Il settore tessile è uno dei più importanti dell’economia mondiale, un’industria che coinvolge sessantamilioni di lavoratori e genera un fatturato annuale enorme. Il cotone è la materia prima non alimentare più diffusa al mondo. L’impatto ambientale e sociale dell’attività tessile è significativo tanto quanto quello di settori come il trasporto o l’industria alimentare. Da qualche stagione a questa parte, ogni brand della moda ha proposto almeno un progetto etichettato come eco-friendly, ecosostenibile, eco-solidale, green e via dicendo. Per essere effettivamente ecosostenibile, un prodotto dovrebbe essere locale (se è stato realizzato in una fabbrica dall’altra parte del mondo, ha anche percorso migliaia di km a bordo di inquinanti aerei o conteiner), avere un design semplice, essere durevole, ed essere costituito da materiali naturali e riciclabili. Anche il packaging, che dovrebbe essere ridotto ai minimi termini, ha la sua importanza.
Per il cotone, ad esempio, è stata introdotta la certificazione di coltivazione biologica, come già da anni avviene per frutta e verdura. Lo standard internazionale denominato GOTS (Global OrganicTextile Standard), consente di definire in modo univoco quando un prodotto tessile può essere definito biologico. Nel 2009, Cina, India, Usa, Pakistan, Brasile e Ukbekistan hanno prodotto da soli l’85% del cotone mondiale, con legislazioni piuttosto permissive in termini ambientali. Il cotone, essendo una pianta particolarmente soggetta all’attacco di numerose specie di insetti, richiede grandi quantità di pesticidi e insetticidi. Nelle coltivazioni biologiche, invece, viene effettuata l’eliminazione manuale o vengono “attirati” altri insetti, nemici naturali di quelli infestanti. I vantaggi? Basso impatto ambientale ma anche meno rischi per la salute.
Nella produzione di tessuti biologici si sta riaffermando anche la coltivazione della canapa, che non richiede l’impiego di alcun pesticida, consuma ridottissimi quantitativi di acqua ed è in grado di rigenerare il terreno. È una coltura che può adattarsi a zone geografiche diversissime, dalla Finlandia al Sud Africa, dal Canada all’Australia. Caduta in disuso a causa della concorrenza del nylon, la canapa italiana -ritenuta la migliore al mondo- è stata recentemente riscoperta quale risorsa importante, da cui si possono ottenere tessuti, corde, oli per uso cosmetico, farine per l’alimentazione e anche carta.
Alla famiglia della canapa sativa appartiene anche la pianta della juta, da cui si ricava un filato rigido e molto resistente, usato principalmente per la produzione di imballaggio di beni agricoli sacchi, borse, cinture e tappeti. Dopo il cotone, è la seconda fibra vegetale più diffusa in termini di consumo, produzione, e disponibilità, ed è al 100% biodegradabile e riciclabile.
Altre coltivazioni che offrono simili vantaggi per l’ambiente sono il bambù e l’ortica. Il bambù è una pianta particolarmente tenace e resistente, da cui si ricava un tessuto robusto e traspirante. Il tessuto di bambù contiene un particolare agente anti-batterico chiamato Bamboo Kun, che svolge una naturale funzione anti-batterica e deodorante. La coltivazione dell’ortica, invece, non richiede l’uso di pesticidi e rigenera le risorse del suolo, oltre ad essere coltivabile per più anni di seguito sullo stesso terreno, senza bisogno di essere ripiantata. Se ne ricava un tessuto resistente, antistatico e anallergico, che durante la fase di tintura richiede circa un terzo in meno di colorante rispetto al cotone, poiché assorbe molto bene il colore. Appare simile al lino, ma ha la brillantezza della seta.
Oltre alle fibre naturali più “tradizionali”, sul fronte eco-friendly si segnalano anche materiali innovativi, come ad esempio Jacroki. Venticinque anni fa nasceva Okinawa, azienda che focalizza la sua produzione sull’impiego di materiali riciclabili, applicati a una gamma molto eterogenea di prodotti.
Dopo oltre due anni di ricerche, oggi Okinawa presenta Jacroki, una famiglia di materiali ecologici nati dalla rigenerazione di scarti di lavorazione: un potenziale rifiuto si trasforma così in un’opportunità per la salvaguardia dell’ambiente. L’ingrediente principale è la cellulosa (80%), amalgamata con rifiuti cartacei riciclati e lattice. Jacroki si presenta in un’ampia gamma di colori e spessori, può essere lavato, stampato e ricamato, e si presta ad essere usato nei più svariati settori, dall’abbigliamento all’arredamento, dalla pelletteria alla cartotecnica. Diversi brand, come Armani e Timberland, hanno già scelto Jacroki per le loro collezioni.
Infine, per quanto riguarda le calzature, cuoio e pellami sembrano irrinunciabili, ma non rappresentano la scelta più ecocompatibile. Per la bella stagione, scarpe in canvas o altri tessuti sono la soluzione ideale, mentre per l’inverno c’è la microfibra, un materiale altamente tecnologico ed esteticamente simile alla pelle, che può essere trattato con agenti impermeabilizzanti. Leggero, resistente, traspirante, anallergico, non trattiene il sudore ed asciuga rapidamente. È considerato ecocompatibile perché non contiene amianto, formaldeide, pvc, coloranti azoici e cromo.
Da poliuretano e microfibra di poliammide si ottiene poi la lorica, un materiale molto elastico e con una soffiatura evidente, molto simile alla pelle pur essendo un prodotto totalmente di sintesi. Risponde al principio di salvaguardia ambientale poiché tutti i prodotti utilizzati nelle varie fasi di lavorazione della lorica non sono tossici né nocivi per l’uomo e per l’ambiente, ed è un prodotto anallergico, non sensibilizzante e non irritante.
L’ecosostenibilità è senza dubbio la sfida che la nuova moda dovrà affrontare, senza celarsi dietro mere operazioni di marketing. Il verde è il nuovo nero, una tendenza destinata a durare più di una stagione.
di Erika Centoducati (fonte: dellamoda.it)