accompagnato da disturbi alla vista o da nausea e vomito o da entrambi.

    In genere gli attacchi sono ricorrenti. In un soggetto predisposto, essi possono essere cagionati dallo stress, da certi alimenti e da certi tipi di stimolazione sensoriale (luce intensa, forti rumori, odori penetranti). La malattia si manifesta in genere prima dei venti anni di età e raramente dopo i cinquanta. Circa il 20% della popolazione ha avuto almeno un attacco di emicrania; le donne hanno una probabilità tripla di soffrire di emicrania rispetto agli uomini.

    Ci sono diversi tipi di emicrania. Nell'emicrania comune il dolore è solitamente pulsante e spesso, ma non sempre, localizzato su un lato della testa. Spesso è accompagnato da nausea o vomito e viene esacerbato da qualsiasi movimento o rumore. Nell'emicrania classica o cefalea, che al confronto è rara, l'attacco comincia con dei disturbi alla vista (tra i quali cecità parziale e lampi luminosi nel campo visivo) e talvolta con vertigini, debolezza su un lato del corpo, tintinnio nelle orecchie, sete, sonnolenza, o con la sensazione di una minaccia incombente. Questi disturbi neurologici sono seguiti da un forte dolore limitato a un lato della testa con ipersensibilità alla luce e, spesso, nausea e vomito. L'emicrania classica può anche risultare complicata da prurito, intorpidimento, debolezza o paralisi in varie parti del corpo. Un altro tipo di mal di testa probabilmente connesso all'emicrania è la cefalea a grappolo o cefalea notturna parossistica, che è più comune tra gli uomini che non tra le donne. Qui il dolore si concentra attorno a un occhio; è costante anziché pulsante, e in genere riesce a risvegliare dal sonno chi ne soffre. Tende a ricorrere nelle ore notturne per settimane o anche per mesi, per poi scomparire per mesi o addirittura per anni.

    Le emicranie sono probabilmente provocate da una dilatazione dei vasi sanguigni nel cervello. Possono cominciare a manifestarsi a causa di un disturbo neurologico o di più generali scompensi nella regolazione metabolica. È stato dimostrato che il tasso di serotonina (un neurotrasmettitore) cala durante un attacco.

    I farmaci possono essere impiegati sia per ridurre la durata degli attacchi di emicrania, sia per prevenire la loro ricorrenza a lungo termine. I prodotti chimici ricavati dal fungo della segale cornuta, che cresce alle spese della segale e di altre Graminacee, sono assai efficaci nell'arrestare un attacco nei suoi stadi iniziali; i derivati della segale cornuta inibiscono gli effetti della serotonina. Una volta che il mal di testa si sia completamente stabilizzato, si possono usare degli oppiacei (in genere codeina o meperidina) per attenuare il dolore. Alcuni farmaci prescritti per la prevenzione dell 'emicrania cronica sono il metisergide (che ha affinità con i derivati della segale cornuta), i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti, la cloropromazina (Thorazine(r)) e lo steroide prednisone. Il 10-20% dei malati non trae beneficio da questi farmaci, e una percentuale ben più alta ottiene un sollievo incompleto o risente di gravi effetti collaterali.

    Come abbiamo osservato, la cannabis era tenuta in grande considerazione come rimedio contro l'emicrania nel XIX secolo, eppure l'argomento è quasi completamente ignorato dalla letteratura medica del XX secolo.

2.8.1 Carol Miller, una malata di emicrania classica, descrive la sua esperienza come segue:

Ho avuto il mio primo attacco di emicrania a scuola, quando avevo quattordici anni. Gli effetti ottici di scintillio e tremolio, che inizialmente mi parvero curiosi, mi logorarono la vista al punto che non riuscivo a leggere cosa c'era scritto sulla lavagna. Chiesi il permesso di uscire dall'aula, entrai in infermeria e vomitai per diverse ore finché mia madre non venne a prendermi.

Dopo che questa situazione si era ripetuta diverse volte, mia madre mi portò dal nostro medico, amico intimo di famiglia e vicino di casa, dal quale mi facevo visitare molto spesso perché avevo un sacco di allergie. Lui e mia madre si trovarono d'accordo sull'idea che i mal di testa fossero causati dalla recente morte della mia sorellina, così lui non mi prescrisse niente contro la nausea e il dolore. Nonostante i mal di testa continuassero con una certa regolarità, fu soltanto in college che mi venne diagnosticata l'emicrania e che ricevetti le prime cure. All'infermeria del college mi diedero l'Ecotrin [aspirina rivestita], che mi fu di qualche aiuto per il mal di testa ma non per gli effetti ottici o per la nausea. Mi fece venire anche un tremendo bruciore di stomaco.

Una volta il dolore era così forte che mi fecero un'iniezione di Demerol [un oppiaceo sintetico], che spazzò via il dolore pressoché completamente, ma mi lasciò in uno stato di delirio. Alle volte prendevo uno sciroppo al gusto di banana (probabilmente codeina) che mi faceva venire molto sonno. Ricordo che era difficile farcela nel periodo degli esami di fine anno perché ero davvero sconvolta. Oltre tutto quella era la stagione in cui la mia asma peggiorava notevolmente.

Dopo la laurea, mentre lavoravo all'Università dell Indiana, fui visitata da un medico privato che mi prescrisse il Mudrane [un'associazione di farmaci che comprende efedrina e fenobarbitale], avvertendomi che dava assuefazione. Smisi di prenderlo perché mi sembrava che riducesse la mia pressione a valori così bassi che riuscivo a malapena a lavorare. Dopo che mi fui trasferita a San Francisco mi diedero da prendere il Darvon [propossifene, un altro oppiaceo], ma me ne servii solo per poco tempo perché mi faceva venire l'esantema.

Per un certo tempo avevo preso l'aspirina insieme alla codeina, ma trovavo che questa combinazione di farmaci mi rendesse terribilmente stitica. Quando rimasi incinta del mio primo bambino, ero molto preoccupata per le mie cure. Un amico mi disse che non c'era una medicina che potessi prendere senza correre rischi, e mi suggerì di ricorrere alle erbe. Stavo studiando erboristeria e mi preparavo a un parto naturale, perciò questo suggerimento mi sembrò giusto. Provai lo scullap, un tè leggero di valeriana e camomilla, e poi la lavanda. I tè avevano un effetto calmante e il ritmo di vita più lento, dopo che avevo lasciato il mio lavoro, mi fecero bene: le emicranie diventarono rare.

Diversi anni dopo le emicranie ritornarono, e mio marito mi disse che aveva letto che la marijuana andava bene per il mal di testa. Ero sbalordita. Due tiri e un breve riposo allontanarono completamente la nausea e il mal di testa. Non appena mi accorgevo di quel particolare tremolio nel campo visivo che mi preannunciava un'emicrania in arrivo, potevo fumare un po' di cannabis e schiacciare un breve pisolino: l'emicrania non si manifestava affatto. In genere ero pronta a tornare al lavoro nel giro di mezz' ora. Mi dava uno straordinario senso di potere avere finalmente un tale controllo sulle mie emicranie.

Nei diciotto anni che sono passati da quando ho cominciato a fare uso di cannabis per alleviare l'emicrania, mi sono fatta sorprendere diverse volte senza la mia erba quando ero lontana da casa. Una volta provai a prendere il Tylenol e mi accorsi che era abbastanza efficace contro il dolore, ma per niente contro la nausea e gli effetti ottici. Anche le mie figlie maggiori (che ora hanno diciassette e ventun anni) sono soggette a emicranie occasionali, che hanno cominciato a manifestarsi con le prime mestruazioni. Entrambe traggono uno straordinario sollievo dall'erba della cannabis. Mia madre soffre di forti mal di testa, ma non ha mai fatto uso di cannabis perché è illegale. Se la passa veramente male con i medicinali che le hanno prescritto: ha problemi di nausea, stitichezza, pressione alta. Le dico spesso che quando la marijuana sarà legale, e lei la userà per la prima volta e si renderà conto di quanto ha sofferto inutilmente per tutti questi anni, allora si arrabbierà sul serio.

    Il sollievo dall'emicrania potrebbe essere semplicemente un altro effetto analgesico della cannabis, ma uno studio suggerisce che ci sia di mezzo qualcosa di più. Si è scoperto che il THC inibisce il rilascio di serotonina dal sangue dei malati di emicrania durante un attacco (ma non in altre occasioni). Questa conclusione necessita di conferme e il suo significato rimane oscuro, ma potrebbe essere un indizio utile per ulteriori ricerche.


2.9 Prurigine

Don Spear è un uomo di cinquantadue anni di Flint, Michigan, che soffre di dermatite atopica, una malattia infiammatoria della pelle che rappresenta probabilmente una reazione allergica di origine sconosciuta. I sintomi sono prurigine (forte prurito) e comparsa di chiazze di pelle infiammata, specialmente su mani, faccia, collo, gambe e genitali. In genere la dermatite atopica viene curata con corticosteroidi e pomate applicate sulla pelle. Gli steroidi sono efficaci solo in parte e in ogni caso possono essere usati solo occasionalmente durante le crisi, dal momento che il loro uso prolungato comporta seri effetti collaterali. Gli antistaminici aiutano a contenere il prurito, ma anche loro hanno un'efficacia limitata. Grattarsi porta a infezioni sulle quali bisogna intervenire con antibiotici.

2.9.1 Don Spear racconta la storia riportata di seguito:

    Sono affetto da una malattia cutanea debilitante e potenzialmente letale chiamata neurodermite atopica. Nel 1954, quando avevo diciotto anni ed ero di guarnigione presso una base dell'esercito in Texas, mi accorsi che la pelle attorno ai miei occhi era irritata e squamosa. Dapprima pensai che dipendesse dal clima arido del Texas, ma poi vidi che il disturbo si aggravava e si diffondeva ad altre parti del corpo. Nelle zone interessate la pelle si irritava fortemente, prendeva un colore rosso cupo e cominciava a spaccarsi. Un anno più tardi, quando l'esercito mi trasferì in Germania occidentale, buona parte del mio corpo era coperta da aree di pelle pustolosa di colore rosso acceso, che continuavano a spaccarsi, ricoprirsi di croste e spaccarsi di nuovo. Queste aree diventarono infette a causa del mio continuo grattarmi.

I medici dell'ospedale militare in Germania mi diagnosticarono una neurodermite atopica. Provai tutti i medicinali, le pomate e i preparati a disposizione, ma nessuno fece effetto. Avevo le mani e le braccia lacere a causa della pelle spaccata, che si squamava, e del continuo grattare. Andai in cancrena e i dottori presero in considerazione l'idea di amputarmi entrambe le braccia fino al gomito. In uno sforzo estremo di evitare l'amputazione, mi fasciarono completamente gli avambracci in modo che non li potessi grattare; inoltre mi diedero da prendere dosi massicce di antibiotici e del nuovo "farmaco delle meraviglie", il cortisone. Per il prurito, che quasi mi faceva impazzire, i medici mi prescrissero tranquillanti e sedativi. Le braccia furono salvate, ma io non potevo più tollerare altro cortisone. Nonostante i migliori sforzi dell'esercito, la mia malattia cutanea era incontrollabile. Nel gennaio del1956 fui congedato con una disabilità connessa al 50% con il servizio. Nei dieci anni successivi provai quasi ogni medicinale e farmaco ufficiale a disposizione: forti dosi di Librium, Valium e altri tranquillanti che inducono dipendenza, creme e pomate di cortisone, bagni e preparati a base di catrame di carbone. Nessuno mi diede sollievo a lungo termine. Diverse volte fui ricoverato in ospedale per infezioni causate dall'irresistibile prurito e della pelle spaccata.

Poiché la mia malattia cutanea mi sfigurava, era difficile trovare lavoro. I datori di lavoro non mi assumevano e gli altri dipendenti non volevano lavorare con me. Finalmente fui assunto dalla Fisher Body Company, ma ebbi ripetutamente bisogno di lunghi periodi di congedo per malattia. Dopo dieci anni la compagnia calcolò che mi ero fatto sei anni di malattia e mi licenziò. Cercando lavoro per mantenere mia moglie e quattro bambini, mi resi conto una volta di più che molte persone non avevano nessuna intenzione di assumermi. La mia malattia cutanea persisteva. Mi svegliavo spesso alla notte per scoprire che del sangue era trasudato dalla cute sul cuscino. Il prurito era così intenso e insopportabile che usavo la carta vetrata direttamente sulla pelle per trovare sollievo. Il mio matrimonio andò in malora e diventai molto schivo e timoroso.

Nella primavera del 1973, un mio amico che aveva combattuto in Vietnam mi raccontò di aver fumato marijuana quando era là e di averla trovata gradevole. lo ero riluttante a provare, non solo perché era illegale ma anche perché non mi piace fare uso di droghe di qualsiasi genere. Avevo abbandonato da molto tempo l'alcol e il tabacco, e la mia esperienza con i farmaci mi aveva reso ancor più cauto. Provengo da un retroterra culturale rigoroso e moralista, nel quale l'uso di droghe non riscuote certo approvazione. Un fine settimana, a una corsa automobilistica, mi decisi finalmente a fare un paio di tiri dalla sigaretta di marijuana
del mio amico. È possibile che abbia fatto un paio di tiri anche da un 'altra sigaretta il giorno dopo. Non avevo notato niente di insolito dopo aver fumato, nessun effetto sulla mente. li martedì o il mercoledì della settimana seguente mi accorsi che una zona particolarmente malridotta della mia pelle appariva molto meno arrossata e infiammata. Mi venne in mente che il prurito non mi tormentava da diversi giorni. Mi chiesi se la marijuana potesse avere qualcosa a che fare con l'inaspettato miglioramento, ma non diedi molto credito all'idea.

li fine settimana successivo il mio amico e io andammo a un'altra corsa d'auto, e ancora una volta lui mi offrì la marijuana. li prurito mi era ormai tornato, ma cessò improvvisamente con il primo tiro. Ero allibito. Dopo che avevo provato per anni ogni farmaco e ogni prodotto disponibile per la pelle senza trame sollievo, il prurito era cessato con un tiro di una sigaretta di marijuana. Nei tre anni successivi continuai a fumare marijuana solo nei fine settimana, senza fare mai più di pochi tiri alla volta. Le condizioni della mia pelle migliorarono in modo sbalorditivo. Siccome non mi grattavo più, la pelle spaccata guarì. Poi le chiazze rosse cominciarono a sparire e vennero rimpiazzate da pelle normale.

In breve tempo non ero più sfigurato. Trovai un impiego fisso e diventai un lavoratore indefesso. Non dovevo più prendere congedi per malattia.
All'inizio del 1977 i miei fratelli maggiori scoprirono che stavo fumando marijuana e lo dissero ai nostri genitori. Anche se avevo passato i quarant'anni, mi preoccupavo molto di non urtare la loro suscettibilità. Spiegai loro la situazione, ma mi resi conto che non erano convinti. A vevano paura che fossi diventato un tossicodipendente. Dissi loro che avrei smesso di fumare marijuana per tre mesi, per vedere cosa succedeva. Non avevo mai sperimentato nessun tipo di inconveniente fisico o mentale, e non trovai difficoltà a smettere. Non mi venne nessun genere di smania, non ebbi né "tremiti" né "sudori". Ma nel giro di tre giorni tutto il corpo mi prudeva. La pelle tra le dita dei piedi e delle mani si irritò e si infiammò. L'infiammazione si estese rapidamente a mani e piedi, per propagarsi a braccia e a gambe, e poi al cuoio capelluto, alla testa e al torace. Nel giro di poche settimane la pelle mi si stava spaccando, mi grattavo in continuazione, e strie di colore rosso scuro cominciavano a comparire su gran parte del mio corpo. Mi stavo sfigurando di nuovo, e di notte trovavo sangue sulle lenzuola. I miei genitori e mio fratello si allarmarono e cercarono di convincermi a riprendere a fumare la marijuana. Ero riluttante, perché non mi piaceva essere considerato un tossicodipendente. Alla fine, compresi che la mia famiglia non si preoccupava del fatto che la marijuana fosse illegale. Erano interessati soltanto ai suoi effetti sulla mia pelle.

Ricominciai a fumare nei fine settimana. Stavolta ci volle quasi un anno prima che la pelle ritornasse alla normalità. Ho continuato a fumare marijuana per i dieci anni seguenti (fino al febbraio del 1987) e i miei disturbi cutanei sono rimasti sotto controllo. Ho mantenuto uno stato di servizio esemplare e non ho mai fumato in orario lavorativo. Nel febbraio del 1987 , venni a sapere che la mia ditta intendeva effettuare delle analisi delle urine su un certo numero di dipendenti scelti a caso. Chiesi aiuto ai rappresentanti del mio sindacato, e nel frattempo mi interessai presso i medici della Veterans' Administration perché mi aiutassero a procurarmi la marijuana legalmente. Loro mi indirizzarono all'unità di riabilitazione dalle droghe della VA, dove mi fu detto che non avevo problemi di droga. In pratica, i medici stabilirono che io mi limitavo a fare uso di quella droga a scopo terapeutico. Mi incoraggiarono a continuare a fumare marijuana. Ma la minaccia di un'analisi delle urine e della possibile perdita del posto di lavoro mi avevano turbato profondamente. Confuso, non sapendo cosa fare, smisi di fumare. La mia malattia cutanea tornò a manifestarsi quasi immediatamente.

Dopo poche settimane era già grave e peggiorava rapidamente. I miei genitori, mio fratello, alcuni buoni amici e addirittura i miei rappresentati sindacali mi incoraggiarono a ricominciare a fumare marijuana. L'alternativa era obbedire alla legge e vivere con una malattia cutanea deturpante che avrebbe potuto, a causa delle infezioni conseguenti, uccidermi. Mi presi un congedo per malattia e cominciai a coltivare la marijuana per conto mio.

Nel dicembre del 1989 un vicino di casa lo andò a dire alla polizia. Fui arrestato e condannato. La sanzione consisteva in una grossa multa, in quattro mesi di arresti domiciliari e due anni di libertà condizionata. Il giudice disse che tutte le accuse a mio carico sarebbero venute a cadere se avessi ottenuto una prescrizione legale. Ma ho dovuto smettere di fumare a causa delle analisi delle urine al lavoro. Da quando ho smesso di nuovo (dicembre 1989) il prurito è stato pressoché costante, e la pelle si spacca ripetutamente e perde fluidi in corrispondenza di piedi, mani, cuoio capelluto, gambe, torace e persino del pene.

La marijuana è l'unica sostanza che previene sia le lesioni cutanee, sia l'insopportabile prurito. Se la marijuana fosse legale, riuscirei a controllare questa malattia infernale. La marijuana potrebbe essere di aiuto per altre migliaia di persone con simili problemi alla pelle, ma su questo non si fa ricerca perché la marijuana è una droga proibita e ai medici non piacciono le controversie politiche.


2.10 Dolori mestruali e doglie

Due applicazioni abituali della cannabis nel XIX secolo erano la cura dei dolori mestruali e l'attenuazione delle doglie. Sebbene non esista alcuno studio sull'argomento nella letteratura medica del XX secolo, molte donne hanno provato la cannabis e per alcune di loro è la medicina preferita, specialmente per il sollievo dai dolori mestruali.

2.10.1 La seguente testimonianza descrive entrambi gli impieghi, come anche l'effetto benefico sulla nausea durante la gravidanza:

Sono una casalinga di trentasette anni. Gestisco una piccola attività, faccio volontariato nella scuola di mia figlia e mi presto come accompagnatrice nelle gite di classe. Ho l'aria di una "regolare" e molti dei miei vicini e conoscenti non sospettano minimamente che io fumi marijuana. Per molti anni ho sofferto di forti dolori mestruali. Nel 1976 una laparoscopia rivelò la presenza di cisti alle ovaie e endometriosi. Mi dissero che l'endometriosi sarebbe ritornata anche dopo un'operazione, così decisi di non fame neanche una. Feci iniezioni di ormoni per diversi mesi, ma poi le interruppi perché avevo paura di un possibile cancro. I calmanti che mi erano stati prescritti mi facevano sentire troppo drogata perché potessi essere efficiente come madre. In quel periodo usavo la marijuana a scopo ricreativo, la fumavo in gruppo con gli amici e, casualmente, scoprii anche che attenuava i miei dolori mestruali. Oggi la maggior parte dei miei amici non sa nemmeno che fumo; invece, non appena inizia il mio ciclo mestruale, io mi accendo uno spinello.

Ho avuto il mio primo bambino nel 1972, quando avevo soltanto diciassette anni. I dottori mi fecero un'iniezione per farmi dormire e quando mi svegliai mi ritrovai con un bambino letargico. Passammo tre giorni in ospedale. Nel 1979, quando ho avuto il mio secondo figlio, avevo seguito dei corsi di parto naturale; inoltre avevo fumato marijuana mentre ero diretta all'ospedale. La marijuana mi rilassò ben bene e in questo modo alleviò parte del dolore, ma il suo effetto durò soltanto un'ora e mezza circa. Quella volta rimasi in ospedale soltanto per venti ore, e mi sorprese vedere quanto il mio secondo figlio fosse più sveglio e affamato a paragone del mio primo, povero bambino drogato.

Nel 1991 rimasi ancora incinta. Al settimo mese mi venne la nausea, soffrii di bruciori di stomaco, e cominciai a vomitare dalle due alle quattro volte al giorno: abbastanza per non aumentare per niente di peso. Il dottore stabilì che la causa di tutto questo era la pressione che la bambina esercitava sulla valvola in cima allo stomaco. Cominciai a fumare marijuana prima dei pasti, arrivando in questo modo a vomitare soltanto due volte alla settimana. La bambina pesava quasi quattro chili alla nascita. Mi domando quanto sarebbe stata piccola se non avessi fatto uso della mia medicina antinausea preferita.

In quell'occasione, il giorno del parto rimasi a casa e fumai marijuana per le prime sette ore del travaglio. Partorii meno di tre ore dopo essere arrivata all'ospedale e il dolore non rappresentò un problema finché l'effetto della marijuana non svanì, subito prima che partorissi. Quella volta non fui sorpresa del fatto che la bambina fosse sveglia e affamata. Tornammo a casa sei ore dopo il parto; passai in ospedale meno di nove ore, così che il mio ricovero risultò più breve di un giorno.