Joey Skaggs è un hippy, un genio della comunicazione, un rivoluzionario, un provocatore, un artista della bufala e della beffa, un eroe. In realtà il capellone dalla barba enorme che siede in modo strano alla cattedra dell’aula 124 dello IULM di Milano è tutte queste cose insieme, ma contemporaneamente non ne è nessuna. Sì, perché riuscire a inquadrare Joey Skaggs in una categoria è quasi più arduo che far passare il famigerato cammello dall’altrettanto famigerata cruna di quel famoso ago.
Nella sua vita ha fatto di tutto. Ha organizzato crocifissioni per la Pasqua, un natale vietnamita che costò una serata in prigione a parecchie persone, ma anche una casa chiusa per soddisfare i bisogni sessuali dei cani di N.Y., una traversata dell’oceano in surf, una banca del seme per celebrità. E ancora, ha scoperto i favolosi effetti medici del succo di scarafaggio, i segreti di una dieta “terroristica”, i benefici del coma farmaceutico come vacanza e moltissime altre genialità che condividono tra loro il fatto di essere rigorosamente finte.
Ho incontrato questo fantastico personaggio in una delle sue rare apparizioni italiane, per l’appunto allo IULM di Milano, per la settimana della comunicazione. Ho cercato di scoprire qualcosa in più su di lui, cercando soprattutto di salvaguardare la serietà dell’intervista. A voi valutare se ci cono riuscito. Non so se Joey abbia o meno le carte in regola per sedurvi con la sua prank-philosophy, so soltanto che con me c’è riuscito in meno di mezz’ora.
Se le dessi un minuto per presentarsi cosa mi direbbe?
Beh, che sono un artista. Uso i media come un medium e creo delle situazioni plausibili ma assolutamente finte. Il mio proposito è quello di mostrare come le notizie possano essere ingovernabili, irresponsabili, come saltino alle conclusioni. Per quanto mi riguarda il significato è nella performance. E credo che l’unico modo per far capire il significato al pubblico è di farsi beffe delle notizie e dei media.
Come è arrivato fin qui?
Il mio background culturale è quello classico per questo mestiere. Ho frequentato la High School in Art Design a New York, poi la scuola di arti visive, sempre a New York. Mi sono formato una competenza formale classica, insomma. Poi, crescendo, mi sono guardato intorno e mi sono detto che c’erano troppe questioni inutili che mi stressavano. Non riuscivo a sopportare di dover limitare la mia espressione artistca alle gallerie. Per questo sono andato in strada e sono diventato un provocatore.
Come è riuscito a guadagnassi l’attenzione dei media e del pubblico?
Ho ottenuto l’attenzione dei media per i miei lavori perché lavoravo sulla realtà a colpi di contrasti e paradossi, perché attaccavo lo status quo. Mi concentravo sulla guerra in Vietnam, sul rispetto dei diritti umani, insomma, su tutti quegli argomenti che facevano infervorare la mia generazione negli anni ‘60. Mi accorgevo che i media cercavano di cambiare il significato dei miei lavori per non modificare la propria agenda. Intenzionalmente i media interpretavano i miei lavori distorcendone il significato. Lo facevano soltanto per vendere i loro giornali o per piazzare qualche storia in tv. Evitavano accuratamente di dire che mi schieravo contro la guerra in Vietnam, anche se le mie azioni erano sensazionali – come quella a Central Park del Natale del ‘68, quando molta gente venne arrestata. Non volevano cercare di capire, cercavano sempre di trivializzare, di banalizzare la cosa. Quindi ho imparato in fretta come lavorano i media quando hanno la loro agenda da rispettare. E’ per questo che da quel momento ho deciso di incorporare i media nel mio lavoro, vale a dire di usare i media come i pittori usano la tela. Mi sono messo a creare scenari fittizi ma assolutamente plausibili, li mettevo in atto da solo, con qualche amico o con attori per catturare l’attenzione dei media in modo da far raccontare quella storia.
In che modo?
In pratica ideavo il concetto, lo mettevo in pratica e ne seguivo gli sviluppi, spesso insospettabili. Quando mi accorgevo che intorno alla cosa era montata l’attenzione sufficiente, allora mettevo sul piatto la verità e stavo lì a osservare il castello di carte che crollava. Osservavo le reazioni: molti si arrabbiavano a morte, maledicevano il mio nome, altri se ci erano cascati analizzavano i propri errori. Ma insomma, tutto ciò, dall’ideazione del piano, alla sua realizzazione, al disvelamento e alla registrazione delle reazioni, entrava a far parte della mia performance, era la mia opera d’arte. Lo faccio da decenni, e non vedo nessun motivo per fermarmi perché la satira funziona sempre. Nel frattempo sono state date parecchie definizioni a questo genere di azioni, Culture Jamming, Flash Mob e mille altri, ma si tratta sempre di critica sociale e culturale.
Cosa ne pensa delle definizioni?
Mi hanno definito in mille modi rivoluzionario, hippy, hippy-rivoluzionario, str*nzo, culture jammer, ma tutti i nomi diventano appropriabili, vengono usati e poi si dissolvono. Non amo essere classificato perché le categorie restano legate al proprio tempo. Sei degli anni ‘60, ah bene, allora sei un hippy. La gente prova a metterti in gabbia, cerca di definirti continuamente, ma sono definizioni che precedono l’oblio, l’archiviazione. Il pubblico ti prende per come ti hanno definito e poi prosegue. Per questo non mi piace tentare di definire quello che faccio. Sono un artista, ho un punto di vista e lo esprimo. Faccio satira, puoi chiamarmi str*nzo, non mi importa.
Dove trarre ispirazione per le sue performance?
Mi ispiro a quello che vedo intorno a me, come tutti gli artisti. Guardo il mondo e ci ragiono. Cerco di usare la mia frustrazione e la mia rabbia generata da tutto ciò che nel mondo e nella società contemporanea non funziona e creo qualcosa per rivelarla. Potrei dire che questa è la mia propaganda contro la propaganda.
Come si guadagna da vivere?
Posseggo una Smith & Wesson 9mm e sono piuttosto bravo a usarla. Di solito punto i tour di turisti giapponesi. Poi ho anche una moto e sono un motociclista esperto. Arrivo ti prendo i soldi e tu non riesci nemmeno a capire quanto sono veloce che sono già sparito. Ho tante identità, perché ho moltissimi portafogli rubati. Ho anche soldi di tutte le valute, perché cerco di diversificare i tour operator.
Qual è la differenza tra verità e menzogna?
Dipende dal punto di vista. Proprio oggi è stata rilasciata Amanda Knox, una ragazza americana, dopo 4 anni. Bene, tutto il processo mediatico non è stato incentrato sul fatto che lei dicesse la verità o mentisse, ma sul fatto che gli inquirenti italiani fossero competenti o meno. Quindi la tua domanda non ha alcuna risposta, è un punto di vista. Ho lavorato a un progetto proprio su questo. Ho messo un computer tutte le leggi civili e penali del codice americano. Il programma sostituiva il giudice, gli avvocati e la giuria e ti dava in pochi secondi la sentenza. Veloce, ufficiale, economica. Perfetta.
Cosa le piace dell’Italia?
Mah, ora andiamo a mangiare, bere, poi andiamo a cercare qualche prostituta… eh eh eh.
In tipico stile italiano…
Eh eh eh… sì, sì, potrei contattare il vostro primo ministro…
Effettivamente sembra che sia un esperto della materia. Ma, tornando a cose serie, cosa ne pensa del fatto che la politica utilizzi spesso delle truffe per orientare l’opinione pubblica, penso per esempio alla questione delle armi di distruzione di massa in Iraq? Pensa che le stiano rubando il lavoro?
Eh eh eh… Penso che le tecniche che sono state sviluppate dagli artisti o da chiunque nel corso della storia sono state usate dai politici, e non sto parlando di me o di altri artisti del Novecento. E’ sempre stato così. La propaganda è propaganda. E il migliore di solito vince, non c’è niente di nuovo.
Ah, e allora qual è la prima truffa della storia?
Certamente quella di Adamo ed Eva.
A cui continuano a crederci in tanti tra l’altro…
Eh sì… Assolutamente formidabile…
Quindi Dio è il primo pranker della storia?
Senza dubbio…
Andrea Coccia
fonte: artsblog.it