Negli ultimi anni l’Autore si è ritrovato a studiare la documentazione di oltre mezzo secolo di ricerche, sia italiane che europee e nord americane. Inoltre ha potuto raccogliere le testimonianze di molti soggetti che avevano avuto esperienze con sostanze psichedeliche. Il fatto lo ha portato più che a ottenere dati univoci e a raggiungere una posizione teorica salda, a guardare criticamente tutto il percorso svolto finora, e a porsi tutta una serie di interrogativi e riflessioni che vuole condividere con i Lettori di Dolce Vita.
Ieri e oggi (Parte Prima)
La ricerca psichiatrica e psicoterapeutica con sostanze allucinogene può essere divisa per comodità in due fasi ben distinte. La prima che va, a grandi linee, dalla scoperta delle proprietà psicoattive dell’LSD alla fine degli anni Sessanta, quando lo stesso venne ritirato dal commercio e inserito, in tutte le legislazioni di tutti i Paesi, nella tabella delle sostanze illegali senza nessun valore terapeutico.
La seconda che inizia intorno alla fine degli anni Ottanta e che prosegue tuttora. Le prime ricerche psichiatriche con LSD erano basate su di un approccio rigidamente meccanicistico, e si riteneva che la sostanza producesse un’esperienza “psicotico-simile”, addirittura una sorta di “psicosi modello”, in grado di fornire dati utili per la comprensione della dinamica delle malattie mentali. D’altra parte il problema delle malattie mentali è sempre stato causa di contrasto e di disorientamento fra i medici e i ricercatori, sempre alla ricerca di una risposta univoca e definitiva ai tanti loro “perché”.
La scoperta dell’LSD, della sua incredibile potenza, del fatto che dosi infinitesimali erano in grado di modificare in maniera così radicale e profonda le funzioni psichiche e mentali, diede un nuovo e inaspettato impulso alla teoria che guardava alle psicosi endogene, schizofrenia in particolare, come il prodotto di una modificazione biochimica. Si credeva così che, come dosi estremamente basse di LSD (anche a partire da 25 milionesimi di grammo!) potevano produrre incredibili modificazioni percettive, emotive, ideative e persino comportamentali in soggetti sani, altrettanto il metabolismo umano poteva, in determinate circostanze, produrre piccole quantità di sostanze identiche o simili all’LSD. Le psicosi endogene in base a questa ipotesi non dipendevano quindi da disordini psichici ma sarebbero il risultato di una sorta di autointossicazione del cervello causata da una modificazione della chimica del corpo. La possibilità di produrre sintomi “schizofrenici” in volontari sani, di condurre complessi test di laboratorio prima, durante e dopo questa transitoria “psicosi modello”, sembrava poter offrire una chiave per la comprensione di quelli che ancora oggi rimangono i più “misteriosi” disturbi psichiatrici.
Un simile approccio, ingenuamente riduzionistico ed estremamente semplicistico, non riuscì però mai a dare corpo ad una attendibile teoria neurochimica della malattia mentale né ad una comprensione univoca dell’esperienza psichedelica, e venne ripetutamente criticato dai Ricercatori di formazione fenomenologica e psicoanalitica; oltretutto non fu mai supportata da dati di laboratorio certi. In seguito alla messa al bando delle sostanze psichedeliche, c’è stata una vera e propria “rimozione” da parte del pubblico rispetto ad esse. La sperimentazione terapeutica e in genere tutta la ricerca sulle sostanze psichedeliche si è ufficialmente interrotta, lasciando un vuoto sia scientifico che culturale ancora oggi difficile da recuperare. Inoltre gli studiosi e i ricercatori che fino agli anni Settanta si erano occupati di queste sostanze di colpo si ritrovarono costretti a tacere, quasi fossero dei criminali. C’è voluto un vero e proprio ricambio generazionale anche tra i Ricercatori, e per questo ci vuole necessariamente del tempo.
Dopo quasi trent’anni di apparente oblio, le sostanze allucinogene sembrano essere uscite dal ghetto in cui furono relegate dall’oscurantismo legislativo e da una classe medica più preoccupata dall’uso ricreazionale di tali sostanze e dal loro possibile impatto sociale che non dal proseguimento della ricerca farmacologica; in altre parole, sembrano ritrovare un nuovo interesse nel campo della ricerca clinica e psicoterapeutica. In Europa, nella vicina Svizzera, fin dal 1985 è iniziato un ambizioso progetto di sperimentazione terapeutica con LSD e MDMA (“Ecstasy”); sempre in Svizzera si sta conducendo presso l’Università di Zurigo una ricerca sugli effetti biochimici della psilocibina e di altri allucinogeni su soggetti adulti sani. Anche in Germania la ricerca sembra porsi in prospettive interessanti.
Negli Stati Uniti è attivissima l’équipe del dott. Strassman, che da quasi dieci anni conduce ricerche psicofarmacologiche con DMT, di cui recentemente sono stati pubblicati i risultati. Anche in Russia troviamo una attenta sperimentazione, grazie al dott. Krupinski, questa volta con Ketamina. Per non parlare dell’esperienza sulla terapia di disintossicazione portata avanti dall’organizzazione franco-peruviana di Takiwasi, con l’utilizzo della bevanda ayahuasca, e della ricerca statunitense, sempre nel trattamento delle tossicodipendenze, con ibogaina. Anche se questa sostanza è ufficialmente sperimentata nell’Università di Miami dal 1995, i gruppi self-help di ex tossicodipendenti riportano da quasi vent’anni risultati incoraggianti nell’interruzione della crisi di astinenza. Ancora più recentemente sul prestigioso Journal of Clinical Psychopharmacology è stato pubblicato un articolo sui possibili effetti antidepressivi della Salvia divinorum. Questo articolo è stato ripreso nelle pagine del Bollettino SISSC.
Se da un lato è evidente che l’LSD e le altre sostanze psichedeliche producono stati di coscienza con specifiche caratteristiche, chiaramente e nettamente distinguibili da quelli tipici degli stati psicotici, dall’altro, però, soprattutto negli ultimi anni, molti studiosi hanno finito con lo scivolare nell’errore opposto, quello cioè di allontanarsi da un approccio rigorosamente scientifico per approdare a quella che ironicamente chiamo “mistica degli psichedelici”, attribuendo ad essi “proprietà” che non hanno mai avuto e che mai avranno, quasi fossero entità metafisiche dotate di esistenza loro propria. Forse per distanziarsi dalle posizioni rigidamente riduzionistiche dei primi anni ’50, quelle della “psicosi modello” tanto per intenderci, si è finiti per cadere in un riduzionismo opposto, altrettanto ingenuo e indifendibile dal punto di vista sperimentale e scientifico.
Porre l’accento sulla psicodinamica dell’esperienza psichedelica trascurando del tutto la componente biochimica –non dimentichiamo che stiamo parlando di sostanze chimiche che agiscono su specifici neurotrasmettitori- significa, ben che vada, confondere causa ed effetto. Certo, molti dati confermano che il potenziale terapeutico delle sostanze psichedeliche sta nel fatto che esse permettono l’emergere alla coscienza del materiale rimosso, quindi facilitare l’introspezione, oltre che permettere una miglior comunicazione fra paziente e terapeuta, grazie alla loro azione disinibente e talora euforizzante. A volte era sufficiente una sola somministrazione della sostanza per provocare una profonda influenza sull’intera struttura psichica del paziente; a volte, come afferma Grof, il cambiamento era così drammatico da essere paragonabile ad una sorta di “conversione psichica”. Tutto questo è vero, ma non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di effetti, non di cause. L’approccio rigidamente psicodinamico ci può far comprendere come una sostanza agisce, mai perché produce quel determinato tipo di effetto.
Gilberto Camilla
Pubblicato su Dolce Vita n°7 – Novembre/Dicembre 2006