Accanto ai moduli comportamentali, filogeneticamente determinati ed evidenziati dall’etologia, nell’uomo troviamo una costante neurofisiologica che lo spinge a ricercare attraverso una molteplice varietà di strumenti e tecniche, l’esperienza di coscienza modificata. Questa costante comportamentale ci autorizza, in qualche modo, a parlare di IMPULSO ALL’ESTASI, una sorta di spinta verso il superamento degli ordinari confini psichici. Questo impulso va al di là di qualsiasi distinzione storica, geografica, culturale od etnica. Non è un caso che gli stati modificati di coscienza siano stati, in tutte le società umane, integrati in più vasti modelli culturali, sia pure con funzioni diverse da società a società.
L’importanza della coscienza e dei suoi stati modificati, per lo meno dal punto di vista neurochimico, è una “scoperta” relativamente molto recente, e risale al 1943, quando il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizzò nei laboratori della Sandoz di Basilea la dietilamide dell’acido lisergico, meglio nota con il nome di LSD. Già però verso la fine del secolo scorso si era intuito il valore psicologico della coscienza e dei suoi stati modificati, grazie alle osservazioni di alcuni brillanti ricercatori. Cito, per dovere di cronaca ma senza entrare in merito alle loro differenze teoriche, Charcot, Janet, Moreau de Tours, lo stesso Freud. Purtroppo le intuizioni di questi personaggi furono misconosciute e anche superficiali, a causa della limitatezza delle neuroscienze dell’Ottocento. Inoltre le loro intuizioni si prestarono ad un colossale equivoco, le cui conseguenze si risentono ancora oggi.
La moderna neuropsicologia ha ampiamente dimostrato che non esiste uno stato “normale” di coscienza, così come non esiste un unico stato “modificato di coscienza”. Questi sono fenomeni estremamente variegati e complessi, che vanno, mi ripeto, dall’estasi mistica alla possessione, dagli stati meditativi fino alla deprivazione sensoriale, dalla danza al sogno, all’ipnosi, e via di seguito. Prima di proseguire è forse il caso di definire due concetti di base: stato modificato di coscienza e trance. La definizione che vado a proporre non è ovviamente assoluta, ma solo esplicativa. Per stato modificato di coscienza intendo un’esperienza affettiva e cognitiva diversa da quella vissuta nello stato ordinario di coscienza, assunto come “stato di base”. E’ quindi un nuovo e temporaneo sistema dotato di proprietà uniche sue proprie, una ristrutturazione della coscienza che fa vivere questo stato come un “cambiamento”. Per trance è invece da intendersi null’altro che uno stato modificato di coscienza ritualizzato e istituzionalizzato. Per comodità descrittiva possiamo distinguere tre grosse categorie di stati modificati di coscienza: gli stati meditativi, inducibili attraverso il digiuno, varie modalità di tecniche respiratorie, attraverso l’ipnosi. Gli stati di possessione, derivanti da iperattività motoria o da qualsiasi induzione esogena o spontanea di tipo dissociativo (convulsioni, isteria, etc.). Gli stati sciamanici o visionari, rappresentati da una esperienza principalmente allucinatoria, nella quale un soggetto “vede”, “sente” e “comunica” con ciò che egli crede esterno a sé: Nella maggior parte dei popoli gli stati sciamanici sono in stretta relazione con l’uso di sostanze allucinogene.
Queste tre categorie di trance sembrano indissolubilmente legate al grado di complessità della società e alla sua “qualità”; sono variamente distribuite anche sul piano geografico: ad esempio la trance meditativa prevale nell’Oriente, la trance di possessione trova la sua massima concentrazione in Africa e presso le società di tipo agricolo, mentre la trance visionaria sembra essere storicamente la caratteristica dei popoli di cacciatori-raccoglitori, concentrati nelle Americhe. La “tecnica” per raggiungere un determinato stato modificato di coscienza non sembra – di per sé – molto importante, mentre il problema centrale è – a mio avviso – il risultato che si vuole ottenere, il quale a sua volta è culturalmente predeterminato. D’altra parte ogni tecnica è suscettibile di produrre effetti variabili da cultura a cultura, perfino da individuo a individuo. L’interazione di fattori genetici, culturali, ambientali ed endopsichici determina il prevalere di una scelta di tecnica rispetto ad un’altra, così come il prevalere di un canale sensoriale rispetto ad un altro, venendo a creare popoli prevalentemente “visivi”, altri prevalentemente “uditivi” e via dicendo. Queste caratteristiche psicosensoriali influenzerebbero le stesse esperienze e gli stessi contenuti mentali espressi dall’esperienza di coscienza modificata.
E’ fuori dubbio che fra i molti artefici utilizzati un ruolo particolare spetta alle sostanze allucinogene. In tutte le parti del mondo sono diffuse piante e funghi il cui consumo provoca nell’uomo allucinazioni, visioni, profondi mutamenti emozionali; in tutti i continenti sono esistite – e continuano ad esistere – culture che utilizzano questi particolari vegetali per trascendere la realtà ordinaria e comunicare col mondo del soprannaturale. L’uso di piante allucinogene è una pratica antico quanto l’uomo, e risale certamente al Neolitico, se non addirittura al Paleolitico. Il campo di ricerca costituito dagli allucinogeni, o enteogeni, secondo un neologismo ormai entrato nel linguaggio comune, e il loro rapporto – effettivo o potenziale – con gli stati modificati di coscienza è vasto e complesso: che lo si voglia o meno ammettere esso si estende fino alla creazione dei miti e dei temi ricorrenti in tutte le tradizioni orali, tocca la maggior parte degli aspetti dell’arte e dell’iconografia, dei sistemi tradizionali di percezione e interpretazione della realtà, della vita e della morte.
Non è quindi una forzatura affermare che le piante allucinogene hanno contribuito a formare la storia culturale di molti popoli, poiché è proprio nell’esperienza visionaria che l’individuo la sempre affermato dinanzi a sé stesso la validità delle tradizioni tribali a lui giunte oralmente attraverso i racconti dei vecchi padri. Gli enteogeni sono sempre serviti a dare valore ad una cultura, mai per fruire di un momentaneo mezzo di evasione, se non all’interno delle minoranze giovanili delle società occidentali. Ma queste sostanze sono anche l’arteficio che più di ogni altro, nella nostra cultura occidentale, sembrano suscitare un profondo tabù ed evocare, sia pure inconsciamente, convinzioni che siano un mezzo rozzo, aberrante, o quanto meno il più “artificiale”, il meno “puro”. Esempi di tale prudérie se ne potrebbero fare a decine. Ne bastino due: Mircea Eliade arriva ad affermare che l’uso del fungo Amanita muscaria nello sciamanismo siberiano è una ibridazione storicamente recente e appartenente a classi sociali inferiori. Kerenyi dal canto suo vuol farci credere che un tempo l’uomo possedeva innata la capacità visionaria, e che, perdutala, dovette affidarsi a “mezzi forti”. Sono due ottimi esempi di rimozione e di negazione della realtà, che stravolgono le più elementari evidenze storiche e archeologiche. (continua sul prossimo numero)
Gilberto Camilla – Presidente della SISSC
Pubblicato su Dolce Vita n°3 – Febbraio 2006