L’ ordinamento giuridico italiano, all’apparenza ed asseritamente, sempre molto attento (talora in forma del tutto “acritica”) al rispetto delle fonti di diritto sovranazionale, alla rigorosa attuazione ed al recepimento delle direttive europee, veri e propri incipit normativi comunitari, fortemente condizionanti l’attività legislativa interna, non pare manifestare, però, una simile spiccata sensibilità in relazione alla normativa concernente gli stupefacenti.
La questione della sostanziale distonia fra diritto comunitario e diritto nazionale, deve essere posta, muovendo dall’esame della scelta, radicale e di fondo, di unificare sul piano sanzionatorio tutte le tipologie di sostanza stupefacenti, abolendo, così, le tabelle nelle quali esse veniva divise e ricomprese operata dal legislatore italiano del 2006[1].
La testarda, quanto illogica, volontà di addivenire – come in effetti si è addivenuti – all’abrogazione della naturale distinzione giuridica fra droghe cd. “leggere” e droghe cd. “pesanti”, attraverso l’annullamento del relativo e diverso trattamento sanzionatorio, previsto, in origine dal dpr 309/90, sull’opinabile presupposto di una differente offensività delle stesse, si è tradotta in un gesto legislativo inammissibile, in quanto in irreversibile contrasto sia con i principi indicati nella decisione 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione Europea, sia con l’onere costituzionale trasfuso nell’art. 117 della Costituzione italiana.
Va rilevato, che la richiamata risoluzione comunitaria è stata concepita ed adottata nei paesi appartenenti all’Unione, come strumento idoneo ad costituire denominatore normativo chiaro e coerente, al fine di implementare il contrasto al traffico illecito di sostanze stupefacenti. A tale logica rispondono, infatti, le linee guida in esso contenute, le quali assolvono al fine di rendere maggiormente omogenee tra loro le singole previsione legislative nazionali, prevenendo ipotetici conflitti, che lederebbero l’efficacia dell’intervento preventivo-repressivo in materia.
Rileva, ai fini della presente trattazione, l’esame del punto n. 5 delle considerazioni preliminari della decisione 2004/757/GAI, che costituisce passo di carattere generale e, comunque, propedeutico all’impianto normativo propriamente detto, che al successivo art. 4, traduce in termini specifici l’indicazione generale.
Il punto n. 5) afferma che la sanzioni concernenti le condotte illecite in materia di stupefacenti, devono ispirarsi ai principi della “efficacia”, “proporzionalità” e “dissuasività”.
Tra questi tre canoni fondamentali, quello che più significativamente si pone in correlazione con le sanzioni previste dall’art. 73 co. 1 e 5 dpr 309/90, appare quello della “proporzionalità” della pena.
Esso risulta di specifica importanza tanto a livello di legislazione comunitaria, quanto sul piano del diritto interno italiano, posto che non è, affatto, revocabile in dubbio il suo rango costituzionale, desumibile dal combinato disposto dagli artt. 3 e 27 commi 1 e 3 Cost.[2]
Denominatore comune della legislazione interna, oltre che di quella europea è, dunque, quello di dare corso ad una effettiva diversificazione di singole situazioni, agendo in tal senso sulla base di paradigmi di carattere eminentemente oggettivo (quale può essere, ad esempio, il quantitativo di sostanza stupefacente).
Affinchè il criterio della “proporzionalità” non rimanga, però, una semplice e mera espressione di una petizione di principio, di natura generica ed astratta, il punto n. 5) della decisione del Consiglio dell’Unione Europea offre specifici e concreti canoni ermeneutici tendenzialmente fattuali.
Questi parametri devono, quindi, essere destinati all’individuazione dei limiti di pena e, tra essi, riveste una peculiare importanza “la natura degli stupefacenti oggetto di traffico”[3].
Appare, dunque, evidente che, in base ad una simile indicazione, il principio della “proporzionalità” della pena, si debba necessariamente coniugare con quelli della “offensività” e della “tassatività”.
La rilevanza del principio di “offensività”, allo scopo di individuare, in modo corretto e rispettoso dell’equazione fra fatto e sanzione concreta, la pena da prevedere in relazione ad una specifica ipotesi di reato, appare assoluta.
Il principio di “offensività” diviene, quindi, al contempo, presidio di “controllo delle scelta di politica criminale” e “criterio ermeneutico indirizzato al giudice”[4].
“Offensività”, dunque, come termometro del grado di antigiuridicità di un fatto o di un comportamento, ma – in pari tempo – anche quale parametro del tipo di riprovazione sociale di una condotta, od ancora, del livello di protezione e di tutela di un preciso bene giuridico.
Se, dunque, il legame fra proporzionalità ed offensività, appare, alla luce della considerazioni che precedono, simbiotico e diretto, esso, una volta calato nella realtà affrontata dalla decisione 2004/757/GAI, non pare, però, affatto rispettato e declinato dalla struttura dell’art. 73 commi 1 e 5 dpr 309/90, così venutasi a delineare a seguito della novella del 2006.
Come si è già avuto modo di affermare, uno dei profili salienti e di decisiva discontinuità introdotto dalla L. 49/2006, rispetto ai testi previgenti (L. 685/75 e lo stesso dpr 309/90) è consistito nella piena e completa equiparazione del trattamento sanzionatorio di sostanze stupefacenti e psicotrope , tra loro, affatto differenti.
Il generale giudizio di nocività che naturalmente connota l’assunzione di tutte le sostanze stupefacenti ed il carattere di presidio alla tutela collettiva ed individuale della salute (sia sotto il profilo repressivo, che sotto quello preventivo) hanno costituito, ad avviso del legislatore italiano, il fondamento di una scelta, per vero, assolutamente opinabile sul piano logico ed in netto contrasto con una fonte di diritto sovranazionale.
L’omologazione sanzionatoria tra sostanze che già, a parere della stessa comunità scientifica internazionale, vengono individuate come, indubbiamente, differenti tra loro, non solo per specifiche caratteristiche organolettiche, ma, soprattutto, in relazione al tipo di conseguenze (psico-fisiche) che la loro assunzione produce, ha, dunque, determinato, in forza della sua disapplicazione,un vulnus del ricordato principio di offensività.
La previsione normativa di una pena assolutamente identica (nel minimo come nel massimo edittale), in relazione a precisi e dettagliati comportamenti, aventi ad oggetto prodotti, che, seppur tutti classificati come illeciti, esprimono una diversa, quanto evidente, capacità di attentato alla salute di ne faccia uso, non appare, pertanto, affatto improntata a canoni di ragionevolezza o logicità.
La denunziata elusione del principio di “offensività” – nella fattispecie – si traduce ulteriormente nella lesione del principio di “proporzionalità”, inteso come “espressione di un equilibrio logico-etico-giuridico fra condotta illecita e relativa ricaduta sanzionatoria”.
Costituisce chiara evidenza, quindi, la considerazione che non si possa mai comprimere abnormemente la discrezionalità del legislatore, nella parte in cui essa concerne il “livello ed il modulo di anticipazione della tutela”[5].
Va, però, sottolineato come il timore di una indebita invasione delle competenze proprie ed istituzionali del legislatore interno, però, non può venire fecondamente paventato, nel caso in cui, una volta ritenuta pacifica l’operazione di costruzione dell’illecito penale – da parte dell’ente sovranazionale -, egli debba dare corso all’individuazione e tipizzazione di specifiche situazioni precettive, attenendosi alle linee guida di carattere generale.
Esiste, dunque, un vincolo gerarchico – inderogabile – nell’ambito dell’esercizio del potere legislativo.
Non si tratta, però, nel caso di specie, di svolgere un’attività di sindacato che investa scelte di politica criminale, le quali riguardino la precisazione di quelle condotte che si impongano come espressione di presunzioni di pericolo o la identificazione del limite oltre il quale il pericolo (riconducibile intimamente alla condotta) appare genericamente irrilevante.
Nel caso che ci occupa, invece, una volta individuato un condiviso denominatore comune di illiceità rispetto a tutta una serie di condotte tipizzate in materia di stupefacenti, si rende (e si rendeva) assolutamente necessaria l’adozione – da parte del legislatore – di un criterio idoneo a graduare il tenore di offensività, che possa connotare le sostanze oggetto delle condotte sanzionate.
Ciò non è, affatto, avvenuto e, dunque, questa omissione costituisce il primo pesante rilievo che deve essere mosso alla novella del 2006.
Vi è, però, di più.
Si impone, infatti, ai fini che ci occupano, la preliminare disamina della effettiva natura della fonte di diritto comunitario.
Si deve, quindi, procedere ad identificare a quale categoria di fonte del diritto della UE, la decisione 2004/757/GAI appartenga.
Pare di poter dire che la soluzione del quesito sia agevole ed incontroversa, nel senso di collocare la categoria delle “decisioni”, nella classe della “fonte del diritto derivato”, in quanto tale specie normativa (tipica del sistema legislativo UE) presenta carattere di atto unilaterale.
L’inserimento sistematico della classe delle decisioni (cui fa parte a pieno titolo la 2004/757/GAI) nella citata categoria, permette di affermare che ci si trova dinanzi ad una espressione normativa, la quale, in quanto “linea guida” internazionale, presenta un marchio di vincolante cogenza per i diritti interni degli stati appartenenti all’Unione Europea, i quali devono adeguare inderogabilmente le loro statuizioni ai dettami così stabiliti.
La conclamata posizione di prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno risulta condizione, ormai, assolutamente pacifica, in quanto supportata – da lungo tempo – in modo costante da pronunzie giurisprudenziali, come, ad esempio, quella n. 170/84 della Corte Costituzionale.
Consegue, pertanto, che l’estensione della sfera di applicazione di detto principio anche alle vere e proprie fonti del diritto comunitario, determina “la non applicazione da parte del giudice nazionale e degli organi amministrativi (per questi ultimi V. sent. n. 389 del 1989) delle norme interne contrastanti con l’ordinamento comunitario”[6].
Balza all’evidenza come il principio appena riportato appaia del tutto pertinente alla situazione di conflitto, che si va, in questa sede, esaminando e non richieda commenti di sorta, per la sua lapidaria chiarezza.
Come è stato affermato dalla Consulta nella citata sentenza n. 170 del 1984, la ratio della prevalenza accordata al diritto comunitario è ravvisabile sulla base della “distinzione (e nello stesso tempo) e del coordinamento tra i due ordinamenti”.
La attività di produzione legislativa di diritto nazionale deve, quindi, svolgersi nel rigoroso e tassativo rispetto degli obblighi comunitari vigenti, giusto il disposto dell’art. 117 comma 1 e 2 Cost.
La norma appena richiamata pone, infatti, espressamente in correlazione l’esercizio della potestà legislativa con i “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
L’esistenza di una previsione del tipo di quella trasfusa nell’art. 117 Cost. Costituisce, poi, sul fronte del diritto interno, prova ulteriore del grave inadempimento dello Stato italiano e della fondatezza della questione che si va esaminando.
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Attese le univoche premesse sino ad ora sviluppate, emerge non solo il palese contrasto fra la norma comunitaria ricordata e l’art. 73 comma 1 e 5 dpr 309/90, ma, soprattutto, affiora una duplice condizione di grave inerzia, espressione di un inadempimento che coinvolge anche la Unione Europea.
Da un lato, infatti, appare evidente come l’Autorità comunitaria, sempre assai sensibile – come già detto – in materie di importanza notevolmente inferiore a quella in questione, tolleri ingiustificatamente il mancato adeguamento della legislazione italiana alle tassative e precise indicazioni europee, senza elevare una procedura di infrazione a carico dell’Italia.
Dall’altro, inoltre, risulta assolutamente ingiustificata la scelta del Governo italiano, operata con la novella del 21 febbraio 2006, di disattendere platealmente il dettato della decisione 2004/757/GAI e, in pari tempo, di derogare al dettato costituzionale dell’art. 117, attraverso la irrazionale ed illogica omologazione del trattamento sanzionatorio concernente sostanze stupefacenti ictu oculi, tra loro, del tutto differenti.
La nuova formulazione del comma 1 dell’art. 73 dpr 309/90 (e del comma 5 dello stesso articolo), nella parte in cui si stabilisce una unica pena (per il co. 1 da 6 a 20 anni di reclusione e da € 26.000 ad € 260.000 di multa, mentre per il co. 5 da 1 a 6 anni di reclusione e da € 3.000 ad 26.000 di multa), appare insensata e contraria a massime scientifiche e di logica, ma, soprattutto, tangibilmente lesiva del criterio di proporzionalità che proprio l’art. 4 comma 1 della decisione 2004/757/GAI sancisce inequivocabilmente.
La opinabile scelta di politica criminale del Governo italiano – come si è avuto modo di sottolineare – si pone in contrasto con l’art. 117 Cost., siccome si rivela incompatibile con quelle indicazioni di carattere generale del diritto comunitario, cui essa avrebbe dovuto tassativamente conformarsi.
Vi è, poi, da rilevare come l’opzione – tradottasi nella L. 49/2006 – si riveli come particolarmente grave, in quanto scientemente adottata, addirittura, successivamente alla promulgazione e vigenza della norma comunitaria di riferimento!
Il legislatore italiano (che non poteva, certo, ignorare la esistenza e la forza vincolante della pregressa decisione europea) ha, dunque, deliberatamente inteso porsi in contrasto con la fonte gerarchicamente superiore (il diritto comunitario), determinando, al contempo, anche una distonia assoluta, sul piano normativo, anche con la propria legge fondamentale: la Costituzione.
Ritiene chi scrive che la questione possa e debba trovare soluzione solo con la sua devoluzione alla Corte Costituzionale.
Il giudice delle leggi deve essere chiamato, quindi, a valutare se – come sembra – nella scelta di unificare il regime sanzionatorio concernente le condotte relative agli stupefacenti, rendendolo comune a tutte le le sostanze, non si debba ravvisare il contrasto con gli artt. 3, 24, 27 e 117 Cost. .
Questo, a parere dello scrivente, deve essere il nucleo fondamentale della disamina, che si auspica.
Vale a dire, quindi, che il quesito va posto nei seguenti termini e cioè se “risulti costituire previsione tassativa e vincolante, per il legislatore interno, quella di individuare fra i vari canoni idonei a determinare l’entità della pena anche la natura degli stupefacenti oggetto di traffico, così come stabilito dall’art. 4 comma 1 e dal punto n. 5) della decisione 2004/757/GAI e se il mancato recepimento, in relazione al dpr 10 ottobre 1990 n. 309, (in materia di regolamentazione delle sostanze stupefacenti), di queste tassative indicazioni normative internazionali, da parte del nostro ordinamento, determini la illegittimità costituzionale dell’art. 73 co. 1 e 5 dpr 309/90 così come modificato dalla L. 21 febbraio 2006 n. 49, per contrasto con gli artt. 3, 24, 27 e 117 Cost.”.
di Carlo Alberto Zaina
Fonte: Aduc.it