Viaggio attraverso i campi profughi di India e Nepal dove vivono migliaia di tibetani. A spingerli alla fuga è soprattutto il bisogno di preservare il proprio patrimonio culturale.
9 aprile 2004 – Ventisette milioni di bambini in Cina non vanno a scuola, il 10 per cento della popolazione fra i sei e i dieci anni. A riportarlo è Radio Free Asia che cita come causa dello scarto, una combinazione di povertà e discriminazione che colpisce le comunità più isolate e le minoranze etniche. Come i tibetani, costretti a spedire i figli oltre confine pur di garantire loro un’istruzione elementare.
Nell’ultimo anno 4.600 persone hanno attraversato la frontiera tra Tibet, Nepal e India. “La maggior parte” dice Kalsang Chimi, direttore del Tibetan Reception Center a Kathmandu: ” sono giovani fra i sei e i trent’anni”. L’esodo, lungo settimane attraverso le montagne himalayane, è iniziato cinquant’anni fa. Dal ’59, quando l’esercito popolare cinese completò l’occupazione del Tibet, migliaia di tibetani si sono rifugiati in Nepal e in India per sfuggire alla persecuzione religiosa e cercare di preservare le basi della loro cultura. In Tibet i cinesi hanno distrutto scuole, biblioteche, luoghi di culto e opere d’arte e hanno imposto l’uso della lingua cinese-mandarino nelle scuole. Chimi spiega: “Molti profughi tibetani sono monaci e monache buddisti. Scappano dai monasteri per continuare i loro studi e le loro pratiche. Temono le persecuzioni da parte dei militari cinesi. Pechino sta attuando una campagna di rieducazione impedendo persino il possesso di immagini del Dalai Lama. E’ molto difficile per un tibetano entrare in monastero senza il permesso delle autorità cinesi”.
Le vittime della persecuzione cinese sarebbero più di un milione. “In questa tragedia, non ci sono solo morte e sofferenza, ma il rischio della scomparsa di un’intera cultura, basata sugli insegnamenti buddisti di nonviolenza e rispetto per gli altri”. Con queste parole ci accolgono Francesca ed Enza, volontarie dell’organizzazione Yeshe Norbu, di ritorno da un viaggio nei campi profughi nepalesi e indiani. E’ un pomeriggio di sole sulle colline toscane, nell’istituto buddista Lama Tzong Khapa, dove in una stanzetta, ha sede l’associazione. Il Tibet non sembra così lontano.
“Arrivavano ininterrottamente, stremati per il cammino”, dice Francesca. “Gli esuli fuggono a piedi da 4-5mila metri di altitudine. Alcuni si fermano nelle case d’accoglienza del Nepal occidentale. Altri proseguono in India, dove vengono smistati nei campi dell’Himachal Pradesh a nord (tibetano fino agli anni ’50) o del Karnataka a sud. Spesso si ricongiungono coi parenti, fuggiti qualche anno prima”.
Anche da esuli la vita è difficile. “In Nepal” prosegue la volontaria: “Si dedicano a lavori di artigianato. Negli ultimi mesi però i guadagni sono stati scarsi perchè il turismo è molto calato a causa della guerra tra ribelli maoisti ed esercito governativo. Nella zona meridionale di Sera Je, in India, dove i turisti non arrivano, coltivano il mais. In inverno, invece, comprano maglioni e cappelli che vanno a vendere nei mercati del nord”.
Nei campi il cibo è scarsissimo, le case sono baracche e viene garantita solo l’istruzione di base. “Ci occupiamo in particolare delle persone più fragili: bimbi, anziani e disabili”, spiega Enza. “Nel monastero di Sera Je ci sono 3600 monaci. Nel raggio di cento chilometri sono sparsi 18 campi profughi, popolati da 25mila persone”. Un’immensa tendopoli nella culla del boom informatico ed economico dell’Oriente. Sera Je si trova nella regione di Bangalore, la cosiddetta Sylicon Valley indiana.
Il grande monastero buddista di Sera Je, uno dei più importanti dell’India, è stato costruito proprio dai monaci fuggiti alla fine degli anni ’50. In Tibet c’erano circa 7mila costruzioni religiose, quasi tutte sono state distrutte dopo l’invasione cinese. Il governo indiano mise allora a disposizione dei tibetani un terreno agricolo nel sud del Paese, dove i profughi iniziarono un’opera di ricostruzione. Qui trovarono condizioni di vita molto diverse da quelle dell’altopiano tibetano: clima caldo e umido, cibo scarso e malattie tropicali sconosciute, come tubercolosi e malaria.
“Solo negli ultimi anni” dichiarano le operatrici dell’Ong “La situazione è migliorata grazie all’intervento delle organizzazioni umanitarie locali e straniere”. Uno dei campi profughi nepalesi si trova, invece, nel luogo sognato dagli alpinisti di tutto il mondo: la regione del Solu Khumbu ai piedi dell’Everest, da cui partirono anche le spedizioni di Raynold Messner e regno degli Sherpa (gente dell’est) tibetani. (fonte: peacereporter.net)