2. IL REATO PREVISTO DAL COMMA 5° DELL’ART. 73 CONTINUA IL MUTAMENTO.

Il DL 36/2014 ci offre, inoltre, l’ennesima performance modificativa del comma 5° dell’art. 73 del DPR 309/90, norma sottoposta nell’ultimo arco d’anno ad una stressante serie di interventi di restiling, che, talora, come nel caso di quello in esame, paiono del tutto stravaganti ed incomprensibili per l’assenza di un profilo di strategia logico-giuridica.
L’esito partorito appare, infatti, un vero pateracchio compromissorio di basso livello logico-giuridico.
Immediatamente, infatti, si può affermare che non è affatto vera la categorica affermazione che la rimodulazione della pena nel massimo edittale, fissando il relativo limite a quattro anni, impedirà che l’indagato venga arrestato.
Si continua, quindi, nonostante le assicurazioni, a perpetuare nocivi effetti in tema di libertà personale l’art. 381 comma 1 cpp (che regola l’arresto facoltativo in flagranza e legittima il processo per direttissima); certo, non potrà essere applicata dal giudice la misura della custodia in carcere, ma questa appare una conseguenza del tutto minima e residuale, alla luce della esperienza quotidiana forense.
Un piccolo vantaggio deriva dal fatto che il condannato potrà godere del diritto alla sospensione dell'ordine di esecuzione ai sensi dell’art. 656 co. 5 c.p.p., venendo meno la circostanza ostativa della costanza di stato di custodia cautelare di cui al co. 9 lett. b) del medesimo art. 656 .
E’ ben vero, inoltre, che il limite massimo di pena di quattro anni, permetterà l’accesso dell’imputato/indagato alla possibilità di richiedere l’applicazione della messa alla prova di cui al nuovo art. 168 bis c.p. (introdotto con L. 67 del 28 aprile 2014), ma questa è, comunque, un’opzione che – almeno per quanto attiene coloro che fossero stati denunziati per fatti commessi sino al 23 dicembre 2013 (data di entrata in vigore della L. 146/2013) in relazione alla cannabis - era già possibile.
E’, comunque, del tutto inconcepibile – sul piano razionale - che il legislatore, il quale si accredita (e si vanta) come portatore di un disegno che mira a sanzionare tutti i comportamenti riguardanti le droghe (non dimentichiamo che le condotte non propriamente reato del comma 1 bis dell’art. 75, sono pur sempre contemplate come illeciti sanzionati amministrativamente) proceda, poi, ingiustificatamente alla diminuzione del trattamento sanzionatorio comune a tutti i fatti di lieve entità (abbassandoli ai livelli di pena che la il dpr 309/90, nella versione originaria JERVOLINO-VASSALLI prevedeva solo per le droghe leggere) pur di non ammettere una ovvia, quanto razionale, distinzione sanzionatoria fra sostanze psicoattive di differente pericolosità.
Il paradosso è, dunque, solare.
Invece di incentivare il contrasto alla diffusione delle droghe pesanti (di per sé, all’evidenza, assai pericolose e letali), il legislatore (o, comunque, una precisa fascia parlamentare) ossessionato esclusivamente ed irragionevolmente dal tema cannabis, giunge inspiegabilmente, addirittura, a diminuire le pene riguardanti le violazioni del comma 5°, con una sorprendente, quanto contraddittoria – rispetto ai proclami - scelta al ribasso.
La rimodulazione della pena nei termini appena indicati, non è, però, l’unica schizofrenia ideologico-politica, che sia ravvisabile nel testo del DL 36/2014.
Emerge e sconcerta, infatti, la immotivata pervicacia che la quale il governo (a taluno che lo sostiene) ha insistito affinchè venisse ribadito il concetto dell’unicità del trattamento sanzionatorio, qualunque fosse la tipologia della sostanza.
L’argomento principe utilizzato – a vaga giustificazione - è quello che la sentenza n. 32 della Corte Costituzionale ha abrogato il DL 272/2005 e la conversione nella L. 49/2006, solo per motivi di natura formale, non essendo stato formulato un vero e proprio giudizio di costituzionalità della norme in esso contenute.
L’osservazione è all’apparenza – ma solo all’apparenza – parzialmente veridica.
In realtà, chiunque si approcci alla decisione del giudice delle leggi in buona fede, legge nella decisione della Consulta – che abbraccia per implicito anche il merito della legge – una pesante censura senza appello sul disinvolto modo di legiferare dei padri del DL 272/2005, che risulta caratterizzato dalla mistificata evocazione della infondata sussistenza di motivi di urgenza ed indifferibilità, che ha legittimato la scelta di dare corso ad un decretazione di urgenza (violazione dell’art. 77 Cost.).
Dunque la sentenza della Corte Costituzionale costituisce un vero tsunami che mette a nudo la assenza di correttezza della procedura legislativa, che ha ecceduto la delega normativa, il difetto dei presupposti evocati e, al contempo, la necessità che materie come quella in oggetto siano caratterizzate da un dibattito parlamentare ampio e profondo.
Ciò posto, si deve rilevare che la riformulazione del comma 5° dell’art. 73 (pur nella conferma di tale opinabile assimilazione sanzionatoria già fatta propria dal DL. 23 dicembre 2013 n. 136 conv. in L. 21 febbraio 2014 n. 14) trasuda molteplici profili di incostituzionalità.
Al di là delle considerazioni generali, si ripresentano i dubbi di compatibilità con l’art. 77 comma 2° Cost. per il ricorso alla decretazione di urgenza in una materia come quella dell’ipotesi di lieve entità, modificata dall’art. 1 comma 24 ter DL 36/2014, atteso che non si comprende quali siano le effettive ragioni di impellenza ed indifferibilità che abbiano consigliato l’adozione l’inserimento di tale disposizione in un contesto variegato e di maggiore ampiezza .
Non si dimentichi che l’intervento modificativo, prescindendo dal palese sospetto di incostituzionalità di merito, appare insipiente, se non – addirittura – inutile perchè si limita a ridurre i minimi e di massimi edittali di una pena.
Né si può seriamente sostenere che la diminuzione del massimo edittale da 5 a 4 anni, pur determinando la non più assoggettabilità alla applicazione di misura cautelari, ma comunque, la permanenza della possibilità di arresto della fattispecie, costituisse una modifica da attuarsi con un urgenza assoluta e solo con il mezzo del decreto legge .
Ulteriore profilo di contrasto della norma – sotto il profilo dalla logica e della ragionevolezza- involge l’art. 3 Cost. .
A) L’ipotesi lieve governa una situazione di fatto, la quale differisce dall’ipotesi ordinaria solamente in funzione di un giudizio soggettivo di minima offensività della condotta, che si esprime attraverso parametri tipicizzati.
B) L’incipit “Salvo che il fatto costituisca più grave reato” [che è stato introdotto quale elemento qualificante la natura di reato autonomo in luogo di circostanza aggravante, (cfr. Cass. Sez. Terza sent. 16029 17 aprile 2014 e Sesta sent. 14288 26 marzo 2014)] appare sintomatico indice della strettissima ed intima sintonia ed analogia sia fattuale che giuridica che intercorre fra le fattispecie contemplate ai commi 1, 4 e 5 dell’art. 73.
C) Di particolare rilievo, se non risolutiva, nel senso della fondatezza della tesi di incostituzionalità che si prospetta, appare, poi, la formulazione del precetto “Chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo…”, posto che tale perifrasi dimostra che non vi è alcuna differenza materiale in ordine alle condotte ritenute penalmente rilevanti dal comma 5, rispetto a quelle previste dai commi 1 e 4.

Se, dunque, non è ravvisabile alcuna significativa differenza tra il reato concernente le condotte di lieve entità e quello contenuto nel testo riguardante l’ipotesi ordinaria di base dell’art. 73, non pare affatto accettabile, nè condivisibile la scelta di adottare un parametro sanzionatorio ad hoc per l’ipotesi di lieve entità.
Ad avviso di chi scrive, risulta illogico e contrario a principi di giustizia sostanziale che l’impostazione fondamentale, che individua – in relazione al reato base - una duplicazione di sanzioni, stabilendo una pena ad hoc per le sostanze inserite in specifiche tabelle riguardo al caso concreto, subisca una deroga in dipendenza di un giudizio successivo, che involge il livello puramente soggettivo di gravità del fatto stesso.
Ci troviamo di innanzi ad una norma (l’art. 73) che, esaminata nella sua complessività, si manifesta, quindi, come tutt’altro che coerente sul piano della metodica sanzionatoria.
Il discrimine riguardante l’offensività di sostanze tra loro differenti (che si traduce in concreto in trattamento sanzionatori diversi) deve costituire un principio di natura permanente e costante, che non può patire eccezioni di sorta, soprattutto se le eccezioni discendono da elementi accidentali del reato, i quali non inficiano la struttura sostanziale della fattispecie.
Il comma 5° è un reato minor, ma è pur sempre (sia materialmente, che formalmente) il medesimo reato descritto nei comma 1 e 4 dell’art. 73, perché medesime sono le condotte materiali.
Altro argomento che, reputo, merita essere considerato a sostegno della critica che si avanza, si desume dal ripristino di una pluralità di tabelle, all’interno della quale collocare – separatamente – le singole sostanze.
La circostanza che la cannabis sia stata inserita nella tabella II, conferma, infatti, la differenza e di tale sostanza da quelle inserite nella tabella I (per definizione droghe pesanti).
La distinzione, così, operata, non risponde (né può rispondere) ad un mero canone di carattere formale, bensì esso è elemento di base e costitutivo delle previsioni sanzionatorie contenute nell’art. 73 co. 1 e co. 4, posto che ciascuna di tali disposizioni opera un preciso ed in equivoco riferimento tabellare , l’una alla tabella I, l’altra alla tabella II.
Il doppio binario venutosi, così, a creare per la scelta legislativa in commento, non appare, quindi, affatto fondato e giustificato.

3. IL RECUPERO DEL COMMA 5 BIS .

Un effetto deleterio, indiretto, della decisione della Corte Costituzionale era consistito nella abrogazione dell’art. 73 comma 5 bis , norma che introduceva misure alternative al carcere, in relazione a condanne che fossero state pronunziate, in relazione a vicende rientranti nel contesto della lieve entità, che avessero visto come imputate persone tossicodipendenti o assuntrici di sostanze psicoattive.
Nella più generale ed ampia visione ed impostazione che mira ad introdurre nel nostro sistema penale forme alternative al carcere sia di natura preventiva (ad esempio la messa alla prova di cui all’art. 168 bis e segg. c.p., prevista dalla L. 67 del 28 aprile 2014 , che si palesa come metodo di definizione del giudizio in sostituzione delle altre ipotesi di celebrazione dello stesso), che successive al vero e proprio giudizio penale (ad esempio il comma 9 bis dell’art. 186 o il comma 8 bis dell’art. 187 CdS), il recupero di questo istituto – che rientra indubbiamente nella categoria dei rimedi successivi determinando la conversione di una pena inflitta – appare una scelta condivisibile.
Per vero, si deve rilevare che la previsione del comma 5 bis, non aveva avuto una capillare applicazione in questi anni, ottenendo un apprezzamento indubbiamente inferiore alle attese createsi.
Il nuovo tentativo di prevedere, in ipotesi di impossibilità di riconoscere all’imputato la sospensione condizionale della pena che gli venga inflitta, una soluzione che precluda l’accesso al carcere, pare meritevole, comunque, di sostegno.
Circoscrivere tale opzione ai soli fatti di lieve entità, pare – ad avviso dello scrivente – un’opzione corretta, in quanto marca in modo preciso il valore del reato di cui al comma 5°, che spesso, è assunto come discutibile formula definitoria di carattere compromissorio di situazioni borderline, vale a dire episodi posti sullo spartiacque tra liceità ed illiceità.