Giorgio Samorini, famoso e attivo ricercatore nel campo dell’etnobotanica e dell’etnomicologia, è conosciuto in tutto il mondo per aver studiato le relazioni di vari popoli con le droghe facendo delle scoperte a dir poco illuminanti. “Animali che si drogano” è uno dei suoi libri più conosciuti e apprezzati, pubblicato recentemente in edizione aggiornata dopo 13 anni. Ho avuto l’onore di approfondire il lavoro di Samorini, maggiore esponente della 3° generazione di studiosi del settore, che vanta dei predecessori di tutto rispetto come Mantegazza e Hofmann.
Come e quando ti sei avvicinato al mondo dell’etnobotanica? Qual è la cosa che ti ha colpito maggiormente di questo mondo?
Alcune esperienze giovanili con gli “psichedelici” – parlo di 35 anni fa – mi sorpresero molto, poiché i loro effetti non rientravano nel concetto di droga che avevo a quei tempi e che si identificava con i luoghi comuni mass-mediatici. “Questa non è droga!”, continuavo a ripetermi, i livelli di autoanalisi e di consapevolizzazione offerti dai loro effetti erano ben altra cosa da ciò che la società diceva sulla droga. E ne dedussi anche che l’uomo ha vissuto queste esperienze da sempre o almeno da un certo sempre; rimasi affascinato da questa mia “scoperta” personale e iniziai ad avvicinarmi, attraverso gli studi etnobotanici, antropologici e archeologici, all’utilizzo delle droghe presso le popolazioni tribali o del passato. Rifiutando il modello interpretativo mass-mediatico occidentale, avendone riscontrato limitazioni ideologiche e moralismi, volevo cercare altri modelli interpretativi sulle droghe. E iniziai anche a viaggiare, recandomi fra tribù messicane, amazzoniche, africane, con lo scopo di osservare i loro utilizzi delle droghe, i contesti – quasi sempre ritualizzati -, le relazioni sociali durante l’effetto, le motivazioni che avvicinavano quegli uomini alle droghe. Mano a mano mi resi conto che l’uso delle droghe, lungi dall’essere unicamente un problema di natura patologica, è una costante comportamentale umana, che andava studiata seguendo un approccio obiettivo e libero dai pregiudizi ampiamente diffusi anche nell’ambiente scientifico.
Il tuo lavoro si basa fondamentalmente sulla cosiddetta scienza delle droghe fondata dal medico italiano Mantegazza, un metodo per studiare le droghe psicoattive in relazione alla fenomenologia e agli studi scientifici. Quanto ha influito il lavoro di Mantegazza sul tuo?
Quando scoprii il lavoro di Paolo Mantegazza mi trovavo in una fase già abbastanza strutturata delle mie ricerche; stavo indagando su chi nel passato in Italia si era interessato alle droghe sotto il loro aspetto fenomenologico, e letteralmente scoprii sotto le coltri della dimenticanza il grande studio svolto da questo medico igienista ottocentesco, in realtà anche sessuologo, poeta, viaggiatore, antropologo, senatore, un eclettico insomma, che contribuì alla diffusione della conoscenza medica della coca in Europa e che sviluppò un approfonditissimo studio sull’uso delle droghe di tutto il mondo. Nel corso dei miei studi avevo già iniziato a rendermi conto che ciò che stavo studiando faceva parte di una interessante disciplina scientifica che però…. non c’era! E ricordo anche un mio pensiero ironico sul fatto che ero uno studioso di qualcosa che non esisteva. Fu quindi una grande sorpresa trovare il lavoro di Mantegazza, il fatto che anche lui si era posto il problema di cosa stava studiando; l’aveva chiamato “Scienza degli Alimenti Nervosi” – perché a quei tempi le droghe rientravano nella categoria degli alimenti –, affermando che “un giorno non molto lontano tutto questo sarà scienza grossa”. E’ passato più di un secolo, ma la Scienza delle Droghe ancora non ha fatto un passo avanti, anzi la maggior parte degli studiosi non ne contempla nemmeno la possibilità di una sua esistenza. Il sopraggiungere nel XX secolo delle problematiche sociali associate alle droghe e del conseguente moralismo, ha portato a un disinteresse progressivo, sino alla dimenticanza, della possibilità di concepire e del dovere etico di studiare le droghe nei loro aspetti fenomenologici.
Chi è lo studioso che ti ha influenzato di più e di cui apprezzi maggiormente il lavoro svolto?
Direi il caro Albert, che ho incontrato diverse volte – Hofmann intendo – in giro per i congressi e anche a casa sua, a Rittimatte, in Svizzera. Di Hofmann mi piaceva la sua serietà, avevo bisogno di serietà, in mezzo a un mare di dicerie e di studi sulle droghe forzati dalle ideologie e dai moralismi. Ho una formazione scientifica e ho sempre utilizzato nei miei studi un approccio metodologico scientifico. Non mi consideravo uno dei suoi fan, lo trattavo come un collega ricercatore, e a questo Hofmann piaceva. Una volta, a un congresso a Barcellona, quando lui era già ultraottantenne e aveva bisogno di continui riposi, dato che disponevo di un’auto mi chiese di fargli da assistente in quei giorni nelle frequenti trasferte fra la sede del congresso e il suo hotel, perdendoci più di una volta nel traffico barcellonese. Ciò aumentò il livello di confidenza con questo moderno “padre” della ricerca sulle droghe, a cui in certi momenti al congresso di Barcellona dovetti fare anche da guardia del corpo per proteggerlo dalle moltitudini di suoi fans. Quando una volta ironicamente lo chiamai “papà”, lui mi rispose ancor più ironicamente “chiamami nonno”, dove per questo “papà” e “nonno” intendevamo entrambi relazioni più culturali che familiari. E in effetti, a partire dalla prima generazione dei moderni ricercatori sulle droghe – quella di Hofmann, Schultes, Heim, Wasson, ecc. -, mi considero appartenere a una terza generazione di studiosi “drogologi”.
Hai fatto varie esperienze in giro per il mondo… Quale tra le tante ti ricordi maggiormente o reputi sia stata una delle più particolari?
Direi l’esperienza di iniziazione nel culto del Buiti, fra i Fang del Gabon. Un incontro visionario molto profondo, quasi ancestrale, in un contesto un po’ estremo, sia come pratiche che come quantità di sostanza visionaria assunte. Nel mondo tradizionale, tribale, non v’è il concetto di uso “moderato” delle droghe, non v’è spazio per le mezze misure nelle vie di conoscenza (poiché le droghe vengono usate per scopi di conoscenza); dosi forti e tempi lunghi sono richiesti dalle visioni tribali, ed è diffuso il concetto che più le visioni sono sofferte, più sono profonde e cariche di significato. Ma al contempo, nel mondo tribale non si è sviluppato un “problema-droga” come nella società occidentale moderna. Anzi, il concetto occidentale di droga non è riconosciuto: per un Fang del Gabon o per un Jivaro dell’Ecuador le droghe sono quelle portate dagli occidentali, alcol e sigaretta in primis, mentre le sostanze visionarie da loro assunte fanno parte della categoria degli alimenti per l’anima o dei cibi divini, categorie alimentari non contemplate dalla nostra cultura.
Sei stato co-fondatore della Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza, ma dal ‘97 hai deciso di staccarti dalla società, come mai? Non collabori più con loro in nessun modo?
Durante gli anni ’90 in Italia v’è stata un’interessante fioritura di interessi e studi sulle droghe, che portò tra l’altro alla fondazione della SISSC. E’ stata un’esperienza interessante, ma poi a un certo punto discrepanze o altro hanno portato a un allontanamento di diversi studiosi, me compreso. Il fatto è che, pur collaborando frequentemente con terzi a diverse ricerche, mi sento un poco un lupo solitario, è come se fossi in grado di dare il meglio di me lavorando essenzialmente da solo, in mezzo alle mie piante e ai miei libri. Sono molto orgoglioso della mia biblioteca personale, una raccolta di libri nelle diverse lingue datati dal ‘700 a oggigiorno, che è oramai diventato il mio strumento di ricerca più importante. Distribuita nei quattro piani della casa dove vivo, quando mia moglie mi cerca, sono solito risponderle “sono in Africa”, “sono in Grecia”, “sono nel Paleolitico”, indicandole in tal modo la libreria dove potrà incontrarmi.
Il tuo libro Animali che si drogano è uscito da poco in edizione aggiornata, com’è nata l’idea di questo libro? Che riscontri hai avuto?
L’uscita della prima edizione di questo libro, 13 anni fa, fece un certo scalpore fra i media; l’argomento degli animali che si drogano è alquanto appetibile per giornalisti in cerca di curiosità e stramberie. Non ho mai ricevuto critiche serie a questa mia ricerca, ma non ritengo ciò un pregio, bensì frutto dell’indifferenza nell’ambito scientifico a questo tipo di argomento. Un po’ come è il caso dell’omosessualità animale, un comportamento ormai ben accertato in natura, ma che i medesimi etologi tendono a ignorare. Omosessualità e droghe sono argomenti di difficile accettazione in un ambiente di ricercatori la cui visione obiettiva è limitata da personali omofobie e pregiudizi. E il fatto che anche fra gli animali sia diffuso il comportamento di drogarsi rafforza la necessità di una visione fenomenologica di questo fenomeno. E’ per questo che ho voluto riproporre l’argomento in questa nuova edizione dove, oltre all’aggiornamento dei dati, ho esteso l’aspetto teorico, proponendo ipotesi, azzardate o inaccettabili ai più, ma che hanno il pregio di essere ipotesi scientifiche libere da pregiudizi e moralismi.
I tuoi studi ti hanno avvicinato, per forza di cose, al mondo della canapa. Qual è la scoperta sulla canapa più illuminante o inaspettata che hai fatto?
Il mio contributo più importante agli studi sulla canapa riguarda la riscoperta di un insieme di documenti ottocenteschi italiani, attraverso i quali mi è stato possibile ricostruire le fasi storiche, scientifiche e culturali del sopraggiungere della canapa come droga psicoattiva in Italia nell’era moderna. Un pezzo di storia italiana del tutto dimenticata e che ho delineato nel libro “L’erba di Carlo Erba”, frutto del mio appassionato lavoro di ricerca documentativa, salterellando come un forsennato fra le biblioteche di mezz’Italia e i loro frequenti disservizi.
Immagino che i tuoi studi e le tue ricerche dimostrino quanto sia insulso ed ingiustificato il proibizionismo in Italia…
Più che in Italia, ovunque. Culturalmente sono di formazione antiproibizionista, sebbene già da molto tempo mi stiano stretti la dicotomia proibizionismo-antiproibizionsimo e gli aspetti ideologici associati al moderno uso delle droghe. Il mio unico contributo agli aspetti ideologici della questione droga desidero che stia nella seguente considerazione: le droghe, che le vogliamo permettere o che le vogliamo proibire, le dobbiamo comunque studiare.
Puoi anticiparci qualche progetto futuro?
Sto attualmente lavorando a un saggio sull’archeologia delle droghe di tutto il mondo, un lavoro che sto eseguendo insieme al collega Manuel Torres dell’Università di Miami, e che sfocerà nella pubblicazione di un libro negli USA. Mano a mano mando avanti anche un grosso progetto, un Manuale di antropologia delle droghe, dove vorrei raccogliere e sistematizzare i dati antropologici ed etnografici, mantenendo un’osservazione su tutte le popolazioni umane, anche del passato. Un lavoro di diversi anni, che sto svolgendo lentamente, in mezzo ad altri progetti. Poi, volgerò lo sguardo sulle droghe presenti negli altri pianeti.
Lascia un messaggio per i lettori…
Quando si vola, non si devono tenere i piedi per terra, perché servono per atterrare.
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a cura di Enrica Cappello
Pubblicato su Dolce Vita n°48 – Settembre / Ottobre 2013