La volta scorsa abbiamo parlato dei grinder e constatato come un accessorio utile, possa diventare poco pratico nelle sue versioni “evolute”. Anche nel campo degli accessori per vino questa regola può esser valida: molti cavatappi cosiddetti “professionali” sono ingombranti e poco pratici, altri non vanno oltre la loro funzione estetica, o si rompono dopo il primo utilizzo.
Esistono un’infinità di accessori per il vino: i salvagoccia, i decanter e tappi diffusori per decanter, le termobottiglie, i secchielli e i portasecchielli, i termometri per vino, le spumantiere, i levatappi, gli stopper e molti altri ancora. Ma per degustare al meglio un vino, sono sufficienti un cavatappi e un bicchiere, meglio se di cristallo; e magari un decanter, se il vino è invecchiato di qualche anno, al fine di ossigenarlo e poterlo così degustare al meglio. Il vino avrà bisogno di prendere aria per sprigionare tutti i suoi profumi, dopo anni chiuso in una bottiglia. La singolare forma del decanter non è infatti casuale: la sua pancia molto larga serve ad aumentare la superficie del vino a contatto con l’aria, accelerando così il processo di ossigenazione.
Processo che può durare anche alcune ore, in base alla data di imbottigliamento del vino e dei vitigni del quale è composto.
Dalla fraschetta all’enoteca.
Negli ultimi anni la cultura del vino è aumentata notevolmente, ma in molti casi è solo apparenza. Fino a 10-15 anni fa, per i romani era scontato andare a bere il vino in quelle che a Roma si chiamano “fraschette”, ovvero osterie senza cucina, nelle quali non c’è carta dei vini. Nelle fraschette si ordina semplicemente vino rosso o vino bianco, servito con pane e ghiottonerie gastronomiche locali, le quali si accompagnano perfettamente alla bevanda degli dei. Il tutto ha luogo nella splendida cornice dei castelli romani, una zona dove si produce da sempre vino. L’esperienza nel complesso risulta piacevole, ma nella maggior parte dei casi troviamo un vino di scarsa qualità, con i difetti classici dei vini “genuini” ma conservati male. Potremmo paragonarlo al “vino della casa” che si trova al ristorante, spesso è un vino che viene da un altra regione, fatto con vitigni “commerciali”, trasportato senza troppe cure, conservato in luoghi e contenitori non sempre idonei e travasato più volte. Ad una attenta analisi olfattiva è vinoso, senza nessun bouquet o profumi particolari, ha un sapore acidulo, e troviamo il gestore pronto a decantarne qualità inesistenti.
Anche le fraschette in tempi di globalizzazione si sono adattate, in alcuni casi sono diventati dei veri e propri “wine bar” forniti di vini d’oltreoceano, arredamenti moderni e personale distaccato e professionale. In questo modo rischiamo di perdere le diversità legate al territorio; a mio giudizio bisogna riservare una maggiore attenzione nella conservazione e nella scelta del vino, ed occorre mantenere intatta quell’atmosfera di convivialità e genuina accoglienza tipici delle province italiane, con tutte le loro biodiversità. Questo è il vero obbiettivo da raggiungere, per non rischiare di trovarci in locali sempre tutti uguali, a bere sempre gli stessi vini!
Gennaro Maulucci
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Pubblicato su Dolce Vita n°9 – Marzo/Aprile 2007